5 lire de conserva - Toscanella

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5 lire de conserva

Scrivono per noi > Oleania Brachetti
CINQUE LIRE DI CONSERVA di Oleania Brachetti.

Voglio premettere che non essendo una scrittrice non c'è da parte mia alcuna pretesa se non quella di provare a raccontare, come una nonna farebbe coi nipoti, un piccolo mondo che non c'è più; che sarebbe comunque lentamente scomparso, ma che il terremoto si portò via in pochi secondi lasciando solo i ricordi, piccole tessere del mosaico della memoria, necessari per far conoscere ai giovani le loro radici.

Avevo cinque anni quando nel 1950 i miei genitori aprirono una bottega di pizzicheria a Tuscania, in via della Salute n.5. Fu dentro ed intorno a questo locale che i miei occhi di bambina, di adolescente e di ragazza poi, furono testimoni dei cambiamenti che caratterizzarono quei tempi.
La mia famiglia era formata dai miei genitori, dal nonno paterno vedovo, da mia sorella e da me più piccola di tre anni. Era un periodo in cui si lavorava molto per cercare di recuperare quello che la guerra si era portati via: la normalità e il benessere quotidiani.

Mio padre d'estate andava a lavorare in campagna, all'ara, e d'inverno comprava il vino a Vignanello e lo rivendeva ai gestori delle trattorie, nei giorni liberi aiutava la mamma al negozio. Fu lei però che se ne occupò per venti anni. Era una donna all' avanguardia per quei tempi e, pur avendo fatto solo le elementari, aveva proprietà di linguaggio e sapeva far di conto velocemente e senza sbagliare, cosa eccezionale visto che non esistevano i registratori di cassa né tantomeno le calcolatrici e che tutto veniva scritto a mano, con una grossa matita rossa schiacciata, su un pezzo di carta paglia. Sapeva trattare con la banca e con i rappresentanti di commercio chiamati semplicemente "i viaggiatori", perché andavano a vendere i loro prodotti nei vari negozi della provincia. Quello che però non scorderò mai fu il suo modo di aiutare gli altri. Riempiva quasi ogni giorno una cestina quadrata, munita di manici, con le stesse cose: un filone di pane, un pezzo di lardo, una bottiglietta d'olio, quattro o cinque patate, un cartoccio di spaghetti spezzati e una cartatella di conserva e mandava me e mia sorella a portarla a turno alle famiglie più bisognose del vicolo perché diceva che, almeno per quel giorno, si sarebbero riempiti lo stomaco con una bella minestra di pasta e patate.

IL NEGOZIO. Il negozio faceva angolo con via Oberdan in cui si trovava la vetrina e via della Salute dove si apriva la porta d'ingresso; era una porta modesta verniciata di verde: la parte superiore e il lato sinistro con i vetri, sui quali la sera, prima di chiudere, venivano agganciati con dei piccoli chiavistelli sfilabili i portelloni anch'essi di legno; anche la maniglia della porta era sfilabile, bastava togliere una forcellina infilata in un foro per impedirne l'apertura; lo stesso avveniva per la vetrina. Il locale non era grande, anche se a me sembrava enorme: entrando, la vetrina si trovava sulla sinistra e davanti c'era un grande bancone con il piano di marmo bianco rivestito tutt'intorno di mattonelle di ceramica, anch'esse bianche, che occupava quasi tutta la parete, tranne uno spazio laterale a sinistra che permetteva di salire sulla pedana di legno, da cui si dominava tutta la stanza. Nella parete di dietro, appese al muro correvano due lunghe mensole anch'esse di marmo bianco (era il materiale più igienico perché lavabile, visto che da noi non c'era ancora la plastica). Su queste mensole, per l'epoca, c'era ogni sorta di bendidio: nella prima, la più in basso e a portata di mano, c'erano salami, il prosciutto, capocolli, salsicce, la coppa, il guanciale e la ventresca, la pancetta arrotolata, la mortadella e poi grandi barattoli di latta aperti con le alici sotto sale, il tonno sott'olio ( che era considerato un lusso e da cui derivò la frase "me coste quanto 7 tonno" detta dai padri alle figlie femmine che si dovevano sposare e portare la dote), le marmellate di frutta (una gialla e una rossa) ed infine il prodotto più umile e significativo di questo racconto: la conserva di pomodoro. Ma di questa parlerò poi.


