7. Il decennio ghibellino (1253-1263). - Toscanella - Storia di Tuscania

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7. Il decennio ghibellino (1253-1263).

Il periodo comunale

IL DECENNIO GHIBELLINO (1253-1263).

a) Dal "Comune podestarile" al "Comune popolare".

Intorno agli anni 1255-56, nel Comune ghibellino di Tuscania avvennero profonde trasformazioni, per l’influsso di ciò che si era già verificato in altri centri italiani: accanto alla figura del podestà, sorse una nuova magistratura di carattere "popolare": il Capitano del Popolo.

A dire la verità l’etichetta politica (guelfa o ghibellina) c’entra poco, perché a Firenze, ad esempio, il capitano del popolo nasce guelfo (1250), mentre a Roma è ghibellino (Brancaleone degli Andalò, 1252). Quel che conta rilevare, è che a Tuscania, come altrove, la borghesia ha mosso i primi passi, si è organizzata in corporazioni, creando una propria struttura, parallela a quella comunale già esistente: è nato un nuovo "Comune", che vive ed opera nel Comune. Nel 1256 conosciamo il primo nome di un capitano del popolo, Oderisi Cerasa.

Nella sua funzione di tutore del popolo e di controllore dell’operato dei magistrati comunali, era coadiuvato dai "buoni uomini" e dai "rettori" delle Arti. Queste erano una ventina, molto organizzate. A parte quelle tradizionali, ben note a chi conosce la Firenze medioevale, vogliamo qui ricordare almeno l’arte connessa con l’agricoltura, quella dei "bovattieri" (bovari, pecorai, caprai e armentari in genere).

Invece, i "Villani" o "lavoratori della terra" (laboratores terrae), non costituivano un’arte riconosciuta come le altre, con proprio Statuto, ma erano dei semplici braccianti stagionali. Tuttavia, la loro presenza è continua e numerosa, soprattutto nelle relazioni con i "padroni della terra" (domini terrae), cioè con la piccola nobiltà fondiaria locale, che possedeva ampi appezzamenti di terra o li aveva in locazione, dietro pagamento in natura: il cosiddetto "terratico tredicino", cioè la tredicesima parte del prodotto (di solito grano, lino o canapa).

b) I castelli del territorio tuscanese alla metà del XIII secolo.


Tuscania, o Toscanella come già si chiamava in quel tempo, aveva un vasto territorio, il "distretto", che, se non corrispondeva più a quello della sua vastissima diocesi, era pur sempre ragguardevole, raggiungendo circa 60.000 ettari, quasi il triplo degli attuali.
Il nome Toscanella quindi non poteva essere sorto né in riferimento al vasto centro abitato né al territorio né in senso dispregiativo. Un fatto è certo: i documenti locali recano sempre il nome TUSCANA; sono quelli scritti fuori (Orvieto, Roma), che spesso chiamano la Città con il nome di TUSCANELLA.

Noi pensiamo che ciò venisse fatto semplicemente per timore di non essere capiti e di creare confusione tra la regione "Toscana" e la città "Tuscana".
Successivamente il nome Tuscanella prese il sopravvento (a Tuscania dagli inizi del secolo XV) e tale si mantenne, fino al 12 settembre 1911, quando, per decreto del Re Vittorio Emanuele III, fu dato alla Città il nome attuale, a conclusione di lunghe pratiche burocratiche avviate dall’Amministrazione comunale.

I 60.000 ettari, poi, si sono ridotti ad un terzo, perché alcuni castelli del distretto (Piansano, Canino, Tessennano ed Arlena di Castro) oggi sono Comuni autonomi e una parte del territorio (Le Lestre) è stata ceduta al Comune di Tarquinia, in epoca imprecisata. Pure a Tarquinia passò il castello di Ancarano nel 1438.

I castelli del territorio erano numerosi, ma non si deve pensare che la loro sottomissione a Tuscania fosse sempre pacifica; anzi spesso accadeva che la Città non riusciva ad esercitare in un castello la sua influenza, sia per debolezza sia perché questo aveva fatto atto di sottomissione a Viterbo, ricevendone protezione.
Insomma, la situazione di dominio sui castelli era sempre tanto fluida e così instabile, che sono semplicemente puerili le affermazioni degli storici locali, sempre affannati a contare a Tuscania venti, trenta o cinquanta castelli.

