Introduzione di Sposetti Corteselli - Toscanella - Omni@tuscania

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Introduzione di Sposetti Corteselli

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Nel Proemio Francesco Giannotti (1533-1607) elenca i motivi che lo hanno spinto a scrivere il suo Breve e compendioso discorso dell'antichità di Toscanella la quale, secondo lui, deve “essere stata molto antica et nobile Città”, perché così dimostrano le sue numerose vestigia. Ma il frate Giovanni Annio da Viterbo nega queste evidenze e vuole far credere che Viterbo sia l'anticaCittà Etruria. E dal momento che Giannotti lo chiama spesso in causa è bene farne un breve accenno. Giovanni Annio (o Nanni, 1432-1502) fu frate domenicano presso il convento di S. Maria di Gradi in Viterbo, dotato di una vasta erudizione, scrisse varie opere, molte delle quali sono da lui ricordate nelle Antiquitates. Su Viterbo scrisse Viterbiae Historiae Epitoma; a Ranuccio Farnese dedicò De Viterbii viris et feminis illustribus (1492); ad Alessandro Farnese dedicò, invece, De origine Italiae Alexandrina lucubratio (1495). Nelle sue immaginazioni Annio faceva discendere la famiglia Farnese da Osiride, ed introduceva elementi fantastici sulle origini della città di Viterbo. Infatti, nel tentativo di ricostruire la storia di questa città, creava egli stesso testi latini e greci e addomesticava i passi degli antichi scrittori. E' rimasta celebre la sua invenzione del cosiddetto decreto di Desiderio, per cui è passato alla storia come “un falsario di un certo genio, ispirato soprattutto da un eccessivo amor patrio”. In un recente libro, anche se compilato in modo rigoroso, si cerca tuttavia di riabilitarlo asserendo: “Non ha quindi Nanni una visione ristretta e campanilistica, sebbene egli dica: “Nam in hac nostra diffusa planitie agroque Viterbio ac urbe suis nominibus omnes pagos posuerunt et oppida, quibus ad hanc aetatem nominantur”, cioè: “Infatti in questa nostra spaziosa pianura e nel territorio e nella città di Viterbo fondarono tutti i villaggi e castelli, dando ad essi i loro nomi, che perdurano sino ai nostri giorni”.
Ma per avere un'idea di come Annio concepisse la storia di Viterbo, leggiamo un passo [47-58] tratto dalla sua Epitome: “Eamdem, ut diximus, Biturgion appellavit Osiris, Herbanum a fundata arce Hercules, quam ampliatam et quam maxime munitam ab inventa hasta et pilo Longulam cognominavit Tyrrhenus et a se fundatam circum urbem nominavit Tyrrhenam; mox a sacrifico ritu et multo ture ad aras cremato cognomentum accepit ab Etruscis Etura, a Latinis Etruria, a Graecis Tuscae in plurali vel Tusca in singulari. Plinius Tuscanienses dixit et Tuscos, qui, diruto suburbio Surrinia, coloniam Tuscanellam ad Martis amnem posuere. Idcirco non Tusca vel Tuscae, sed deminutive Tuscanella dicta est, quod non omnis urbs Tusca sed solum pagus Surrinius illo se contulit. Unde et ab urbe cives illi et nomen propagatum derivatumque fuit”; cioè: “Da Osiride, come abbiamo detto, fu chiamata Biturgion, da Ercole Erbano, dalla rocca che vi pose, la quale Tirreno chiamò Longola, dopo averla ingrandita e resa fortissima, per avervi trovato una lancia e un giavellotto, mentre chiamò Tirrena la città da lui fondata nelle vicinanze; poco dopo, per i riti sacrificali e per il molto incenso bruciato sugli altari, fu chiamata dagli Etruschi Etura, dai Latini Etruria, dai Greci Tusce al plurale o Tusca al singolare. Plinio chiamò Tuscaniesi e Tusci coloro i quali, dopo aver distrutto il sobborgo di Surrinia, fondarono la colonia di Toscanella, presso il fiume di Marte [il Marta]. Perciò fu denominata non Tusca o Tusce ma col diminutivo Toscanella, perchè non tutta la città di Tusca si trasferì colà, ma soltanto il sobborgo Surrinio. Quindi dalla città derivarono e si diffusero sia i cittadini sia il nome“.