Nella mensola superiore, chiusa da antine di vetro scorrevoli, c'erano grossi pezzi di formaggio: il pecorino che era il formaggio di sempre considerato di qualità solo se aveva la lacrima, cioè una goccia di siero che fuoriusciva quando si tagliava e poi, in seguito, anche "sua maestà" il parmigiano. E qui voglio spendere due parole sul rito dell'apertura della forma.


Mio padre la posizionava con cura su un robusto tavolo di legno che avevamo nel magazzino di fronte, quindi si armava di vari attrezzi a me sconosciuti: un martelletto per battere la crosta e verificare, in base al suono, il grado di invecchiamento, poi una specie di lungo cavatorsoli, chiamato sgorbia, che conficcava con forza al centro della forma e, ruotandolo, lo ritirava, toglieva il pezzetto di formaggio che era rimasto incastrato e da intenditore lo annusava a lungo beandosi del profumo; poi lo metteva in bocca, lo masticava lentamente e, infine, dopo alcuni mugolìi di piacere, decretava ad alta voce che era speciale e quindi, con una serie di cunei, rompeva la crosta: la forma allora si apriva apparendo in tutto il suo splendore e spandendo intorno il suo effluvio goloso. A noi bambine era permesso mangiare le scagliette che si erano formate durante l'apertura. Una vera festa!


Sul bancone spiccavano, smaltate di rosso e brillanti di cromature, l'affettatrice a mano e la bilancia Berckel, che veniva tarata ogni mese da un ispettore e che aveva sostituito la vecchia bilancia a due piatti, con i pesi di ottone infilati in una cassettina di legno. A seguire erano allineate le cioccolate in panetti, avvolti nella carta stagnola dorata, che venivano vendute a fette, ed avevano due gusti: uno nero e bianco che si chiamava Cremino, l'altro era cioccolato gianduia con nocciole intere e si chiamava Ghana, entrambe della ditta Gondola; poi arrivarono ¡formaggini di cioccolato della Ferrerò, anch'essi nella carta stagnola e con sopra la maschera di Gianduia sorridente; la cioccolata in tavolette Duplo, che aveva un posto d'onore su un espositore di alluminio. La cioccolata "squaiata", come la chiamavamo noi bambini, sempre della ditta Gondola, arrivò in seguito in piccoli bacili di plastica bianca e si vendeva a cucchiaiate a peso. La Nutella arrivò nel 1964 e si vendeva sempre sfusa. Adesso può sembrare assurdo, ma fino agli anni sessanta da noi non esistevano prodotti confezionati, tutto veniva venduto sfuso e incartato, se secco nella carta paglia e se umido o unto sempre con nella carta paglia, ma con un foglio di carta oleata all'interno.


Un cestino panciuto di metallo conteneva le uova fresche di giornata che erano merce di scambio con le clienti che avevano le galline.
In fondo al bancone faceva bella mostra di sé un espositore con le saponette Lux, Camay e Cadum che erano il sogno di ogni donna, considerando che la maggior parte di loro fabbricava ancora il sapone in casa con ossa, grasso di animali e soda che emanava un odore non proprio gradevole e che dava un colorito grigiastro ai panni, per cui quando arrivò il sapone a scaglie e poi quello in polvere in confezioni singole (Persi/, Tide, Omo e Olà) fu motivo di piccole discussioni su quale lavasse più bianco e facesse più schiuma.
Anche la pasta era venduta sfusa e per questo motivo ai lati del bancone c'erano dei mobiletti di legno color crema pieni di cassettini con la parte anteriore di vetro, che permetteva di vederne il contenuto; a destra la pastina, il riso, la farina di grano e quella di granturco, il semolino e, a sinistra, un solo mobile conteneva l'unica pasta lunga: gli spaghetti, avvolti in carta blu oleata, che mantenevano ancora la forma originaria dell'essiccatura, erano cioè lunghissimi e ripiegati a metà, per cui per cuocerli bisognava spezzarli.


