Personaggi tuscanesi

INTRODUZIONE
In queste pagine, voglio presentare personaggi di spicco della nostra Tuscania, storia di luoghi e storie di modi di vivere della nostra gente.

Ringrazio il Prof. Maurizio Nardi che mi ha fornito i testi, pazientemente messi da parte nell’arco degli anni – Luigi Pica
Non sono purtroppo in possesso di immagini per una presentazione migliore dei testi, chi le avesse me li può mandare o inviare per e- mail
Madera Brannetti
Anni di Grazia

“Le biografie di tante piccole e grandi anime, che durante la loro esistenza hanno sparso tanto seme di bene, non sono state scritte in nessun libro, ma le pagine della loro vita col frutto delle buone opere sono scolpite a caratteri d’oro nel cielo. Se però la memoria di tante anime elette e i loro insegnamenti ed esempi vengono conservati e tramandati l’albero continua a dare frutti fecondi di virtù e di opere. “
La vita di Madera Brannetti, trascorsa nell’ombra e nel silenzio, ma sempre operosa e alimentata da grande spiritualità, è l’esempio di un’anima che ha saputo scegliere la parte migliore attraverso un’ascesi quotidiana sostenuta dall’accettazione e dalla paziente sopportazione di sacrifici e di pesanti croci.
Il suo primo impatto con la formazione cristiana avvenne nelle file dell’Azione Cattolica, guidata allora a Tuscania dal concittadino don Leopardo Venturini. Le manifestazioni religiose del paese segnarono in lei una traccia profonda e gettarono le basi della sua vita interiore. Nel suo amore per l’Eucarestia, che riceveva in casa ogni giorno, continuava la memoria delle sante impressioni ricevute fin dall’infanzia, quando la sera del Giovedì Santo, fino a mezzanotte, tutta la gente del paese passava da una chiesa all’altra per la tradizionale visita ai sepolcri. La passione del Signore, vissuta quotidianamente con la sopportazione delle sue sofferenze, era un segno indelebile lasciato nella sua anima dalle due processioni del Crocifisso e dell’Addolorata che si svolgono ogni anno a Tuscania con la totale e devota partecipazione della popolazione.
Il locale monastero delle Clarisse fu per lei come un faro che illuminò il suo cammino di perfezione evangelica. La malattia che la colpì nelle prima giovinezza non le permise di ritirarsi in un monastero, oasi di pace e di silenzio, ma essa seppe trasformare la sua casa in un chiostro col definitivo distacco dal mondo.
Madera fu una testimonianza del vangelo, fatto carne e sangue della propria vita. Negli incontri con chi andava a visitarla trovava sempre uno spunto di spiritualità per richiamare alla fede e alla vita cristiana, nei suoi consigli si rivelava il lume dello Spirito Santo e la sua giornata di preghiera era una costante unione dell’anima a con Dio.
Le sue parole e il suo esempio invitano ad un continuo risveglio di fede, affinché il verde della speranza non muoia e il fuoco dell’amore non si estingua.
Introduzione
Madera, qualche anno prima della sua morte, consegnò a Padre Stefano, un frate conventuale cappuccino, confessore ordinario delle monache clarisse ed anche suo confessore, e a suor Giuseppina, la abbadessa del monastero di San Paolo, un’agenda e alcuni quadernetti, nei quali, a cominciare da 14 anni, da quando cioè aveva fatto i santi esercizi con le giovani di Azione Cattolica, aveva trascritto pensieri riguardanti la vita spirituale e osservazioni e annotazioni sul proprio comportamento. Osservazioni e annotazioni che continuerà poi per tutta la sua vita, e nelle quali si preoccupava soprattutto di fissare, ad ogni inizio di anno, dei propositi che poi, alla fine dell’anno, verificava se li avesse seguiti. In più una serie di note spirituali attraverso le quali cercava di misurare il suo cammino nella perfezione e soprattutto il crescere del suo amore per Gesù.

Monastero S. Paolo delle Clarisse. Cortile interno.Sullo stendardo: “Gioventù Femminile Azione Cattolica” (sotto (non si legge) “Comitato Diocesano Tuscania”) 1950 ca.(da sinistra, prima fila in alto) 1.Lena Loreti 2.Pina Venturini 3.Elvetra Testa 4.Chiarina Regni in Brunori 5.Aude Sartori 6.Ilia Leonardi 7.Maria Paparozzi 8.Maria Nardi 9.(volto semicoperto) Madera Brannetti; (seconda fila) 1.n.i. 2.Giovanna Silveri in Bianchi 3.Rosa Minni detta la Torinese 4.Teresa Tenti (poi suor Maria Immacolata di Nostra Signora di Lourdes, monaca Clarissa) 5.n.i. 6.Cleofe Valentini in Corsetti 7.Artemia Rogo in Foschi 8.Concetta Corona 9.Elva Corinti; (sedute) 1.Leda Venturini 2.Rosina Dottarelli 3.Giulia Falleroni in Tosaroni 4.n.i. 5.Maria Patrizi in Giommoni 6.Aurilla Guidozzi in Oriolesi 7.(isolata) Mena Albanesi.
C’è in questi scritti la storia della sua anima, del suo cammino verso la perfezione, un cammino che si svolge in un continuo colloquio con il Signore, nel quale Madera, a Lui rivolgendosi, come ad una persona conosciuta da sempre e a lei tanto vicina, mette allo scoperto le sue inclinazioni naturali, i suoi sentimenti e vuole correggersi ed indirizzarsi al bene. Ad ogni inizio di anno fa i propositi, che però alla fine s’accorge di non essere riuscita a seguire e a mantenere completamente e allora chiede scusa al Signore e promette per l’anno successivo un impegno maggiore.
La nota dominante che attraversa dall’inizio alla fine questi scritti è l’amore di Dio, il desiderio di imitarlo e soprattutto di farlo conoscere ed inoltre la volontà di vivere la letizia francescana, soprattutto nel dolore, esprimendo sempre gioia e serenità.
I colloqui che intreccia con il suo Gesù, sono colloqui fatti di frasi usuali, nei quali traspare una confidenza quasi fanciulla, semplice e che rimane sempre tale anche nella piena maturità. In alcuni punti, però, l’esame del proprio spirito e del proprio progresso diventa puntigliosa e si associa anche una visione più ariosa, solare, profonda della vita dello spirito.
Quello che non c’è, o è solo accennato, è la rivelazione della sua malattia, dei suoi dolori quotidiani, del suo male alle gambe e dei suoi attacchi di cuore, della sua tristezza, che talvolta diventava angoscia, soprattutto nell’ultimo periodo della sua vita, (Che buio! Che buio! Dio non lo sento più vicino a me! Spero che sia l’ultima purificazione prima della partenza!).
Ma la tristezza e la notte dello spirito non trasparivano mai e non erano viste da noi che l’avvicinavamo. Abbiamo conosciuto questi stati d’animo quando abbiamo avuto tra le mani i suoi scritti. E questo silenzio, questo velo steso per tutta la vita sui suoi mali e sulle sue angosce è dovuto come ad un pudore, ad una riservatezza a voler dire sentimenti e mali che dovevano essere conosciuti solo da lei e dal Signore.
