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L’emigrazione tuscanese nel Novecento

Da una breve e superficiale ricerca compiuta sul fenomeno migratorio a Tuscania emerge un primo dato significativo: piuttosto che di emigrazione la cittadina è stata da sempre terra di immigrazione accogliendo nel tempo vari gruppi omogenei; si pensi alla forte presenza delle comunità sarda, calabrese, abruzzese o, più antica ancora, marchigiana scesa in Maremma con la transumanza. Poche e confuse le tracce di una vera e propria emigrazione, limitata per lo più a singoli individui e a qualche famiglia. Nella maggior parte dei casi si è trattato di tecnici e maestranze partiti con in tasca un regolare contratto di lavoro.
Altro che classica valigia di cartone legata con lo spago, i tuscanesi hanno, evidentemente, sempre avuto a disposizione una gran quantità di risorse e opportunità di lavoro; salvo, naturalmente, negli ultimi decenni e non per colpa del terremoto che, se vogliamo, avrebbe potuto rappresentare addirittura un’opportunità in più. Ma lasci amo stare la politica e i politici...
Un primo fenomeno migratorio si è verificato alla fine dell’Ottocento quando a partire per le lontane Americhe furono Giuseppe
Brunori e la moglie Caterina Bartolacci (poi soprannominata Nina l’Americana al suo ritorno dopo qualche anno). Non ebbero fortuna, tornarono con meno soldi di quanti ne avevano quando erano partiti, stando almeno al racconto dei nipoti.
Negli anni della prima guerra mondiale, o subito a ridosso, fu la volta di Carlo Gioia (anche lui poi detto l’Americano) che se ne andò nel Nord America dove lavorò come calzolaio accumulando una discreta fortuna. Tornato a Tuscania, lavorò come esattore per una società elettrica (Frigo?).
Una più consistente emigrazione
di Tuscanesi verso l’America Latina, limitata comunque a nove persone tra cui una coppia di sposi, si ebbe nell’immediato secondo dopoguerra e, come vedremo, si trattò di una sorta di “fuga di tecnici” piuttosto che di tentativo alla cieca di fare fortuna. Vulcano Quarantotti e Valfrida Tortolini arrivarono a Buenos Aires il 12 ottobre del 1949: lui,
già “Facocchio” trovò subito lavoro come carpentiere presso una delle grandi ditte (in maggioranza italiane e tedesche) che si occupavano della realizzazione delle grandi opere pubbliche volute dal presidente Peron. Lei lavorò invece come infermiera. Tornarono in Italia nel 1965.
Con loro partirono anche Altidoro Vitangeli e un certo Cecchetti. Eccetto Vilvord Ferranti che scelse il Venezuela dove divenne titolare di un’importante azienda di legnami, a raggiungere l’Argentina furono Secondiano Bellucci, Giuseppe Benedetti, l’ex partigiano Gino Rossi e Damelio De Rossi E’ da quest’ultimo che abbiamo raccolto interessanti informazioni. “Chi partiva - ci racconta- sapeva già cosa andava a fare avendo in tasca o un contratto di lavoro o un visto turistico.
Per la verità Bellucci ed io avevamo il permesso per il Paraguay ma mio padre mi procurò una lettera da consegnare al Nunzio apostolico di Buenos Aires e, dopo mille peripezie e più di un mese di attesa, segregati prima sull a nave poi in un grande hotel per emigrati, riuscimmo a sbarcare.
Grazie all’aiuto di padre Daga, un religioso originario di Tarquinia, trovammo subito lavoro come trattoristi, anche se io mi ero appena diplomato perito agrario mentre Secondiano era già esperto del mestiere, presso l’azienda agricola di Cantoni a San tua,,.
Era un terreno estremamente feitile ma deserlico, che Peron provvide a irrigare canalizzando le acque del fiume: vi si raccoglievano pomodori due volte d’anno”.
“Rimasi per due mesi, mentre Secondiano decise di restare e di sposarsi, in seguito, con Ubedina. Mi trasferii a Entres Rios (letteralmente “tra i fiumi” Paranà e Paraguay) nella Pampas Una terra bellissima dove trovai lavoro con la Satkip, una grande ditta italiana incaricata di realizzare un lungo tratto di strada”.
(La ditta aveva fatto parte della Scalera, una delle imprese che più avevano lavorato in Italia durante il Fascismo e che, visti gli eventi, decise di trasferirsi in Argentina. Evidentemente su invito di Peron che ebbe il grande intuito di sfruttare questa particolare situazione anche per quanto concerne le ditte tedesche. Così, se con il Ventennio e le leggi razziali ad andarsene furono i “cervelli” con la fine della guerra a partire flirono gli operai specializzati: complimenti, di nuovo, ai politici...). “Vi lavorai per cinque anni divenendo addirittura capo cantiere.
Nel frattempo ricevetti una lettera da Gino Rossi (che aveva sposato un’argentina) che mi chiedeva un lavoro (evidentemente aveva avuto delle difficoltà visti i suoi trascorsi politici in Italia ndr).  Un giorno, mentre pranzavo in una trattoria, incontrai Giuseppe Benedetti che girava quelle terre come elettricista al servizio di una grande società”.
“Nel 1954 con un contratto con la Italstrade in tasca, feci ritorno a Tuscania. il primo giorno che uscii in piazza mi presentarono Nazzarena, un anno e mezzo dopo divenne mia moglie”.
Con la Italstrade Damelio ha preso parte alla costruzione di gran parte della rete autostradale italiana (Firenze, Ancona, San Benedetto, Bologna, Vercelli, ecc.) e ha lavorato per tre anni in Lilik.
Una passione di famiglia quella dell’emigrazione seppur temporanea. Suo figlio Giuseppe, ingegnere dell’Enea, è da alcuni anni a capo della spedizione italiana in Antartide.
Per tre mesi all’anno vive tra i ghiacci con il compito di preparare il pac per l’atterraggio in primavera dei grandi aerei da trasporto delle spedizioni scientifiche.
Come si dice: “Buon sangue non mente”.
GIANCARLO GUERRA
pubblicato ne La Loggetta novembre - dicembre 2005