Quando divenni più grande, per aiutare i miei genitori, mi furono affidati, fuori dall'orario scolastico, piccoli compiti come prendere la pastina con un grosso cucchiaio di alluminio, metterla in un cartoccio a forma di cono che preparavo prima con la carta paglia, e pesarla; oppure (e questo mi piaceva ancora di più) prendere i frollini o biscotti al burro dalle scatole colorate della Colussi, contarli e avvolgerli nella carta velina. Ricordo ancora con tenerezza un omone, un po' goffo e con un cappello grigio, che faceva il sarto (e di cui non dirò il nome per rispetto) che lavorava pochissimo perché non c'erano soldi per acquistare le stoffe e che veniva spesso a comprare "dieci lire di biscottini" con cui cenare: dieci lire erano tre biscotti.


Dietro il bancone, in basso addossato alla parete c'era lo ziro con l'olio, rigorosamente extravergine d'oliva, prodotto dai nostri contadini; seguivano due damigiane di vetro impagliato (sembravano due enormi fiaschi) con un rubinetto davanti ciascuna, che permetteva la fuoriuscita del marsala o del vermouth; subito appresso un grosso sacco di carta cerata a più strati conteneva lo zucchero. Nello scaffale difronte al bancone tutto quello che serviva per la casa: il sapone in pezzi, le bustine verdi di borotalco Robert's, quelle Palmolive con lo shampoo o codette e poi i lacci per le scarpe e il lucido in crema per pulirle in scatolette di metallo con una chiavetta a farfalla per aprirle, le spazzole, le scope di saggina e gli spazzoloni (gli stracci per lavare i pavimenti vennero più tardi, perché le massaie adoperavano ancora pezzi di vecchi socchi di iuta).
C'erano poi dei piccoli cilindri gialli di carta che, una volta srotolati, formavano una lunga striscia collosa che veniva appesa alle lampade del soffitto, sopra i tavoli, e serviva a catturare le mosche che vi rimanevano attaccate. Uno spettacolo disgustoso, ma allora non ci si faceva caso.


Quelli della mia età ricorderanno certamente le famigerate macchinette per il flit. Il Flit non era altro che D.D.T. (petrolio) sbarcato in Italia con gli americani e che veniva usato nel dopoguerra per sterminare ogni tipo di insetto o parassita: le macchinette per spruzzarlo erano formate da un cilindro di metallo in cui veniva inserito uno stantuffo, che terminava con un pomello di legno; nella parte opposta era attaccato un barattolino di latta che veniva riempito con l'insetticida, con due fori: da uno entrava l'aria dello stantuffo e dall'altro usciva il flit nebulizzato. Le madri lo spruzzavano sulle teste e sulle gambe dei figli per uccidere i pidocchi e per far cadere le croste sotto cui l'insetto si annidava e causava l'infezione. Se ne fece talmente uso che uccise poi di tumore più uomini che pidocchi.Per concludere la descrizione del negozio ho lasciato per ultimo lo scaffale posto nella parete di fronte alla porta, tra quello degli spaghetti e il bancone. Quello era il sogno di ogni bambino, compreso il mio.


Su ogni ripiano erano posti grandi barattoli rotondi di vetro, con l'apertura frontale chiusa da un tappo di alluminio. Questi contenevano caramelle di ogni colore: quelle gialle al miele Ambrosoli, quelle verdi alla menta, quelle variopinte alla frutta e ancora quelle quadrate d'orzo, i confettini lunghi con un cuore di cannella e poi quelle di liquirizia a forma di pescetti, di lacci arrotolati o di more e i bianchi confetti profumati di due tipi: quelli pregiati con la mandorla pelata e quelli dozzinali, da tirare agli sposi all'uscita dalla chiesa, ripieni di pasta. Più in alto pacchetti di surrogato La Vecchina (il caffè Motta era un lusso), la miscela Leone, l'orzo e il malto, il cacao Due Vecchi, la fecola, il lievito Bertolini, la cannella, lo zucchero a velo, la vanillina, le coelette di zucchero colorate e i confettini d'argento per guarnire la zuppa inglese, le fialette degli aromi per profumare i dolci e poi ¡'Alchermes (trasformato in "archermuse" dalle massaie tuscaniesi, che era il liquore base di ogni dolce). A Natale la vetrina che dava su Via Oberdan si riempiva di panettoni, bottiglie di spumante e torroni di ogni misura. Quello era un momento magico per tutti ed essendo il nostro l'unico negozio di alimentari di tutta la zona era una nota festosa in un periodo in cui non c'era veramente niente.