Se talvolta accenna ai suoi mali fisici, questa “confessione” la fa con molta semplicità e quasi con pudore. In fondo anche San Francesco di Sales diceva che “bisogna essere semplici e confessare che si soffre, ma bisogna procurare di dominare la propria sofferenza”.
E Madera sapeva benissimo dominare i suoi dolori, perché nonostante le sue sofferenze dimostrava sempre una grande serenità; ma diventava evidente la sua sofferenza, soprattutto quando non era possibile nasconderla, come quando aveva delle crisi di cuore, i suoi attacchi come li chiamava, e allora rimaneva immobile, abbattuta sulla poltrona, e doveva farsi massaggiare le braccia o immergerle nell’acqua tiepida per poter far circolare il sangue, oppure quando era costretta a rimanere ingessata o a tenere per mesi interi le gambe nelle docce o ancora, quando nell’ultimo periodo della sua vita, non riusciva più ad alzarsi dal letto per i grandi dolori al bacino.
All’inizio di questa specie di “Giornale dell’anima” sono annotate alcune date che erano state per Madera le basi fondamentali di tutta la sua vita spirituale. Le chiama “Anni di grazia”.
23 novembre 1924 – Santo Battesimo
7 agosto 1931 – Cresima
27 agosto 1933 – Santa Comunione
settembre 1938 – primi esercizi spirituali – direttore vita spirituale
12 marzo 1942 – Inizio malattia
Sofferenza
Nella personalità di Madera si evidenziano due componenti armoniosamente unite e quasi fuse in un unico modo di essere: un carattere forte, virile, ma sensibile e facile a commuoversi e un solido spirito soprannaturale.
Chi l’ha avvicinata ha potuto veramente constatare un carattere forte, deciso, capace di imporsi non per i modi bruschi e decisi, ma per una intrinseca forza virile. Spesso, per spiegare e quasi per giustificare questo aspetto mascolino del suo carattere, diceva che quando la portarono a ricevere il santo battesimo, allorché fu chiesto alla madrina quale nome voleva imporre alla figlioccia, la madrina rispose: Giovanni Battista; un nome non solo maschile, ma di un uomo forte, risoluto, addirittura contestatore. E questo episodio spesso lo ricordava per giustificare o meglio per scusare il suo carattere volitivo.
Ma se qualche rara volta poteva manifestare una certa rudezza, soprattutto nel richiamare qualcuno, questa sempre la riversava su di sé, e non si esonerava mai dal risparmiarsi quando c’era bisogno di ascoltare le persone che venivano a trovarla e a chiederle aiuto. Perché tante erano le persone che venivano a farle visita e non certo solo visita di cortesia, ma per avere lume su qualche problema che le assillava o per avere un qualche conforto.

Monastero S. Paolo delle Clarisse. Cortile interno. Madera ha 9 anni
Prima comunione femminile 27 agosto1933 – Anno Santo Straordinario
1.(A)Vanda Vignanelli 2.(B)Amelia Rogo 3.(C)Maria Nardi 4.(D)Teresa Nerli in Marconi 5.(E)Caterina Copponi 6.(F)Lidia Montesi 7.(G)Aude Sartori; (seconda fila) 1.(1)Antonietta Vitali 2.(2)Zelinda Cianconi in Bianchi 3.(3)Angelina Risi 4.(4)Amelia Valentini 5.(5)Iolanda Risi 6.(6)Livia Maccarri 7.(7)Rosina Dottarelli; (terza fila) 1.(8)Lidia Guadagnoli 2.(9)Lina Astolfi 3.(10)Adonella Santi in Conticiani 4.(11)Marisa Scriboni 5.(12)Ivalda Cherubini 6.(13)Elisa Capati in Copponi 7.(14)Bendetti Cencina (poi suor Gualtiera); (in primo piano) 1.(15)Maura Cardarelli 2.(16)Vera Fioravanti 3.(17)Vania Quarantotti 4.(18)Tilde Gasbarri 5.(19)Madera Brannetti 6.(20)Concetta Corona 7.(21)Adriana Rossi in Marcoaldi; Tre assistenti: (a sinistra) 1. n.i.; (a destra) 2.(abito bianco) Lucia Pasquali 3.(abito a fiori) Luigia Sartori.
Le persone che venivano a trovarla erano molte anche perché Madera era molto espansiva e quasi sentiva la necessità di avere molti amici ai quali dire, manifestare la piena del suo amore per Dio. Non li cercava certo per la personale felicità, perché sapeva essere felice anche nella solitudine
Raramente durante il giorno rimaneva sola con se stessa; si potrebbe dire di lei quello che scriveva San Francesco di Sales: “Non ho potuto disporre mai del tempo per me neppure un giorno”
Madera sapeva che se la gente le rubava il tempo, l’assediava, alla fine di questa devastazione c’era Dio. E tutto quello che lei aveva donato di pace, tutto il tempo che le era stato portato via e che poteva sembrare perduto, tutto diventava amore e le era restituito in amore. E se alla fine della giornata si ritrovava stanca, e quasi svuotata perché chi era venuto aveva preso qualcosa e se ne era andato sorridente e felice, dimenticandosi di renderle un grazie, allora era convinta d’aver donato un raggio di Dio.
E questo prodigarsi, questo essere a disposizione di chiunque si presentasse era segno della sua spiccata generosità. Aveva fatto suo il pensiero di San Francesco di Sales: “Se una cosa da nulla conturba un’anima, non bisogna per questo tralasciare di consolarla. Perché per i poveri i piccoli affari diventano grandi e del resto non è piccolo affare consolare un’anima che Gesù ha riscattato con il suo sangue.”

Era generosa, tanto generosa, ma si scherniva dicendo che questa virtù non l’aveva acquistata, ma ce l’aveva per natura.
“Generosità. – Scriveva – E’ una virtù che se ancora ce l’ho, debbo dire che di questa virtù non ho nessun merito. Dio me l’ha data per nascita. Fin dalla più tenera età dovevo dare, dare sempre; era per me un bisogno così grande da provare dolore fisico quando non potevo dare per motivi di forza maggiore. Fare la carità ai poveri era la mia gioia più grande e rimasi male quando la feci ad un vecchio che, non essendo bisognoso, mi sgridò alla mia offerta. Se un povero passava, non avrei dormito la notte se non gli avessi dato il mio obolo. Sono nata generosa: nel mettere a parte chi vuole delle mie piccole gioie, nel desiderare il bene a tutti, nel dare ciò che di meglio ho spiritualmente, le mie capacità di lavoro e le mie preghiere. Ho tanta paura di chiudermi perché so che il male è grande se, pazienza!, non acquistiamo una virtù, ma perdere quelle che il Signore ha dato è proprio una cosa grossa!