Se Annio si fosse limitato ad esaltare la sua patria, avrebbe suscitato soltanto la reazione e la critica degli storiografi. Ma egli, nelle sue lunghe elucubrazione, non si astiene dal denigrare altre città, soprattutto Tuscania, sotto la cui giurisdizione ecclesiastica Viterbo dovette sottostare per molti secoli. E questa verità storica ha sempre costituito un motivo di astio, soprattutto da parte del clero viterbese.
Inoltre Annio, non solo ha denigrato Tuscania, ma ha cercato anche di appropriarsi del suo nome prestigioso e di molte altre sue dignità.
Conseguentemente questo suo comportamento ha provocato la reazione di Francesco Giannotti che, in quei tempi, apparteneva ad una nota famiglia di Tuscania i cui membri avevano ricoperto varie cariche in questa città.
Quando Annio scriveva le sue Storie, Viterbo era una delle più importanti città della Tuscia, per cui le opere anniane furono in parte stampate ed in parte, comunque, portate a conoscenza dei vari studiosi, alcuni dei quali, senza porsi tante domande, prestarono fede alle fantasticherie di quel frate, come affermò George Dennis. Altri studiosi più recenti si sono limitati ad inserire Annio nella cosiddetta Etruscheria, quella fase, cioè, che segna l'inizio degli studi dell'Etruscologia. Quando, invece, Giannotti, verso la fine del 1500, scriveva la sua “arringa” contro Annio a difesa di Tuscania, questa città era ridotta ad un modesto paesino di campagna, devastato dal sacco di Carlo VIII nel 1495 e dalle pestilenze dei Lanzichenecchi nel 1527. Per cui nessuno ebbe cura di pubblicare e di far conoscere agli studiosi il suo manoscritto che, anzi, rimase sepolto per molti lustri negli archivi delle chiese di Tuscania e, solo successivamente, fu consultato dal Turriozzi, dal Campanari e da pochi altri che lo compulsarono, estraendone le notizie più interessanti.
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Il libro che il Giannotti scrisse verso il 1590, intitolato Breve e compendioso discorso dell'antichità di Toscanella, trova, dunque, la sua genesi nelle provocazioni contenute nelle opere di Annio e poi nella riscoperta del mondo antico nel Rinascimento. Gli studiosi e gli eruditi di quell'epoca, nella dedizione fervorosa per gli autori classici, facevano a gara nel cercare di trovare nobili origini alle loro città natali. Quando queste città trovavano esplicita citazione negli antichi scrittori (Cicerone, Strabone, Livio, Plinio il Vecchio e Plinio il Giovane, Virgilio, ecc.), le rievocazioni storiche delle stesse erano rimarcate ed esaltate. Ma quando non si trovava una esplicita citazione, alcuni autori provavano ad alterare i testi o, addirittura, ad inventare scritti e a produrre documenti apocrifi, come fece Annio, “alterando a proposito”. Anche Giannotti risentiva di questo clima e, certamente, non poteva tollerare la denigrazione di Tuscania che, seppure menzionata solo da Plinio il Vecchio, era contornata da un mare di reperti etruschi, romani e medioevali che attestavano, in modo inconfutabile, il suo antico splendore. E' questa la genesi del compendioso discorso di Giannotti e della sua lunga requisitoria contro Annio, che è pienamente giustificata perché palesemente provocata.
Ma anche Giannotti non va esente da alcuni rilievi di fondo. Innanzi tutto la polemica con Annio è prolissa e, alla fine, diventa ripetitiva e noiosa; inoltre anche lui cerca di “forzare” l'interpretazione dei testi classici, specialmente quando parla di una fantomatica città “Etruria” che doveva identificarsi con Tuscania, senza, per altro, esibire prove concrete, ed inserendo alcune esagerazioni. Quando Giannotti incominciò a scrivere le sue memorie, probabilmente si trovava a Roma da diversi anni, dove aveva acquisito la cittadinanza romana nel giugno 1569, come egli tiene a sottolineare nel corso della narrazione. Fu in relazione con molti eruditi del tempo ed anche con il poeta Ongaro (1560-1593) il quale, da Padova si era trasferito a Valentano, dove aveva sposato una donna del luogo.