LA CONSERVA DI POMODORO. Chiamarla condimento è riduttivo, fu molto di più. Arrivava in negozio in barattoli da 5 o 10 chili e si vendeva sfusa. Le madri mandavano i figli a comprarla prima dell'ora di pranzo con 5 o 10 lire (quelle erano le dosi per i pasti dell'epoca: con la più piccola si condivano le minestre, ¡fagioli e le patate in umido, con l'altra insieme al battuto di lardo e odori si faceva il sugo oppure, nelle feste grandi, si aggiungeva alle carni alla cacciatora, a bujone ecc.: insomma coloriva e insaporiva ogni pietanza.
Quasi tutti i bambini erano golosi di questo prodotto che somigliava alla marmellata e lungo il tragitto dal negozio a casa ne leccavano la maggior parte, cosicché il giorno dopo le madri si lamentavano con i miei per la cresta che avevano fatto sul peso.


Una volta vuoti, i barattoli della conserva si avviavano ad una seconda vita. Erano molto richiesti perché potevano servire per vari usi, dopo aver tolto il coperchio e smussato le parti taglienti; fatti due fori opposti in alto lateralmente veniva inserito un manico di fili di ferro e si trasformavano in secchi per il pastone del maiale o delle galline (non si buttava niente di quello che oggi tra i rifiuti viene chiamato l'umido), con l'aggiunta di un po' di crusca e della sciacquatura dei piatti (non c'erano i detersivi) diventava cibo per animali; oppure secchio dell'acqua per lavare i pavimenti o anche per l'acqua da attingere alle Sette Cannelle o alla fontanella che era nella piazzetta a lato del negozio. Diventavano poi vasi per il rosmarino e la salvia, contenitori di sementi, annaffiatoi, imbuti; tagliati e stesi si trasformavano in lamiere adatte a rinforzare i tetti. Ma l'uso che mi reca ancora tanta tristezza fu quello di contenitore per i bisogni degli anziani soli che, relegati dai parenti in una soffitta, non riuscivano a raggiungere il bujolo in fondo alle scale.
La guerra si era portata via tante cose, ma non le miserie.


Negli anni cinquanta, insieme all'elettricità, nelle case arrivarono i primi elettrodomestici. Nel nostro negozio arrivò il frigorifero. Era grande e smaltato di bianco, con il portello bombato e bastava tirare la maniglia cromata per aprirlo e rivelarne il contenuto: nella parte alta c'era lo scomparto del ghiaccio che si formava dentro vaschette d'alluminio; c'erano poi delle griglie d'acciaio che formavano i vari ripiani e nella parte interna del portello gli scompartì per le bottiglie. Finalmente il burro, che d'estate veniva tenuto a correntina nel lavandino di marmo del negozio, trovò la sua collocazione e così tutto quello che era deteriorabile. L'avvento del frigorifero rivoluzionò il nostro modo di mangiare perché permise di conservare le poche risorse alimentari disponibili. Per giorni ci fu un viavai di curiosi che venivano a vedere come funzionava.