(16 febbraio 1966)
Quando una persona andava a trovarla instaurava subito un rapporto che diventava unico ed esclusivo. In quel momento non esistevano altri che quella persona, con i suoi problemi, le sue ubbie, i suoi dolori, le sue ansie. Non esistevano per lei l’umanità o il prossimo, esistevano le persone concrete, che la sua sensibilità le permetteva di capire fin nel profondo e la spingeva a risolvere con tatto e delicatezza i problemi che le venivano sottoposti.
Il temperamento, così caritatevole e generoso, e anche l’educazione ricevuta la aiutavano senza dubbio nel mostrarsi amabile, indulgente e garbata con tutti.
Era incline per natura a cogliere subito il lato buono nelle persone e nelle cose. E lontani da lei le mille miglia erano ogni forma di diffidenza e di trattamento scortese, e ogni stroncatura di persone, anche se apertamente potevano essere giudicate poco buone. Infatti quando andavamo a trovarla e si parlava di qualche persona sulla quale si potevano fare riserve o giudizi non troppo benevoli, anzi severi, subito Madera si affrettava a mitigare il giudizio negativo, dicendo che nessuna persona è solamente cattiva e nessun uomo è così piccolo e vile che non abbia un riflesso della bontà divina: la medaglia ha anche il suo rovescio e in fondo all’animo di ogni persona cattiva si nascondono sempre germi di bontà.
Ripeteva spesso un pensiero di Giovanni XXXIII:
“Procuriamo di vedere nel nostro prossimo nient’altro che la virtù e le buone opere e cerchiamo di coprire i loro difetti con la considerazione dei nostri peccati. Anche se da principio questa condotta non è molto perfetta, conduce a poco a poco a una grande virtù: a quella di considerare gli altri migliori di noi.”
E citava anche una frase che aveva letto e che aveva fatto subito sua, perché corrispondente appieno al suo modo di sentire. “Vorrei che nell’amicizia ci sbagliassimo in questo modo che ad ogni errore il nostro affetto trovasse un nome onorevole”.
E nel rapporto con il prossimo non si limitava a condannare l’atteggiamento negativo, ma andava oltre, diceva che si doveva manifestare sempre un comportamento positivo, caritatevole con gli altri. Perché come era vero che una osservazione lasciata cadere contro un amico poteva distruggergli emotivamente tutta la giornata, un piccolo segno di amicizia poteva suscitare una grande gioia.
E se cosi stanno le cose, perché – diceva – usiamo poco questa verità? Una parola di lode, una cartolina con tanti saluti, una telefonata, un sorriso potrebbero rasserenare e illuminare la giornata di chi ci sta vicino o conosciamo. E perché ci deve costare tanto fare cose così tanto semplici? Ricordatevi – concludeva – che la via del cuore è sempre una via quieta e gentile e un gesto, semplice, ma fatto con amore può trasformare una giornata di pioggia in una giornata di sole.
Delicatezza e dolcezza erano le caratteristiche del suo comportamento e lo scriveva il 20 febbraio del 1966:
Delicatezza. Come vorrei essere un riflesso di Dio in questa virtù! Non so com’è, ma mi piace tanto e purtroppo mi accorgo di mancare molto spesso. Temo che per manifestare una pace continua, una serenità inalterabile e quindi, come conseguenza, una dolcezza nei rapporti con il prossimo, il mio cuore dovrebbe essere distaccato da tutto; il mio amor proprio, così vivo, distrutto; la mia superbia a ramengo. La mia mente poi dovrebbe essere perduta nel pensiero costante di Gesù e nel desiderio grande di far rivivere Lui.
La seconda componente della fisionomia morale di Madera era lo spirito interiore, “che si possiede solo se l’anima è continuamente unita a Dio, se c’è un’adesione totale alla sua volontà, un’adesione che diventa abbandono e accettazione della croce che tocca il vertice nel ringraziamento.”
18 gennaio del 1966 scriveva:giornate di sofferenza, mio Dio! Trascorro le nottate intere a tossire seduta sul letto; quanti pensieri vengono in queste ore tanto lunghe! Ti ringrazio, Signore, per il coraggio che mi dài. Tu lo sai: per i miei desideri ti darei ancora di più, ma riconosco quanto sono limitate le mie capacità, perciò ti prego, o mio Gesù, di darmi la forza di soffrire quanto vuoi Tu, neppure un’oncia di meno di ciò che è la tua volontà santa. E siccome non te ne so chiedere altre di sofferenze e alle volte sto per soccombere, ricordati che hai a che fare con la più piccola anima che ti ama sulla terra.
La sofferenza! Possiamo dire che tutta la vita di Madera è stata una continua sofferenza.afflitta da innumerevoli malattie e credo che tutti i suoi malanni possono essere considerati alla luce della sua volontà di soffrire.suoi 74 anni d’età fu colpita, e sarebbe meglio dire accompagnata, da innumerevoli disturbi e malanni. Dalla difterite che la colpì da bambina, alle febbri di malaria, curate con il chinino che le procurava allucinazioni. Dalla sinovite a entrambe i ginocchi, che la costrinse a vivere inchiodata ad una poltrona e a non uscire più di casa, alla osteomielite, che ogni due o tre anni le si riacutizzava nelle varie parti del corpo, al blocco polmonare, alle abbondanti perdite di sangue nel corso di dieci anni, agli attacchi di cuore, ai frequenti acuti dolori di capo fino al cancro. questo perché per le anime che si sono donate completamente a Dio è vero ciò che scriveva Santa Teresa d’Avila a proposito dei suoi dolori, della sua sofferenza:
“Credimi, figliola, – le suggeriva il Signore – più mio Padre ama un’anima, più le invia tribolazioni. Anzi queste sono la misura del suo amore. Del resto in che modo ti potrei mostrare maggiore amore se non volendo per te quello che ha voluto per me? Considera queste piaghe che i tuoi dolori non arriveranno mai ad eguagliare. In questo è il cammino della verità. Quando te ne sarai persuasa potrai meglio aiutarmi a piangere la rovina a cui vanno incontro i mondani i cui pensieri, cure e desideri sono tutti per la ricerca del contrario.” stenta a credere alla santità di chi abbiamo conosciuto e visto fin da bambini e non ha presentato nulla di strano. Perché si ritiene che la santità sia, se non proprio una esclusività della gente del chiostro, almeno un affare riservato a poche anime elette e privilegiate per le quali la santità sarebbe un dono piovuto dal cielo e che esse non hanno che da ricevere. persone buone e sante, infatti, dai loro biografi, che magnificano certe esperienze di vita favolose e assurde, sono separate da noi, dal nostro modo di vivere, dalle nostre esperienze quotidiane; ma questo è sbagliato, perché devono essere messe sullo stesso piano della nostra vita, senza con questo diminuire la loro bontà.é in realtà le persone sante sono come tutti gli altri uomini e prima di diventare santi sono state persone comuni come noi, e quei biografi, che calcano la mano su certi fatti inventati di sana pianta, fanno prima sorridere e poi rabbia. Perché le biografie scritte con l’unico intento di edificare sono melense e poco vere. La parte di Dio nella storia della santità è certamente grande, ma nella preparazione c’è anche una parte umana che è bene mettere in risalto e questa parte umana noi la scorgiamo soprattutto quando i santi li sorprendiamo nei momenti tristi che pesano sulla vita di ognuno come macigni e sono i momenti della prova e del dolore. le prove che dovette sopportare Madera furono numerose e tutte le sopportò in silenzio e con grande rassegnazione. E non parliamo delle prove che derivarono dalle delusioni, piccole e grandi di cui la vita è piena, parliamo delle prove vere, dolorose permesse da Dio, come malattia, incomprensioni, solitudine, abbandono.