Dicevamo che lo scritto di Giannotti è suscettibile di alcuni rilievi critici, ma è anche un'opera nel complesso valida, specialmente quando descrive la città, considerando che, ai suoi tempi, l'impianto della stessa, nonostante le continue devastazioni, era rimasto quello originario. Sono indubbiamente pregevoli le pagine che contengono il lungo elenco delle contrade di Tuscania, il cui nome, anche se espresso in forma dialettale, coincide quasi sempre con quello riportato negli atti pubblici. Commovente è l'elenco e la descrizione dei saccheggidella città, che si sono protratti fino al 1527, con la calata dei Lanzichenecchi i quali, oltre a devastare selvaggiamente Roma, indirettamente provocarono lutti e rovine anche a Toscanella, come “gli raccontava suo padre”. E poi il Giannotti si avventura nel lungo elenco dei Castelli che stavano sotto la giurisdizione della Comunità: gliene attribuisce addirittura 62. Il che sembra eccessivo, perché molti non erano castelli, cioè entità inserite nel territorio comunale, ma paesi o piccole città autonome che avevano sottoscritto giuramento di fedeltà o atto di sottomissione alla Comunità di Toscanella, come Canino e Montalto di Castro.
Nel periodo di massima espansione la popolazione di Tuscania era stanziata su sette Colli. Il primo è la Civita, con il colle di S. Pietro, la zona più antica e nobile, dove sono stati rinvenuti ruderi di edifici etruschi e romani. Il tempio di S. Pietro, in cui nel 322 furono sepolti i corpi dei SS. Martiri, viene considerato da Giannotti il cuore del Patrimonio di S. Pietro in Tuscia. E poi in questa zona ci sono molte altre chiese, ma la più importante è S. Maria Maggiore in Pantano, antichissimo tempio costruito su precedenti edifici romani.
Il secondo colle è Monti, dove si trovava il Palazzo Vecchio dei Governatori. Dopo il ridimensionamento della città, la popolazione abitava soltanto nei cinque colli entro la ridotta cinta muraria, cioè Poggio, con la Rocca, la Dogana, il Palazzo Tartaglia e varie chiese; Montascide, con S. Marco, S. Maria delle Rose e annesso Episcopio; San Pellegrino, con S. Silvestro; Cavaglione, col grande Monastero di S.Paolo; Giove, con due chiese e due ospedali.
Giannotti elenca ben sedici saccheggi, ma è certo che dovevano essere più di trenta, senza prendere in considerazione il periodo etrusco e romano, rimasto sempre privo di testimonianze letterarie. Dal medioevo in poi, Tuscania subì i seguenti saccheggi: nei secoli V-VIII, ad opera dei Goti, Visigoti, Vandali e Longobardi; nei secoli VIII-IX, al tempo di Ludovico imperatore e di papa Gregorio IV (827-844); nel secolo IX, al tempo di papa Leone IV (847-855), ad opera dei Saraceni; nel secolo X, al tempo di papa Giovanni X (914-928), ad opera dei Saraceni e degli Ungari; nel secolo X, al tempo di papa Stefano VII (928-931) ad opera dei Saraceni; nel secolo XI, al tempo di papa Gregorio VII (1073-1085), ad opera della Chiesa nel 1077; nel secolo XIV, al tempo di papa Bonifacio VIII, ad opera dei Romani nel 1300; nel secolo XIV, nel 1320 al tempo di papa Giovanni XXII (1316-1334); nel secolo XIV, ad opera degli Orsini nel 1350, sotto il pontificato di Clemente VI (1342-1352); nel secolo XV, nel 1402 al tempo di papa Bonifacio IX (1389-1404); nel secolo XV, al tempo di papa Martino IV (1417-1431); nel secolo XV, ad opera di capitani di ventura nel 1442, al tempo di papa Eugenio IV (1431-1447); nel secolo XV, nel 1451, al tempo di papa Nicola V (1447-1455); nel secolo XV, nel 1480, al tempo di papa Sisto IV (1471-1484);nel secolo XV, ad opera delle truppe di Carlo VIII, nel 1495; nel 1496 e nel 1497 ad opera di Carlo Orsini e di Vitellozzo Vitelli; nel secolo XVI, ad opera dei Lanzichenecchi, agli ordini degli Spagnoli, nel 1527.