L'AUTOMOBILE. Nel 1956 i miei genitori riuscirono, con tanti sacrifici, a comprarsi un'automobile. Per un errore della FIAT fu la prima '600 del Lazio. L'avevamo ordinata bianca, ma essendo destinata ad altri, era color grigio topo. Però che gioia! Ovunque andassimo, quando il babbo parcheggiava, gli uomini chiedevano di poter vedere il motore che era posizionato nel cofano posteriore della vettura. Con la macchina andavamo a fare delle belle passeggiate in campagna o al lago, cantando tutti insieme a squarciagola. Il babbo poi ebbe modo di muoversi meglio e di aiutare di piò la mamma al negozio, però servì anche ad aiutare gli altri. Una volta che una bambina del vicolo ebbe una forte emorragia dal naso, perché fortemente anemica, i miei genitori chiusero il negozio, la fecero salire in macchina insieme alla madre e la portarono all'Ospedale di Viterbo, salvandole la vita. Mi piace ricordare questi semplici episodi perché danno un'idea di quelli che erano allora i rapporti con le persone del vicinato. Quando si ammalava qualcuno tutti erano partecipi e quando lo andavano a trovare portavano sempre qualcosa per aiutare la famiglia. Come altre donne, mia madre andava spesso ad aiutare i famigliari a vestire chi moriva in casa (non c'era Campanari), perché diceva che era una delle opere di misericordia.


I clienti del nostro negozio erano le persone che abitavano in Via Oberdan nel tratto che va da Largo Consalvi fino alla bottega di Biagio. La bottega di Biagio era l'edicola del paese: una stanza piccola con al centro una pedana di legno e sopra una specie di scrivania dietro la quale sedeva Biagio o la sorella e tutt'intorno scaffali con scatole piene di matite, gomme per cancellare, temperini, boccette d'inchiostro, cannelli di legno per inserire i pennini (a forma di mano chiusa con l'indice alzato come punta) con cui scrivere, i gessetti bianchi e colorati, i quaderni, le carte assorbenti per asciugare l'inchiostro e infine i giornali e ¡fumetti dell'epoca, alti pochi centimetri (Tex, Cino e Franco e poi L'Intrepido e il Monello, Il Corriere dei Piccoli); di fuori, a lato della porta, una grata di legno sorreggeva i quotidiani con le notizie del giorno (quello che mi piaceva di più era "La Domenica del Corriere" illustrata da Walter Molino).



Da questa bottega, tornando indietro in parallelo con via Oberdan, ci si immetteva in via Matteotti. Davanti, dove prima c'era il bar di Spacciolla (uno dei personaggi più famosi di Tuscania) si apriva il negozio di scarpe di Tutumbè ( non conosco l'origine del nome, ricordo solo che era un uomo molto alto e magro) e a seguire c'era la bottega di Felicetta che vendeva un po' di tutto, in prevalenza pesciolini di cioccolata rivestiti di carta stagnola, finti coni gelato fatti con zucchero colorato, le pésche che erano cilindretti di cartone avvolti nella carta velina con dentro delle sorprese: biglie di terracotta smaltata di vari colori con cui i maschietti giocavano a buchetta, le prime gomme da masticare tonde e rivestite di zucchero colorato (in quel tempo si colorava tutto quello che doveva essere piacevole, forse per sopperire al grigiore della guerra e della povertà).
Sempre a destra, proseguendo verso la chiesa di S.Giovanni, c'era la sartoria di Rocco piena di giovani lavoranti, l'oreficeria del sor Vincenzo, la tabaccheria di Peppino e poi il bar di Tamagnini, dove la sera gli uomini si riunivano per giocare a carte. Più avanti il forno di Medori e il bel negozio di Angelina, con il vestito lungo nero e i capelli grigi raccolti in una crocchia sulla nuca, che vendeva guanti, cappelli, oggetti di merceria ma, soprattutto, fu la prima a mettere in vetrina dei veri giocattoli. Al centro, tra via della Cava e Strada Maestra, sotto la meridiana c'era il negozio di stoffe del Sor Imperio Gambi. Allora non c'erano i vestiti confezionati, per cui bisognava farseli cucire dalle sarte o, se non c'erano i soldi, cucirseli da soli. Girando a sinistra si trovava la farmacia Ragosa, poi il negozio di Filippone, con espositori di marmo che correvano lungo le pareti pieni di mele, pere, pesche, ciliegie, cocomeri, tutti rigorosamente di stagione.