testamento spirituale diceva:
Ho sempre sofferto, non tanto ciò che avete visto, ma ho sofferto nel cuore fin da bambina per la mia sensibilità; il pensiero dei poveri, degli abbandonati, dei carcerati non mi faceva dormire. Venendo grande e partecipando alle pene di tutti sono cresciute le occasioni di dolore e di tristezza. Per mia fortuna il Signore mi è stato sempre vicino.
Alla fine del 1941 scriveva nel suo diario: Quanto ho sofferto moralmente in quest’anno, o mio Gesù! Che mi porterà il 1942? Quello che sarà, non importa, basta che alla fine dell’anno ti voglia più bene.
il 14 marzo del 1942 le si ammalò il ginocchio sinistro; e da quel momento cominciò il suo calvario che la costrinse a stare dapprima per un anno intero immobile e ingessata, poi per tutta la vita, seduta su una poltrona, senza poter mai uscire di casa e muoversi, lei così piena di vita e di gioia di vivere.
domandiamo come abbia fatto a non lasciarsi prendere dallo scoraggiamento e dalla stanchezza; come abbia fatto a trovare in tutte le prove lo sprone e il segreto ad una santificazione della vita.segreto in verità non è diverso da quello di tutte le anime buone e sante. L’accettazione del dolore, la sua trasfigurazione fino ad amarlo e desiderarlo è avvenuta in lei nello stesso tempo in cui si radicavano alcune convinzioni.sofferenza è il miglior alleato per eliminare le scorie di orgoglio, di amor proprio di tutto ciò che è umano e impedisce di trovare Dio; il dolore, comunque si presenti, è sempre un’espressione del volere di Dio che sarà sempre a vantaggio dell’uomo; la sofferenza rende simile a Gesù e che quindi è un grande privilegio; le sofferenze sono necessarie per la conquista delle anime. ha cercato di comprendere tutto ciò con la preghiera continua, con piccoli e grandi superamenti fino ad arrivare all’eroismo.
31 dicembre del 1943 scriveva:
Sono sola qui nella mia poltrona e sono tanto triste, però in fondo sono contenta, perché, o Gesù, ho da offrirti tante piccole sofferenze in tutti i campi morali, spirituali e fisici… Gesù, ho paura dell’anno che entra, ma ci sei Tu nel mio cuore, perciò di che cosa dovrò temere? Beh, quello che sarà non importa, basta che alla fine dell’anno sia un grado più avanti nella perfezione. Chiudo l’anno ai piedi della croce. È venerdì.
avesse accettato a piene mani la sofferenza che le era caduta addosso lo annota nei primi giorni del 1944:
Essere ostia. Un’ostia è originariamente grano triturato. Signore, prendi questo grano, è tuo. Sotto la macina delle sofferenze provvidenziali e delle penitenze volontarie permessemi dall’obbedienza, fa’ che io sia triturata per Te e che il fuoco dell’amore faccia di me un pane senza macchia.’ostia è un umile pezzetto di pane che cessa di essere pane nella consacrazione. Ebbene o Signore, voglio ormai cessare di vivere una vita terrena, una vita di vanità, di cupidigia, di sensualità, non voglio più essere io che vivo in me.’ostia è un pezzo di pane diventato Gesù Cristo. Non essere più io, o Signore, è la parte negativa del mio lavoro. Non voglio compierlo se non per diventare Te. La tua ostia viva, che sia parimenti Te, o Gesù, e unicamente Te.
1948, e precisamente nella Domenica delle Palme, le si ammalò anche l’altro ginocchio e in luglio ebbe i primi attacchi di affanno che poi le rivelarono la malattia di cuore. E siccome ormai era costretta a starsene seduta nella poltrona e non poteva più uscire di casa, il primo di settembre del 1949 stilava un piccolo programma per il tempo di malattia.
Mattino, prima delle 9: preghiere e meditazioneù tardi: rosario e giaculatorie: Via Crucis; secondo rosario; lettura spirituale; santa messa con il missionario. Il sabato, l’ufficio della Madonna.: terzo rosario, preghiere, esame di coscienzaù che mi servono in questo momento: pazienza e dolcezza.
A proposito della pazienza così scriveva
Pazienza: Aspettare, aspettare sempre. Come questa virtù è appannaggio di Dio! Lui, che non è del tempo, aspetta con infinita pazienza l’anima che si converta, che ritorni, che lo ami. Che sofferenza invece per l’uomo, specialmente per l’ammalato! Aspetta l’esito della cura, prima, poi la guarigione, se questa non viene, è condannato ad aspettare sempre. La santa Comunione, che nessuno porta; il sacerdote che la consoli con il suo ministero: l’amico più caro, che, preso dagli affari, rimanda la visita. Al mattino, che venga presto la notte; la notte, che venga presto il mattino… e questa attesa diventa ossessiva e sfibrante. Mio Dio, come tutto questo è sciocco, seppure umano! Abbiamo Te e Tu solo ci devi bastare, perché in te non c’è attesa che delude; il pensare a Te è già possederti. Tu sei la risposta a tutte le attese, perché sei l’Amore.
(1 gennaio 1966)
Pazienza, virtù dei forti. Forse è questa la ragione per cui mi manca. Fin dal mattino prometto a me stessa di essere paziente e quante occasioni durante la giornata!. Spesso cado, altre volte mi sforzo per riuscire vittoriosa. Vorrei diventare come San Francesco di Sales, di una dolcezza e di una pazienza impareggiabili, invece…Dovrei avere più pazienza con me stessa, con i miei di casa e con il prossimo. Poiché non c’è nulla che dispiaccia di più in chi ci avvicina, quanto vederci agitati ed irascibili; forse proprio essi, non volendo, fanno del tutto per farcela perdere la pazienza, ma rimangono molto male nell’assistere alle impazienze altrui. Pazienza, pazienza, pazienza sempre!
(17 gennaio 1966)
sono le notazioni in cui accenna, seppure in modo velato, alla sua sofferenza, soprattutto alla fine di ogni anno, quando faceva il punto sulla situazione della sua anima.
grazia di Dio, che mi rimprovera in questa fine d’anno, sono qui nella poltrona sempre malata, ma un po’ triste per il buio dello spirito. Gesù è lontano o forse è molto vicino, ma nascosto e io non lo vedo, però l’amo tanto ugualmente.