Di fronte ad tutte queste devastazioni, che si sono ripetute con frequenza e feroce accanimento, il lettore non può non farsi alcune domande. Infatti quelle avvenute nell'Alto Medioevo potevano trovare una qualche logica spiegazione, in considerazione che la città, essendo a capo di vasti possessi ecclesiastici, doveva per forza attirare l'attenzione dei vari invasori di turno.
Ma dopo il 1192, Viterbo, assunto il titolo di città e sede vescovile, divenne il centro più importante della Tuscia, mentre Tuscania lentamente si spopolava e perdeva ogni importanza politica e militare. Ed allora come spiegare i numerosi saccheggi avvenuti nei secoli XIV e XV? Se non sempre è ammissibile parlare di fatalità o di sfortuna, allora potrebbe aiutare l'assunzione di una certa logica investigativa, la quale fa scaturire il sospetto che, alcuni o molti di quei saccheggi, fossero operati su commissione, istigati cioè da qualcuno cui il solo nome di “Tuscania” dava ancora fastidio; e fremeva dal desiderio di farla scomparire dalla faccia della terra, come avvenne per Castro nel 1649, ad opera delle truppe di Innocenzo X. Tanto più che le peggiori devastazioni furono operate dalle truppe straniere, come il sacco di Carlo VIII nel 1495, che non trova logica spiegazione se non nella insinuazione sopra riferita. Infatti sembra certo che le truppe del Gran Bastardo infierissero selvaggiamente sui cittadini e sulla città senza alcuna plausibile provocazione, in quanto il Giannotti attesta non essere vero che i Tuscanesi negarono la fornitura di vettovaglie alle truppe francesi. Si tratta di un avvenimento che presenta molti lati oscuri, tanto più che la documentazione di quel periodo non è disponibile.
Lasciando da parte la genesi di tutti questi saccheggi, il Giannotti fornisce altri argomenti di indubbio interesse storico, come la dettagliata analisi della crisi dell'agricoltura e dell'allevamento del bestiame (costituente un tempo la ricchezza del territorio), che, unitamente ad una opprimente tassazione, aveva ridotto allo stremo la popolazione tuscanese. Da una lettura frettolosa sembrerebbe che i continui riferimenti agli antichi scrittori derivino da semplici esternazioni erudite. In realtà le citazioni del Giannotti suscitano problemi che hanno impegnato, ed impegnano anche oggi, intere schiere di studiosi. Mi riferisco alla individuazione di Corythus citato da Virgilio (Eneide) al verso 10 del canto IX: “Nec satis: extremas Corythi penetravit ad urbes”, la cui interpretazione, dal tempo di Servio (e) Danielino ai commentatori attuali, non ha trovato pacifica soluzione. Ma la diatriba rientra nella più vasta questione dell'antiqua mater, la cui ubicazione nella Tuscia viterbese, tra i fiumi Mignone e Marta (Larthe) sarebbe più coerente con il raggio d'azione dell'epopea troiana, a differenza di Cortona (Arezzo), comunemente identificata con Corito. La identificazione di Corythus (Corito) ed il riferimento a Dardano ripropone la vexata quaestio del mito troiano sulle origini di Roma. Virgilio adotta la tradizione secondo cui Dardano sarebbe nato a Corito, emigrato poi dalla penisola italica in Frigia dove, sposando la figlia del re di Creta, avrebbe fondato la dinastia da cui sarebbero discese le famiglie di Troia. Tale leggenda appagava l'orgoglio nazionale dei Romani, presentando i Teucri, non come stranieri invasori, ma popolazioni dalle antiche origini italiche, determinando nel poema virgiliano l'affannosa ricerca dell'antiqua mater da parte degli esuli troiani, il loro drammatico ritorno, cioè, alla terra del loro capostipite.