Poi la Chiesa di S. Giovanni. A questa Chiesa sono legati ricordi bellissimi, perché era il luogo di incontro di tutti i credenti che vivevano intorno, lì sono stata battezzata e lì ho sposato. Nel mese di maggio, il pomeriggio, era piena di fedeli per le funzioni dedicate alla Madonna e lo stesso era nel mese di settembre che culminava con la processione dell' Addolorata. A dicembre, nel periodo natalizio, nonostante il freddo le messe per la novena venivano officiate alle 6,00 di mattina, per permettere agli uomini di andare poi a lavorare. Eppure la Chiesa era sempre gremita.


Proseguendo c'era la macelleria di Carocci, poi la ferramenta di Telemaco piena di socchi aperti ricolmi di polveri colorate: blu, gialle ocra, marroni, rosse e poi utensili per il lavoro, grosse chiavi e cassetti contenenti chiodi di ogni misura.
A seguire l'emporio-merceria di Spurio, diventato poi verso la fine degli anni cinquanta il bel negozio di Zena, meta fissa di tutte le ragazze in cerca di qualche novità. Appresso c'erano "le macerie", una casa distrutta dai bombardamenti della guerra: era un posto dove noi bambini andavamo spesso a giocare perché, nonostante i divieti dei nostri genitori, ci affascinava.


Fu proprio in via Oberdan però che ebbi modo di assistere ad un teatro di vita fatto di attori e attrici inconsapevoli. Le donne di Via Oberdan.
D'inverno, dopo che gli uomini erano andati a lavorare e i bambini a scuola, il mio negozio diventava il punto d'incontro delle donne del vicolo che venivano a fare la spesa. Nel locale c'erano alcune sedie che servivano a far riposare chi aspettava il proprio turno. Mio padre aveva messo al centro della stanza un braciere detto "focone", sempre pieno di carboni accesi che scaldavano piacevolmente l'ambiente. Nei giorni freddi di tramontana o noiosi di pioggia ricordo ancora con calore le loro chiacchiere, alcune allegre e altre tristi, che le accomunavano tutte.


E vorrei tanto parlare di queste donne, eroine del loro vivere quotidiano, ma sarebbe troppo lungo farlo. Però le vedo tutte con la memoria del cuore.
Mia madre sempre vestita di nero, anche gli orecchini ricoperti da un pezzetto di stoffa nera, perché allora si portava il lutto stretto (quello dei famigliari più prossimi) per tre anni e lei aveva perso in poco più di dieci anni una figlia di quattro, la suocera, una sorella di 25 anni annegata tragicamente in mare e la madre. La prima volta che la vidi vestita di chiaro avevo 15 anni. Poi c'era Miranda, rimasta vedova giovanissima e con due figli da fare grandi, semplice e dignitosa nel vestire quasi a tenere lontani eventuali pretendenti, che sorrideva con la bocca ma non con gli occhi. Carola che aspettava sempre il figlio disperso in Russia durante la guerra; Angelina nel negozietto di verdure, piccola coi capelli bianchi e il vestito lungo nero, madre di una figlia illegittima e per questo sempre giudicata; Maria la moglie del ciabattino, con due figlie, che quando il marito si ammalò e fu ricoverato in ospedale non volle fare una lira di debito per la spesa, perché diceva che non poteva, al ritorno a casa, farlo lavorare di più e mangiarono per tutto il tempo pane e latte. E ancora Felicetta che, quando era giovane e incinta, abortì mentre raccoglieva la legna alla macchia e da sola raccolse il feto nello scialle, lo legò alla vita e si caricò la grossa fascina sulla testa, perché a casa avrebbe avuto bisogno del fuoco per far bollire l'acqua e lavarsi. Sono tante le figure che ho davanti agli occhi, ma ricorderò solo il nome di alcune di loro: Renata che vendeva in casa il latte appena munto e che morì troppo presto lasciando il marito e tre figlie; Antea con il marito a lavorare in Germania e tre figlie da crescere; Iole, Nina, Gisa vedova di guerra con due figli, Maria con il marito violento e i figli da difendere.