(31 dicembre 1950)
è cambiato dallo scorso anno, sono sempre tanto sola, però ci ho fatto un po’ l’osso, benché ogni tanto sono per questo un pochino strana. Perdono di tutto e aiutami, Gesù. Ho paura di non farcela a diventare santa e prendimi presto con Te.
(31 dicembre 1956)
La salute sempre uguale: male. Sono stata ingessata tutta l’estate in tutte e due le gambe e questa sera ho l’attacco di cuore.
(dicembre 1960)
Blocco polmonare – male fisico – abbandono spirituale – solitudine morale
(18 novembre 1965)
Le gambe hanno peggiorato: per sei mesi ho portato le docce.
(31 dicembre 1970)
Domani compio 30 anni di malattia. Signore mio, amato Gesù, accettali come dimostrazione di amore, come un canto che ho fatto alla tua presenza per dirti che sono tua; che fare la tua volontà è il mio desiderio e che nella mia piccola vita sono la tua creatura che tanto desidera la perfezione. Ho cercato di accettare tutto con il sorriso, anzi con gioia, come una bambina ho avuto anche paura, sono stata poco generosa, ho tremato per l’avvenire, ma Tu sai, o Gesù, quanto valgo poco, come sono piccola, di poco valore e che se alle volte ce la faccio è perché Tu ti sostituisci a me. Fallo sempre, Gesù, anche nei prossimi anni, così non avrò paura e potrò dirti ancora nel dolore: Gesù Ti amo tanto!
(11 marzo 1972)
Anno con una svolta fisica; sembra dal primo dell’anno che mi sia capitato un terremoto interno: mangio con paura di soffocamento e provo momenti di tristezza. Momenti di angosciosa solitudine.
(31 dicembre 1981)
le sofferenze che soffri Madera non erano solo fisiche, ma anche morali e spirituali: l’impossibilità di aprirsi con gli altri per l’incapacità degli altri a capirla e ad aiutarla nei momenti nei quali si sentiva più triste per quel senso di abbandono che provano le anime nelle prove che il Signore manda; il dipendere completamente dagli altri a causa della sua infermità che la costringeva a rimanere immobile nel letto o nella poltrona; la solitudine.
Si è tutto confermato e meglio ampliato ciò che intravidi l’anno scorso circa l’isolamento. Veramente ora posso dire che è completo. Mi sembra quasi che anche Tu, o Gesù, ti sia allontanato da me. Come mai? Hai ragione, sai? Perché io dovrei essere più buona, e più raccolta invece… adesso poi che è nato l’altro nipotino. Ma, o Gesù, non mi abbandonare per carità, perché ho Te solo e non Ti voglio per nessuna ragione dar dispiacere, anzi voglio come sempre diventare Santa per farti contento e darti le anime.
(31 dicembre 1955)
E l’isolamento, la solitudine, che Madera provò spesso, credo che sia il problema cui va incontro soprattutto la persona che ha una grande sensibilità.piccoli rifiuti di ogni giorno, un’osservazione irrispettosa, un secco diniego o un silenzio pungente potrebbero essere cose innocenti o indegne della nostra attenzione se non suscitassero, specie nelle persone sensibili, il timore umano di essere messi da parte e abbandonati. Soli– come dice il salmo 88 – con le tenebre nostre compagne.
Perché l’isolamento non conduce alla pace interiore e alla solitudine del cuore, come si potrebbe pensare, ma se non siamo accorti può provocare risentimento e amarezza. Ciò che è importante è ottenere quella solitudine nella quale è possibile esaminare i sentimenti di amarezza e di ostilità e considerarli come indice della nostra immaturità; in questa solitudine potremo incontrare Dio, che rimarrà sempre fedele anche quando nessuno si interesserà di noi.
la solitudine di Madera, l’isolamento cui andava incontro sempre di più giorno dopo giorno si concretizzava con il distacco delle persone care che avveniva a poco a poco, come se Gesù volesse abituarcela piano piano e lo dice espressamente alla fine dell’anno 1961:
Pina (l’amica del cuore) è partita per sempre. Per fortuna che hai pensato, o Gesù, a distaccarmi da tutti piano piano e a tempo altrimenti con questa solitudine stavo fresca!. Grazie, Gesù! Come sei delicato. Prendi tutto con una delicatezza degna di te!
E il 19 gennaio del 1964:
Rientrare in me, scendere con l’immaginazione nel santuario della mia anima: Gesù è là; questa non è immaginazione, ma verità. Lui l’ha promesso ad ogni anima che l’ama. Andarle incontro, vedere quella luce, sentire quella presenza, udire quella voce, tutto in modo mistico, non percepito dai sensi. Rimanere il più possibile unita a questo contatto divino, vedere ciò che si deve fare per diventare veramente buona; amarlo con il suo stesso amore, sentirmi distaccata da tutto e da tutti. Questo, seppure è stato il mio modo di esprimere la mia vita spirituale e per alcuni anni, è stato applicato in modo tanto sentito da uscire fuori da questo contatto trasformata anche fisicamente, purtuttavia vorrei che questo modo di vivere fosse ogni giorno più vissuto e che questa lenta, ma continua trasformazione raggiungesse quanto prima la sua meta.
E nel febbraio del 1966:
Avanti per la mia strada seppure un po’ a fatica. Sono del Signore e ogni nostalgia per le creature è una piccola infedeltà al mio Dio. Tutto è vanità e polvere che, seppure in un momento sembra oro, la sua funzione è sempre quella di ottenebrare la vista, far pizzicare gli occhi e di conseguenza far uscire le lacrime. Con tutta la carità esprimo il mio giudizio riguardo alle creature. Ti ci vai ad appoggiare e trovi un sostegno di gommapiuma, che cade appena ti ci avvicini. Sono sempre presi dai loro problemi, grandi o insignificanti che siano e non hanno tempo per ascoltarti. In molti casi poi l’egoismo impera e allora siamo fritti.
Per lei le creature alle quali cercava di appoggiarsi per avere conforto o comprensione erano sostegni di gommapiuma, e questo pensiero era in perfetta sintonia con quello di San Francesco di Sales per il quale “gli uomini sono aridi fuscelli di rosmarino ai quali non è sicuro appoggiarsi, perché si rompono al minimo vento di contraddizione e di biasimo.”
nel resoconto dell’anno successivo:
Solitudine esterna, quasi angoscia. La quaresima l’ho passata al letto. Mi stanco terribilmente. Dubbi sulla fede. Sofferenze spirituali. Ho faticato tanto a tenermi su, però ho imparato un po’ ad essere inondata di sole.