Di alcuni non resta che il nome: si tratta spesso di un grosso casale con qualche casola aggiunta in séguito, per il riparo dei 50, forse 100 abitanti, ma non di più.
Pantalla e San Savino, verso il lago di Bolsena, non ne contavano che una decina. Qualcuno in più ne avevano Civitella (Arlena di Castro) e Tessennano. Lo stesso si deve dire per la Carcarella, Pian Fasciano ed Ancarano. Quest’ultimo apparteneva a Nicola, figlio di quel Ranuccio di Pepone Farnese, che nel 1245 aveva recerato Tuscania alla Chiesa.
Di Castellardo e Piandiana (oggi: Pianiano) sappiamo poco. Erano vicini a Canino, il più grande castello del distretto, in continua ribellione (famosa e ben documentata è quella del 1259), sempre desideroso di rendersi autonomo.
(Per la verità, dei rapporti fra questo castello e Tuscania, prima del 1259 sappiamo. ben poco. Canino aveva il podestà nominato da Tuscania, da cui riceveva aiuto e protezione, in cambio dei normali tributi. Sappiamo, ad esempio, che, nel 1254, allorquando reggeva il castello il vicepodestà Gregorio da Tuscania, Viterbo vi mandò un suo rappresentante a riscuotere dei tributi perché lo considerava (a quale titolo?) sotto la sua giurisdizione.
Ai primi d'agosto del 1259, quasi certamente per sottrarsi dalla soggezione a Tuscania, il castello si ribellò, cacciando via Ranuccio di Matteo, il podestà di nomina tuscanese. Approntato un esercito, il podestà di Tuscania, Nicola di Beniamino ed il priore delle arti, Gezzo di Benincasa, domarono la rivolta e costrinsero i Caninesi a chiedere la pace. La mattina del 9 agosto, con una cerimonia ben architettata, quattro ambasciatori caninesi, scelti tra le migliori famiglie (li guidava Simone Riboteschi) si presentarono in lacrime sotto le mura di Tuscania. Aperte le porte e scambiati retorici abbracci di pace, gli ambasciatori furono ricevuti dal podestà, dal capitano del popolo e da tutti i Consiglieri schierati nella Chiesa di S. Maria Maggiore. Dopo aver ottenuto il perdono, gli ambasciatori caninesi giurarono nuova fedeltà a Tuscania e promisero di non ospitare mai più persone che avessero cercato di staccare il castello dal distretto. Ranuccio di Matteo, reintegrato nel suo ufficio di podestà, riprese possesso di Canino in nome del Comune di Tuscania.)



In direzione di Montalto c’era il castello di Rocca Glori, appartenente a Giacomo di Pietro della Rocca, nobile esponente del partito guelfo. Poco discosto era situato il castello di Acquabona (chiamato poi castel Ghezzo), appartenente alla famiglia Cerasa: intorno alla metà del secolo, ne erano signori Oderisi Cerasa (il capitano del popolo del 1256) e suo cugino Ranuccio Cerasa, due ghibellini veramente accaniti.
Adiacente al castello della Carcarella, al confine con Corneto, si estendeva la vasta tenuta di Contignano (o Quintignano) (2.500 ettari) appartenente, nell’alto Medioevo, al Monastero di S. Stefano nell’Isola Martana.

Agli albori del XIII secolo, la tenuta fu affittata al priore di S. Maria Maggiore; poi (verso il 1250) l’abate di S. Stefano la vendette a Guitto IV "Signore di Bisenso", che nel distretto tuscanese possedeva altri due castelli, Piansano e Castel Marano.

Quando Guitto IV mori (1258 circa), lasciò eredi (oltre alla madre, donna Balbina, e alla moglie, donna Porcacchia) i suoi tre fratelli: Giacomo, Nicola e Tancredi. Tutti e tre erano "Signori di Bisenzo", ma la tenuta di Contignano (o Montebello, come già si incominciava a chiamare) toccò a Giacomo, mentre Piansano e Castel Marano toccarono a Nicola. Tancredi restò a Bisenzo.

I tre, turbolenti e sempre agitati, erano dichiaratamente ghibellini e in questo andavano d’accordo con gli esponenti del Comune di Tuscania. Nel 1260 Giacomo pensò, poi, di costruire un castello nella sua tenuta di Contignano-Montebello. Ottenne il permesso e giurò fedeltà a Tuscania, il 13 maggio, nelle mani del podestà Tebaldo di Pietro Annibaldi. Il Papa, naturalmente, per impedire il rafforzamento del ghibellinismo, si oppose, ma alla fine il castello fu costruito lo stesso.

Agli inizi del 1263, era podestà di Tuscania il ghibellino Albonetto, signore di un castello tuscanese non ben precisato; capitano del popolo era Nicola di Giacomo da Montefiascone.
Dense nubi di guerra incominciavano a profilarsi all’orizzonte, dopo la rottura dei rapporti tra il Papa e il Re di Sicilia, Manfredi, l’erede di Federico II.

La ghibellina Tuscania pensò bene di passare in rassegna le forze di cui poteva disporre. Con i castelli era in buona armonia e poteva contare su tutti.
L’unico che non aveva ancora giurato era quello di Piansano. Il podestà Albonetto, allora, convocò Nicola di Guitto da Bisenzo, il Signore di Piansano, che giurò fedeltà il 5 maggio 1263. Giurò pure sua madre Balbina, alla quale si dovette far ascoltare il documento in "volgare", perché non conosceva la lingua latina. Dato poi che il terzo dei suoi figli, l’irrequito Tancredi, aveva rubato numerosi capi di bestiame ad alcuni Tuscanesi, la madre fu costretta, in quell’occasione, a risarcire i furti perpetrati dal figlio, fino all’ultimo denaro.

 
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