Le ringrazio tutte perché ognuna di loro mi ha insegnato che è proprio nei momenti più difficili della vita che le donne danno il meglio di loro stesse.
SUONI E VOCI DI UN TEMPO. Adesso quando apro la finestra sento solo rumori fastidiosi: quello delle auto che passano, i clacson che suonano, i tubi di scappamento, la macchina pulitrice, le scavatrici, le sirene delle ambulanze o i segnali di allarme che scattano al più piccolo temporale. Se ripenso alla mia infanzia le immagini che mi scorrono davanti formano un film che ha come sottofondo una colonna sonora formata dai suoni e dalle voci di allora. Rivedo, in primavera ed estate, le finestre delle case spalancate per far entrare aria pulita e sento ancora le voci delle massaie, affaccendate nelle pulizie quotidiane, cantare a squarciagola le canzoni in voga, facendo a gara tra loro per la voce più bella ( si cantava molto in quegli anni, forse perché nelle case non c'erano ancora né televisione né altri mezzi per ascoltare musica, ma anche perché si era usciti da una guerra e il futuro era pieno di speranze); risento il suono delle campane che scandivano le ore, ma accompagnavano anche tutte le funzioni religiose e gli eventi della vita, per questo quando qualcuno moriva, il suono delle campane sapeva dirci se era un uomo, una donna o un bambino e quello era un suono straziante per tutta la comunità, per cui se qualcuno voleva poteva, all'occasione, rivolgere una preghiera.


Sento il richiamo festoso del "Draghetto", il pescivendolo che veniva da Marta con un camioncino a vendere il pesce fresco pescato nel lago; il richiamo della tromba di Antognetto "lo scopino" che invitava le donne a "buttare" la poca immondizia dentro il carrettino, formato da un grosso bidone provvisto di ruote e manubrio e accessoriato di una enorme scopa di saggina più alta di lui (Antognetto non raggiungeva il metro e mezzo di statura); era il netturbino del paese e andava per le vie a raccogliere quel poco che veniva scartato, lui così piccolo seguito dal figlio Argante, un giovanottone alto ma che la sorte aveva fatto nascere con un ritardo mentale: sempre insieme con il carrettino e la tromba quasi a formare un gruppo unico, come certe statuine del presepe. Risento il battere metallico del martello sull'incudine del fabbro e quello di Annibaie il maniscalco che ferrava i cavalli; la voce imbonitrice del Moretto che vendeva la "pannina", pezzi di tela da cui ricavare tutto quello che poteva servire per il corredo nuziale delle figlie: lenzuola, tovaglie, asciugapiatti, asciugamani e pannolini di lino per i bimbi che sarebbero nati (non esistevano i Pampers!).
C'era poi il suono più famigliare: quello ritmico delle mannarette sulle "battillonte", i taglieri di legno su cui le nostre massaie preparavano l'unto, il condimento fatto di lardo e odori battuti insieme che serviva a fare il sugo e a condire le minestre.


Nei giorni di festa o in particolari ricorrenze c'era sempre la banda musicale che accompagnava le processioni con brani religiosi, ma che spesso percorreva le vie del paese suonando delle marcette allegre, oppure si fermava in piazza Matteotti davanti alla Meridiana e sotto la direzione del maestro Eusepi ci allietava con brani sia classici che popolari.
E infine come non parlare delle serenate suonate e cantate di sera sotto ai balconi o sotto le finestre delle ragazze? Era una specie di dichiarazione fatta dall'innamorato alla propria amata, che veniva organizzata molti giorni prima con la collaborazione di amici, dei suonatori (di solito con chitarra, fisarmonica e violino) e di un cantante con la voce melodiosa di Omero Fioretti. Le canzoni erano prese dal repertorio romantico, per convincere la ragazza dei propri sentimenti. Se la giovane si affacciava alla finestra era un sì, se spegneva le luci il povero innamorato poteva considerarlo "un fiasco".
Anche quando c'era silenzio si potevano udire suoni e versi lontani: il canto del gallo all'alba, il belato delle pecore che andavano al pascolo, il nitrito dei cavalli e il raglio di un asino e su tutti il canto degli uccelli e i richiami delle nostre madri.
Queste sono le voci che hanno cullato la mia infanzia.

Oleania Brachetti

 
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