Nel 1986, la casa paterna, quella che aveva dovuto abbandonare a causa del terremoto del 1971, perché inagibile e dove era sempre vissuta con tutta la famiglia, finalmente era stata ricostruita ed ultimata e Madera allora aveva espresso ai suoi il desiderio che tutta la famiglia si trasferisse e riprendesse a vivere come prima del terremoto nella vecchia casa di Via del Rivellino. Ma ci fu da parte dei suoi una certa resistenza a cambiare casa, ancora una volta, a cambiare abitudini e ad andare ad abitare nel centro storico del paese dove in realtà vivevano poche famiglie, perché la maggior parte della gente abitava nelle case che erano state costruite fuori del paese.Madera volle andarci. E non fu un capriccio, né una decisione presa senza valutare i pro e i contra. S’era consigliata con il confessore – come diceva – e aveva preso questa decisione dopo la morte del padre. La decisione fu una decisione sofferta anche perché, malata e bisognosa di aiuto si sarebbe trovata sola. Alla fine dell’anno, quando ormai abitava nella sua casa, da sola, già da tre mesi scriveva:
Ho lottato, ma con tanta pace, per il ritorno a casa nostra. Provo tanta gioia a trovarmi di nuovo qui nella solitudine estrema; piccole paure, ma tanta unione con Dio. Grazie, Gesù! Stammi vicino.
Il 20 agosto del 1995, quando la malattia si era aggravata e sentiva ancora di più la necessità di un aiuto materiale scriveva:
Ore 18,15- O Madre, stammi vicina. Fasciami stretta con il tuo amore, affinché mi senta protetta e rendimi le forze.per mano, affinché non cada sia nel peccato sia nel dare il più piccolo dispiacere a Gesù e fa’ che anche non cada materialmente.a sbrigare tutte le mie piccole cose senza perdere la pace per le stupidaggini della terra.le cose più belle di Gesù dal paradiso.e fammi bella per le nozze affinché piaccia a Gesù in tutte le sante virtù.dolcemente addormentare nel tuo cuore, nella morte senza paura e senza affanno. Presentami a tuo figlio per godere in pieno la gioia di amarvi e di essere amata.mia fiducia mia. Amen
Per concludere il tema della sofferenza riportiamo il pensiero dell’8 gennaio del 1966:dolore, dopo la volontà, è l’unica cosa veramente nostra: esso è come l’amore: tutti gli uomini credono di averlo capito, ma molto pochi sanno veramente come si ama e perché si soffre. Il dolore è il mezzo più sicuro per esprimere a Dio il nostro amore, la nostra adesione alla sua volontà, la certezza che la nostra preghiera attraverso di esso arrivi fino a Dio, come l’incenso che, bruciando e distruggendosi, salisce al cielo.me il dolore fisico è come trovarmi nel mio elemento, e la risposta ai miei tanti desideri, è il lavoro necessario per adempiere la mia vocazione d’amore verso Gesù e verso i fratelli; è insomma l’aiuto spirituale senza il quale non saprei come sorreggermi e come dire a Dio: Ti amo!, specie nei momenti di tenebre.
IL 24 settembre del 1999 Madera fu colpita da un ictus e, dato che la situazione sembrava tanto grave, fu chiamato don Steno per amministrarle l’Estrema Unzione. giorni seguenti manifestò un certo miglioramento, ma da quel giorno non riuscì più a riprendersi.
Non potendo essere trasportata in ospedale, anche per sua espressa volontà, fu curata, per quanto poteva esserlo in quelle condizioni, dal dottor Fusco. E così andò avanti per altri sette mesi con dolori lancinanti al bacino e con abbondanti perdite di sangue, che facevano diagnosticare senza ombra di dubbio ad un cancro. I dolori erano talmente acuti che non le permettevano neppure di stare seduta; doveva rimanere al letto con vari accorgimenti, perché anche rimanere al letto le procurava dolori intensi.
Preghiera
Credo che la preghiera sia l’elevazione dell’anima a Dio…Perciò l’anima quando prega non deve fare altro che lasciarsi penetrare da Dio, rimanendo il più possibile alla sua presenza…
ì scriveva Madera il 31 gennaio del 1980. E voleva dire che la preghiera consiste in un tratto intimo con Dio, in cui l’anima cerca la sua presenza per intrattenersi affettuosamente con Lui. Come il figlio che vuole intrattenersi con il padre suo, o come l’amico che vuole intrattenersi con l’amico.qualsiasi forma assuma, la vera preghiera non ha nulla di complicato e di costretto: è il respiro dell’anima che ama il suo Dio, è l’atteggiamento del cuore che tende a Dio e che sa che ogni bene ed ogni aiuto viene da Lui. E intesa in questo modo la preghiera è sempre possibile, in qualsiasi momento e in qualsiasi circostanza; anzi per un’anima che ami il Signore sarebbe impossibile interromperla, come sarebbe impossibile interrompere il respiro.’orazione non è, quindi, che un fatto di amore ed è inesatto pensare che non si abbia orazione se non quando si disponga di tempo e di solitudine. Con un po’ di attenzione possiamo accumulare grandi ricchezze anche allora che con travagli di vario genere il Signore ci toglie la possibilità di pregare secondo formule stabilite.preghiera infatti è anche l’azione giornaliera fatta con Lui, il dolore sopportato con gioia per Lui, la comprensione e l’aiuto dato al fratello, il superamento dello scoraggiamento e della tristezza, i brevi momenti di gioia goduti con Lui. In ogni giorno non dovrebbe mai mancare questo bagno salutare per dare a Dio la nostra doverosa adorazione e ricaricare la nostra batteria.il lavoro, che spesso diventa occasione di disagio e di irrequietezza, può essere trasformato in preghiera, quando riusciamo a santificarlo, instaurando con l’attività che si compie, un rapporto sereno, senza soffrire noia o monotonia.però la preghiera è una cosa così apparentemente semplice, non è sempre facile pregare e pregare bene.
“Quando pregate – dice Gesù – non fate come gli ipocriti…”.bisogna soffermarci sul valore di quel quando, non è una preposizione temporale, ma condizionale. E vuole dire se avvenga che preghiate. ò vuol dire che la preghiera non è una cosa che va da sé, ma costituisce per noi un avvenimento che si verifica allorché sussistano determinate condizioni. Perché il guaio è che nelle nostre preghiere, in quelle che noi riteniamo tali, noi parliamo di Dio e non con Dio, nel senso che se preghiamo per una situazione oggettiva che ci è capitata, noi ci mettiamo a discutere sulle ragioni per le quali Dio l’ha permessa. E se noi nella preghiera parliamo di Dio, e trasformiamo Dio in un argomento, in un tema secondario, dopo qualche tempo, allorché siamo presi e sopraffatti da altri problemi ben più importanti ed impellenti, come il posto di lavoro, la stanchezza, il nervosismo, noi ci volgiamo a questi temi e a questi argomenti e non accettiamo con serenità la volontà di Dio.
La preghiera è sì un atto di amore, ma è anche una supplica, un chiedere le cose che ci mancano, un esporre le nostre necessità; ma questa preghiera – ci domandiamo – che senso ha e quale efficacia può avere dal momento che Dio sa già tutto, ha sempre sotto lo sguardo la situazione degli uomini e non ha bisogno che gli sia descritta, e conosce quel che è bene per loro e ha deciso fin dall’eternità i suoi interventi. Egli certo non muta consiglio per suggerimento di chicchessia, né si lascia strumentalizzare. Ebbene se così stanno le cose che valore ha questa preghiera?che abbia un valore, se ci rivolgiamo a Dio con l’umile sottomissione di chi chiede, ma nello stesso tempo accetta di fare la sua volontà.
