
La mia avventura con la D.D.R., se avventura si può chiamare, è duplice: nel 1964 e, un anno dopo, l’8 agosto del 1965. Fu coprotagonista il mio amico Mario con il quale ho condiviso ben 23 gironi di carcere in celle separate, per amore della sua promessa sposa Elvira, ed un funzionario di polizia, in borghese, mi propose di collaborare con loro, cioè con la Stasi, servizio segreto per la sicurezza dello Stato, come spia al loro soldo.
Spesso anche io, insieme al mio amico Mario, andavo nell’altra parte, cioè a Berlino Est, nel fine settimana. In quell’anno, 1964, lavoravo per gli americani in un club di sottufficiali dell’esercito americano sito al’interno della stessa caserma. Per potere entrare e lavorare avevo in dotazione un tesserino lascia passare. Ricordo l’estrema rigidità dei controlli, ai limiti dell’umiliazione.
Un giorno nascosi 20 marchi della Germania dell’Est in bocca, come da suggerimento di un nordafricano, mentre facevamo la fila per passare dall’altra parte. In effetti bisognava dichiarare sempre , sia in entrata che in uscita , il denaro di cui si era in possesso. Io quei soldi non li avevo spesi ma non volevo ammetterlo; non ricordo quanto dichiarai ma avevo una sensazione di paura durante i controlli per cui desistetti da operazioni del genere in seguito. Dunque controlli rigidissimi sui tedeschi dell’Ovest quanto su qualsiasi altro straniero che avesse voluto varcare la frontiera.
Un giorno, proprio durante una di queste severe ispezioni di routine alla frontiera di Berlino Est, il mio tesserino con lasciapassare americano fu oggetto di particolare osservazione ed interesse da parte di una guardia, che me lo prese e mi disse di aspettare. Lo portò presumibilmente a far vedere ad un suo superiore e, di ritorno, mi chiese di seguirlo. Fui accompagnato presso un funzionario, un uomo in borghese seduto vicino ad un tavolo in una grande sala. Il suo abbigliamento, semplice e sobrio, non mi fece supporre al momento nulla di significativo sul suo rango e sul suo ruolo. Ricordo di avergli detto una frase, quantomeno bizzarra se ripensata col senno di poi: ”Hanno fermato anche te?” La sua risposta fu per me inaspettata ed inimmaginabile: ”Signor Borgi, si sieda. Dobbiamo parlare un po’.” Aveva tra le mani il mio tesserino americano. “Vedo che lei lavora con gli americani. Che lavoro fa? Quanto guadagna?”
Intuii subito dove volesse arrivare, di cosa si sarebbe trattato, cosa mi avrebbe detto, cosa mi avrebbe proposto. Non mi sbagliai, come si suol dire, di una virgola. Pensai tra me e me di “divertirmi” un po’ e gli dissi quanto era la mia paga . “Non è molto”, osservò il funzionario “le do la possibilità di guadagnare di più. Molto di più. E’ interessato?” “ Be’ potrei esserlo” dissi maliziosamente ed anche un po’ divertito “dipende, cosa dovrei fare?”
L’uomo cominciò a snocciolare proposte, offerte ed “opportunità”. Poi fu più chiaro : ”Io le do un indirizzo di una persona che abita a Berlino Ovest, lei deve verificare se questa persona abita ancora a quell’indirizzo, cosa fa, dove lavora, che ambiente frequenta, se esce da sola od in compagnia e tanto ancora.” Ricordo che mi disse che, oltre ad essere pagato, mi avrebbe dato una macchinetta fotografica e mi avrebbe comunicato cosa avrei dovuto fotografare.
Avrei avuto il privilegio di mangiare al ristorante, un locale al quale sarei stato condotto da loro, ed avrei beneficiato di tanti altri vantaggi. Ascoltai ma non temei di manifestare il mio disinteresse per quel tipo di attività , un lavoro che non sarei stato in grado di svolgere e soprattutto non avrei voluto fare, per i rischi inevitabili connessi allo spionaggio.
Vedi cose che non devi vedere, conosci cose di cui sarebbe bene rimanere all’oscuro, sei l’uomo giusto nel posto giusto solo fino a quando ti ritengono tale: i collaborazionisti passano quasi tutti , prima o poi, a miglior vita, cioè uccisi, un po’ come i capi mafia in Italia, pochi dei quali muoiono nel proprio letto. L’uomo mi lasciò andare, chiamò una guardia con il mitra a tracolla e mi fece accompagnare presso un’uscita secondaria . Le sue ultime parole durante quel tragitto le ricordo ancora : ”Signor Borgi, ci pensi. Nel caso cambiasse idea, quando ritorna chieda di me.” Non andai più a Berlino Est, per prudenza e per paura. Non mi fidavo. Mi ricordai anche di alcune conoscenze tedesche che mi avevano messo in guardia dall’oltrepassare la linea di frontiera che divideva Berlino, parte est e parte ovest : “Pietro, stai attento quando vai dall’altra parte! Molti tra coloro che sono andati , poi non sono più tornati!” dicevano.