Attualmente l'intera questione è stata trattata con avvincenti e convincenti argomentazioni dallo storico Andrea Giardina che ha dedicato un intero paragrafo alle “Origini troiane e lo stile della storia romana”. Giannotti cita poi il verso 597 (Eneide, canto VIII): “Est ingens gelidum lucus prope Caeretis amnem”, che suscita un altro dilemma ermeneutico. I commentatori del poema virgiliano spiegano che il fiume presso Cere (Cerveteri) sia il Mignone, che chiamano “gelido” in riferimento al successivo verso 610: “Ut procul egelido secretum flumine vidit”. In realtà il fiume Mignone non scorre affatto presso Cerveteri (distante un trentina di chilometri), ma nel territorio viterbese, sfociando presso Tarquinia. Giannotti e Giovanni Annio si erano accorti di questa anomalia e spiegarono che quel fiume “gelido” doveva essere il torrente Freddano che, scorrendo nelle campagne viterbesi, si immette nel fiume Marta, in territorio tuscanese. Ma Annio elabora una soluzione più particolareggiata e dice: “Fiume Egelido, che il volgo ancor oggi chiama Fredano Egelido” e, inoltre, questo fiume Fredano “sarebbe vicino al Caldano, fiume con l'acqua calda”.
Due noti commentatori di questi passi virgiliani si limitano a tradurre “egelido flumine” con le generiche parole “tiepido fiume” (E. Paratore), oppure “fresche acque” (G. Vitali), e non avrebbero potuto fare diversamente, di fronte ad un poema in cui l'aspetto mitico e fantastico si fonde in un ampio respiro poetico. In ogni modo le cognizioni geografiche degli antichi scrittori sono molto limitate e, oltre a Virgilio, basta citare Livio quando dice che un esercito era schierato nell'agro falisco, “non lontano da Roma” (lib.X,26,15): in realtà l'agro falisco non è proprio alle porte dell'Urbe.
E così Plinio il Vecchio che chiama “lago di Tarquinia” il lago di Bolsena. Altre incertezze sulla ubicazione del lago di Vadimone: gli studiosi discutono se si trovasse presso Bassano in Teverina o Bassanello. Plinio il Giovane dice che la sua villa “in Tuscis” era sugli Appennini. E lo stesso discorso può valere anche per Strabone, che pure era un geografo.
Queste carenze hanno prodotto anche la continua confusione tra Tuscia-Tuscana-Tuscania città e Tuscia-Toscana-Tuscania regione. Il rilievo che solleva il nostro scrittore può essere formulato nel modo che segue: è possibile che tutte le centinaia di volte in cui gli antichi cronisti menzionavano il nome di Tuscia e Toscana, intendevano sempre riferirsi alla regione e mai alla città? Ci sarà stato il caso, almeno una volta, in cui essi avevano in mente di riferirsi alla città. Il quesito mi sembra legittimo da tutti i punti di vista, in considerazione che Tuscania era un fiorente centro nel periodo etrusco: lo attestano le testimonianze archeologiche. Questa città era governata da alti magistrati: abbiamo il nome di zilath, purthne, macstrev ecc.; e poi ha fornito reperti di indiscusso valore esegetico, come quell'Adone morente, che è considerato da Raymond Bloch un raro esempio “di indiscutibile forza creatrice”.
Nel periodo romano fu un fiorente municipio, governato dal senato e dai quattuorviri, che erano i più alti magistrati locali, e si è conservato il nome anche del decurione C. Copone Crescente. Nonostante queste evidenze Tito Livio, nomina località sperdute, come Cortuosa e Contenebra, ma di Tuscana non c'è traccia, però nomina centinaia di volte “Tuscia”.