“Passi da me questo calice, ma sia fatta la tua e non la mia volontà”.Così prega Gesù nell’Orto degli Ulivi.E.M.Rilke: “Gesù ha detto: Bussate e vi sarà aperto. Chiedete e vi sarà dato Ma a che ci serve questo telefono, che si chiama Gesù, nella cornetta del quale gridiamo continuamente: Pronto!e nessuno risponde? Ma siamo sicuri di aver fatto il numero giusto? O non è che abbiamo fatto il nostro numero? Ecco perché nessuno risponde.”noi facciamo il nostro numero, quando nella preghiera pensiamo a noi stessi: al pane, alla carriera, ai soldi, alla salute. Non pensiamo a Colui alla cui misericordia e alla cui potenza dobbiamo lasciare la libertà di intervenire come crede per il nostro bene. Noi non abbiamo bussato, non abbiamo pregato; abbiamo preteso, abbiamo detto a Dio in modo dettagliato come se Dio fosse un povero ritardato, in che modo si sarebbe dovuto comportare. E questa non è preghiera.questo proposito ben aveva visto Madera. Infatti il 31 gennaio del 1980 così scriveva:
L’uomo crede che la preghiera sia essenzialmente chiedere a Dio qualche cosa, o meglio, sia dire a Lui ciò che deve fare, e spesso nel pregare per noi o per una persona cara facciamo tutto un bel programma.? Fa’ così! Leva lì! Dammi questo! Dagli quello! Sembra proprio che i grandi cervelloni siamo noi e che ci rivolgiamo ad un povero ritardato che ha bisogno della nostra imboccata per sapere come si deve comportare per il nostro bene.l’impressione, pregando così, che accada quello che accade alla madre che dica al figlio, ormai adulto, come comportarsi nelle varie circostanze e soprattutto debba parlare dandogli l’imbeccata. Credo che la prima disposizione della preghiera, o meglio, che la preghiera sia l’elevazione dell’anima a Dio, perciò l’unico modo giusto sia proprio questo: purificarsi col chiedere perdono. L’uomo, che è pieno di contraddizioni di bene e di male e che si vuole mettere a contatto con il suo Dio, con il suo Creatore, con il trascendente, si metta con tutta umiltà alla sua presenza. Come il piccolo fiore si offre al bacio del sole, come l’oceano alla luce, come il deserto al calore, come tutta la natura è attratta dal sole, poiché è Lui l’unico sole che può illuminare l’uomo, riscaldarlo e ristorarlo. Perciò l’anima quando prega non deve fare altro che lasciarsi penetrare da Lui, rimanendo il più possibile alla sua presenza, proprio come si fa il bagno di sole: si sta lì e basta, il sole sa cosa deve fare, non occorre che glielo diciamo noi; la sua potenza ci penetra, ci ristora, ci illumina ci dà una grande pace. Basta recitare poche parole del Pater noster, per esempio: Padre nostro che sei nei cieli sia santificato il tuo nome. Pensare a questo, alla presenza di Dio e basta. I nostri cari o le nostre pene farli sfilare una per una come se si facesse la presentazione di persone o cose al Re. Poi basta. Lui sa il meglio da farsi: fare uscire tutto e tutti e rimanere soli nella sua sola compagnia per fare questo magnifico bagno di sole.
“Basta recitare poche parole del Pater noster” E’ il pensiero di Santa Teresa d’Avila: “Ci sono persone talmente attaccate a recitare preghiere e le recitano così in fretta da far credere che siano obbligati a recitarne un dato numero ogni giorno e che cerchino di soddisfare prestamente il loro compito. Ma voi guardatevi dal fare così. Vale più una sola parola del Pater noster detta di quando in quando che recitarlo intero molte volte e in fretta.”
farci capire la preghiera, il suo valore, la sua capacità di smuovere il cuore di Dio, Madera ci portava tanti esempi. Una volta paragonò la preghiera ad un missile che viene lanciato contro un bersaglio.
“Dio– diceva risponde sempre alle nostre preghiere. Se non risponde si vede che la nostra preghiera conteneva una richiesta fasulla o non aveva raggiunto il cuore di Dio o non era preghiera. Perché pregare è fidarsi di Dio, sicuri che come Padre non può non volere che il nostro bene. Dio risponde sempre, ma non subito, perché l’avverbio non si trova nel vocabolario di Dio e poi Dio risponde non alle nostre richieste, e che spesso più che richieste sono pretese, ma ai nostri bisogni, soprattutto spirituali. E se il missile (la preghiera)si è perduto per strada e non ha centrato il bersaglio, la ragione va ricercata nel fatto che il propellente non era idoneo a dargli la spinta sufficiente. Perché il propellente che spinge la nostra preghiera a forare le nuvole e a raggiungere il bersaglio, il cuore di Dio, è qualcosa di nostro. E cos’è che abbiamo veramente di nostro? Una cosa sola: il dolore. Solo se la nostra preghiera è accompagnata dalla sofferenza arriva al trono di Dio. Altrimenti si perde per strada.
espresso l’8 gennaio del 1966:
Il dolore è il mezzo più sicuro per esprimere a Dio il nostro amore, la nostra adesione alla sua volontà, la certezza che la nostra preghiera attraverso di esso arrivi fino a Dio, come l’incenso che, bruciando e distruggendosi, salisce al cielo.
Tante volte – osservava ancora Madera – preghiamo per le persone a noi care, per alcune persone che ci stanno a cuore e ci accorgiamo che la nostra preghiera soffre di aridità. E’ come se andassimo a cozzare contro un muro di cemento, granitico, che non subisce la più piccola scalfittura. Ma allora – ci domandiamo – Dio non ci ascolta?. Sì, Dio ci ascolta, ci sente, ma rimane sordo, distaccato dalle nostre richieste, anche se fatte col cuore, con la passione di chi chiede con umiltà e sottomissione una cosa veramente buona. Dio rimane muto ed insensibile alle nostre richieste, perché vuole che la persona, per la quale chiediamo con fede e con insistenza qualche grazia, sia disponibile all’intervento di Dio.
Tristezza
“La tristezza – scriveva Don Tonino Bello– non è quando la sera non sei atteso da nessuno al tuo rientro in casa, ma quando tu non attendi più nulla dalla vita.la solitudine più nera la soffri non quando trovi il focolare spento, ma quando non lo vuoi accendere più, neppure per un eventuale ospite di passaggio.pensi insomma che per te la musica è finita. E ormai i giochi sono fatti. E nessun’anima viva verrà a bussare alla tua porta. E non ci saranno più né soprassalti di gioia per una buona notizia, né trasalimenti di stupore per una improvvisata. E neppure fremiti di dolore per una tragedia umana: tanto non ti resta più nessuno per il quale tu debba temere.”
che tutti, chi più chi meno, abbiamo provato, in un momento della nostra vita, la tristezza, quella commozione dell’animo, cioè, per la quale vediamo tutto nero intorno a noi e crediamo che nessuno ci capisca e si interessi di noi. Perdiamo la speranza del futuro e ci chiudiamo in noi stessi.