Ricordo di aver ascoltato recentemente una vecchia intervista a Krusciov in cui egli dichiarava che chi andava a colloquio con Stalin non era certo poi del proprio ritorno alla normale vita quotidiana. Ecco, questa dichiarazione si avvicina molto alle sensazioni che provai io al momento di quella richiesta di colloquio. Nello stesso anno andai poi a Stoccolma con un conoscente tedesco, Gerhard Kattillus, un giovane di Berlino Est che il mio amico Mario mi fece conoscere.
Questo Gerhard era riuscito a scappare scavalcando il famigerato muro della vergogna, mi pare attraversando il filo spinato od il muro nello stesso punto in cui, proprio la sera prima, la V. O. P.O. , la polizia, aveva ucciso con una scarica di mitra un giovane che tentava di passare dall’altra parte, cioè Berlino Ovest. Gerhard ha più volte raccontato della sua fuga dalla parte est alla parte ovest, di come una guardia vide che stava scappando attraverso il filo spinato del muro, di come, forse, fece finta di non vederlo o , forse, ricevette ordini di non sparare, magari perché la sera antecedente aveva già ucciso un fuggiasco, magari perché semplicemente novizio, recluta. Chi lo sa? Ovviamente queste sono solo ipotesi, dubbi di Gerhard.
Con lui ho abitato a Stoccolma per otto mesi, presso due zitelle tedesche. Lavorammo presso la multinazionale L. M. Ericsson Telefonplan, allo stesso reparto. Egli andò successivamente in Sudafrica, mentre io rimasi con le due zitelle per oltre due anni. Non aveva simpatia per gli svedesi; lo stesso mio amico Mario fece la medesima scelta del Sudafrica, non ricordo se da solo o con Gerhard Kattillus. Dopo qualche anno questi tornò a Stoccolma e mi venne a trovare con un amico tedesco conosciuto allo stesso reparto della L. M: Ericsson. Era una nostra conoscenza comune.
Dopo quella sera non l’ho più rivisto. A Mario nel 2015 ho mandato il dvd dell’intervista del 2013 nell’ex carcere di Gedenkstatte, oggi luogo della memoria e di attrazione turistica per le scolaresche nel quale io ho raccontato la nostra disavventura carceraria alla signora Mecthila Gunther , incaricata di intervistarmi una volta saputo che ero stato un carcerato all’epoca della D. D. R. La giornalista Marina Castellana , che lavorava nell’ex carcere mi presentò alla Gunther. Mario non ha proprio gradito il mio atto. Egli non l’ha raccontato mai a nessuno, quindi la sua famiglia non sapeva.
Ero invece sicurissimo che gli avrebbe fatto piacere, in fondo non avevamo fatto nulla di male. Semmai è la Repubblica democratica tedesca che ne ha fatto a noi ed alla sua promessa sposa Elvira che tanto avrebbe voluto sposarsi per amore. Parlo di evidenti e pesanti limitazioni alla libertà tipiche di ogni dittatura. Per i miei 23 giorni trascorsi nei due diversi carceri sono stato risarcito quando il muro della vergogna è stato abbattuto insieme al comunismo. Ho rifiutato il risarcimento della ingiusta ed abusiva detenzione perché era una vera umiliazione, un’offesa in rapporto a ciò che ho subito.
Mi domando ancora oggi come hanno potuto non vergognarsi. Il penitenziario Gedenkstatte ora è diventato un luogo a futura memoria per non dimenticare gli errori del passato commessi dal regime comunista della D. D. R. . Dal mese di Luglio del 2000 esso è sede di una fondazione indipendente di studi sul diritto pubblico, all’interno della quale lavora anche una giornalista italiana, Marina Castellana, che ha approfondito con un reportage la storia del carcere. Nel mese di luglio del 2013 ho fatto un viaggio, potrei definirlo il mio “viaggio personale della memoria” proprio al penitenziario Gedenkstatte, dove ho conosciuto questa giornalista con la quale ho parlato a lungo, ripercorrendo la mia esperienza dell’ingiusta detenzione.
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Pietro Fabbro