Ed allora, si domandava il Giannotti, non poteva accadere che qualche volta col nome Tuscia o Tusci, Livio intendesse riferirsi a Tuscia città e ai suoi abitanti? Lo stesso discorso si può fare per il geografo Strabone, il quale, quando fa l'elenco dei centri posti nell'entroterra della Tirrenia, nomina Arezzo, Perugia, Bolsena, Sutri, Blera, Ferento, Falerii, Faliscum, Nepi, Statonia; ignora completamente Tuscania, che pure era vicina a Blera, sulla Via Clodia. Però Strabone nomina Tirrenia e Tirreni, e Giannotti assicurava che Tuscania era chiamata anche con questi nomi, aggiungendo con ciò altro motivo di confusione inter nomina.
Su questo “silenzio” degli antichi scrittori sono state proposte le più disparate congetture, tutte valide, ma prive di prove certe. Qualcuno parla di una docta ignorantia, altri di una specie di arcana damnatio memoriae del nome Tuscana, basata sul fatto che, se questa città aveva rivestito un ruolo sacrale per la presenza in zona di un importante santuario pagano, la successiva apologetica cristiana ne distrusse completamente tracce e memoria. Tanto più che, dopo l'imperatore Costantino, i cristiani, da perseguitati si trasformarono in persecutori e lo stesso imperatore Teodosio, con i due editti del 380 e del 381, incoraggiava addirittura lo sterminio dei pagani. Comunque, anche senza voler prendere in considerazione queste congetture, non è vano parlare di una e vera e propria confusio linguae tra Tuscia e Tuscana. La quale confusio si protrasse per tutto il Medioevo, alimentata ad arte anche da Annio e dai suoi epigoni. Infatti, a causa di questa supposta omonimia, a ben quattro papi “nati in Tuscia”, fu negata l'origine tuscanese. Tale situazione si è verificata perché -osserva acutamente Giannotti- res nullius est primi occupantis, cioè le cose di nessuno sono del primo che se ne impossessa, al punto che Tuscania era considerata “terra di nessuno”. Così S. Lino, papa dopo S. Pietro, nato “in Tuscia”, finì per essere considerato di Volterra, e poi Eutichiano, anch'esso della Tuscia, finì per nascere a Luni, presso La Spezia! E' certo che, le varie città, approfittando della suddetta omonimia e dello stato di incertezza da essa creato, cercarono tutte “di trarre l'acqua al proprio molino”, come suol dirsi. Nei casi in cui non c'era omonimia, tale appropriazione indebita non si verificò, come per Gallese e Blera, centri della Tuscia, ambedue sedi vescovili. Infatti le cronache riportano essere nati a Gallese i papi Martino I (882-884) e Romano (897); a Blera Sabiniano (604-606) e Pasquale II (1099-1118). Quando invece i papi erano nati “in Tuscia”, come S. Lino (67-76), Eutichiano (275-283), Leone Magno (440-461), Giovanni I (523-526), nessun cronista pensò che quel “Tuscia”, dovesse essere tradotto correttamente in “Tuscana”. A tal proposito Giannotti ironizzava, sottolineando non essere possibile che il luogo di nascita di una persona fosse citato con la regione anziché con la città, come avveniva in tutti gli altri casi; per cui, secondo la logica ed il buon senso, quando negli antichi codici c'era scritto “natus in Tuscia”, doveva tradursi “nato in Tuscana” o in Tuscania.
A completare la confusione è intervenuta anche Frascati, città anticamente chiamata Tusculum, ragion per cui con quell'iniziale Tusc. poteva vantare qualche pretesa, che non tardò a presentarsi a proposito del decurione tuscanese C. Copone Crescente. La lapide dice: D.M. / C. COPONI CRES / CENTIS DEC. / TVSCANENSIVM, ecc., per cui qualche studioso ha provato a trasformare Tuscanensium in Thusculanensium, cioè “decurione dei Tusculani” (i cittadini di Frascati). Trattasi di una pretesa ridicola, presto accantonata, perché la lapide di detto decurione, rinvenuta a Tuscania, si trovava nel Tempio di S. Pietro (in aede S. Petri) da tempo immemorabile. Per concludere questo problema della confusio, il cui merito di essere stato posto spetta al Giannotti, partendo dal presupposto che la verità è spesso connessa con la semplicità, alcuni studiosi di paleografia suppongono che l'equivoco Tuscia-Tuscana-Toscana sia nato da un atto di superficialità degli amanuensi. Siccome negli antichi codici si trovavano spesso parole abbreviate, i copisti quando vedevano Tusc.a o Tusc.na, trascrivevano Tuscia o Toscana, senza porsi il problema che il nome poteva essere Tuscana, città e non regione. E sicuramente doveva trattarsi della città quando il codice parlava del luogo di nascita di una persona (papa, vescovo, santo, ecc.); perché, come ho già detto, era un fatto anomalo scrivere come luogo di nascita la regione invece che la città. Tanto è vero che nel secolo VIII, alcuni atti pubblici portano il termine di “Toscanella”, in quanto si erano accorti degli equivoci che generava il termine Tuscana. E allora è possibile che quando un copista avesse trovato, per esempio, “Linus natus in Tusc.a, avesse trascritto “Lino nato in Tuscia”.
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Dicevamo che il manoscritto di Giannotti rimase sepolto per secoli negli archivi parrocchiali. Fu consultato da Turriozzi e Campanari, considerati poi i primi storici di Tuscania, in quanto i loro libri, regolarmente pubblicati, ebbero la possibilità di essere conosciuti dagli studiosi. Ma il vero fondatore della storiografia tuscanese è sicuramente Francesco Giannotti in quanto, per primo, trattò in forma tematica le antiche tradizioni della sua città natale. Sulla base di questa considerazione, il Centro Studi storici “V. Campanari”, nel 1969, decise di trascrivere e pubblicare in ciclostile i primi tre libri, con il titolo: Storia di Tuscania scritta da Francesco Giannotti nel secolo XVI, con la speranza che qualcuno provvedesse ad una adeguata edizione tipografica.
Oggi ho ripreso in mano quel libro, correggendo alcuni errori di trascrizione, fin dove è stato possibile, perché spesso la scrittura originale è ridotta in cattive condizioni. Nella nota introduttiva del 1969 si faceva notare la preziosa testimonianza di Giannotti poiché, nell'epoca in cui scriveva, la struttura topografica e urbana di Tuscania conservava ancora l'impronta originaria -specie medioevale- ed egli poteva vedere personalmente edifici, monumenti, palazzi, strade che oggi sono completamente scomparsi o rovinati a causa del logorio dei tempi e dell'incuria degli uomini. Dalle vicissitudini della storia e dalla furia delle guerre si erano salvate le basiliche di S. Pietro e di S. Maria Maggiore, quasi a testimonianza del trionfo di Cristo sulla precarietà dei fatti umani. Nella lunga citazione di avvenimenti e personaggi Giannotti dimostra una vasta erudizione, come riferì lo storico viterbese Feliciano Bussi definendolo “eruditissimo”. Nelle epoche successive, alla devastazione degli antichi saccheggi, è seguito il trafugamento di reperti etruschi, romani e medioevali, sia all'interno della città che nelle necropoli circostanti. Oltre che a confutare le teorie di Annio, Giannotti ha inteso soprattutto il dovere di tramandare ai posteri le memorie della sua città dicendo: “Questo mio breve discorso affinché non perisse la memoria di questa patria”. Una patria prospera nel passato, ma ridotta ai suoi tempi, ad un umile paese, per cui uno storico a fatica riesce a riconoscergli un passato illustre, mentre è portato a magnificare il passato di una città divenuta poi capoluogo di regione o di provincia. Ed è proprio questo il motivo per cui Tuscania, ridotta oggi ad una pittoresca cittadina, fatica a farsi riconoscere l'importante suo ruolo svolto nella storia antica. La pubblicazione ciclostilata del manoscritto di Giannotti si prefiggeva due scopi: quello di fornire ai tuscanesi una lettura avvincente e agli studiosi un complesso di notizie che potessero servire alla comprensione di avvenimenti storici oscuri o non ben approfonditi. Detta pubblicazione, nonostante le carenze e i limiti, suscitò un vivo interesse per Tuscania, tanto che negli ultimi decenni gli studi storici si sono moltiplicati e le pubblicazioni si contano a decine.
GB. Sposetti Corteselli

 
 
 
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