anche Madera – l’abbiamo visto dai suoi appunti – ha sentito in certi momenti particolari la commozione della tristezza. Una tristezza che nasceva soprattutto dalla sua estrema sensibilità, che però non si è mai mutata in inquietudine
Nel 1938, all’età di 14 anni, aveva trascritto in un quaderno alcuni pensieri che, come le aveva detto il suo direttore spirituale, l’avevano fortemente colpita, e tra i pensieri c’era uno che riguardava proprio la tristezza:
“L’anima che non desidera essere trascinata prima o poi in un precipizio, deve combattere la commozione della tristezza. Questa commozione è una passione e se si lascia crescere occuperà presto tutto il campo dell’anima. E’ necessario circoscrivere immediatamente la sua azione, ricorrere a Dio con la preghiera e se l’anima disgustata ricusa di pregare e si ostina nella malinconia, bisogna applicarvela per forza.”
é l’anima può talvolta essere presa, per tante piccole o grandi ragioni, da un moto di tristezza, questa però non deve mai trasformarsi in malinconia e in inquietudine. Perché “la malinconia e l’inquietudine – come diceva San Francesco di Sales – sono frutto del nostro amor proprio; la tristezza, invece, nasce dalla conoscenza della nostra miseria e delle nostre infedeltà. Se siamo inquieti è perché ci dispiace di non essere buoni, anzi perfetti, e non tanto per amore di Dio, quanto per amore di noi stessi.”
Dio – diceva San Giovanni Crisostomo – ha posto la tristezza nel nostro animo non per usarla fuori di proposito o contro noi stessi, ma per giovarcene e per aiutarci. Dobbiamo essere tristi non quando soffriamo, ma quando operiamo il male.
“Quando ho commesso una mancanza che mi rattrista – scriveva Santa Teresa del Bambin Gesù – so bene che questa tristezza è la conseguenza della mia infedeltà. Allora mi affretto a dire: Mio Dio, so che ho meritato questo senso di tristezza, ma lascia lo stesso che te lo offra come una prova che mi invii amorevolmente.”
Bisogna quindi cercare di vincere la tristezza che assomiglia ad un “duro inverno che falcia la bellezza della terra e intirizzisce gli animali, perché toglie ogni soavità all’anima e la rende rattrappita e impotente nelle sue facoltà.”
la tristezza da cui talvolta era presa Madera – come risulta dai suoi appunti – nasceva, per la sua sensibilità, soprattutto dalle mancanze di corrispondenza al suo affetto da parte delle persone care, di quelli che gli stavano più vicini.
doveva esercitare una grande pazienza, non solo per sopportare il dolore fisico, ma anche alcune situazioni che le si presentavano con certe persone che non riuscivano bene a capire il suo modo di fare e il suo comportamento.
qualche suo gesto non veniva capito, o veniva giudicato in modo diverso dalle sue intenzioni, Madera, sorridendo amaramente, ripeteva alcune osservazioni di Santa Teresa d’Avila:
“Ai buoni nessuna delle loro imperfezioni passerà inosservata. Molte delle loro buone azioni non saranno apprezzate e forse neppure stimate per tali, ma quanto alle cattive e imperfette non ne sfuggirà neppure una. Chi mai ha dato al mondo l’idea della perfezione? Se questa idea la usa, non la usa certo per volersi perfezionare. A ciò non si tiene obbligato, anzi crede di fare troppo quando osserva convenientemente i comandamenti. L’usa solo per condannare gli altri e giudica alle volte come fatto per soddisfazione personale quello che invece è virtù.”
E ancora:“La perfezione si acquista a poco a poco; il mondo però appena vede uno deciso per quel cammino, esige subito che sia perfetto e scopre lontano mille miglia ogni sua piccola mancanza, che forse può essere virtù. Ma siccome il mondo quella mancanza la giudica vizio, giudica gli altri secondo se stesso e ne pronuncia la condanna. Secondo il mondo quelli che tendono alla perfezione non dovrebbero né mangiare, né dormire e neppure respirare. Più li stima e più dimentica che sono di carne e di ossa e che vivono ancora su questa terra soggetti alle sue miserie. Hanno cominciato a camminare e si pretende che volino”
Certamente anche Madera ebbe i suoi difetti ed ella non li nasconde affatto, anzi li mette in vista insistendo e anche premendo la mano. Dagli appunti, che stilava alla fine degli anni per valutare se quanto promesso all’inizio era stato seguito, si può vedere che erano difetti superficiali o mancanze occasionali, legati al suo carattere volitivo o a situazioni contingenti che si possono presentare a tutti. Ma quale peso potevano avere in un’anima che forse in uno stesso giorno, stretta da dolori fisici e spirituali, aveva lottato per reprimere non una ma cento volte gli impulsi del suo carattere? e sempre – lo leggiamo nei suoi scritti – si pentiva davanti a Dio con il sincero proposito di emendarsi?
All fine dell’anno 1954 scriveva: Questo anno ho avuto delle delusioni, o meglio mi hai fatto vedere che non ho più nessuno nel modo più completo. Tutti si sono staccati da me e io poi non volevo nulla, volevo solo dare, ma anche questo mio desiderio è stato respinto.
E alla fine del 1958 forse per una sofferta aridità spirituale si rivolgeva a Gesù dicendogli: Mi sembra di essere sola senza di te quasi che mi sentissi in cerca di un bene terreno che mi riempia il mio cuore… Ma questo io non lo voglio, o Gesù
E nel 1962, quando si era ammalato il padre, Giovanni, ed era stato ricoverato in ospedale per un intervento, e si erano ammalati anche i suoi nepotini, scriveva: Sono preoccupata per il babbo; ma Gesù ci è stato vicino e sicuramente ci rimarrà ancora e allora ce la farò in tutto. Gesù, ti prego, aiutami e fa’ che non arrivi mai allo sgomento, aiutaci tanto. Fa’ rifiorire i miei nepotini
6 gennaio del 1966 così si esprimeva sulla tristezza.:
Tristezza. Come è instabile l’animo umano! Come è vulnerabile questo cuore! Quando sembra che non ci sia nulla che possa turbarlo, quando crede che, avendolo dato a Dio, le creature non possono farci nulla, basta un pensiero per offuscare la pace interiore. Come è difficile conciliare l’amore del prossimo che pure deve essere grande per raggiungere gli effetti spirituali e rimanere umanamente distaccati nelle dimostrazioni esteriori, nelle parole, nei pensieri, senza lasciarsi sfiorare dall’amor proprio, dal sentimentalismo, dalla ricerca di una dedizione totale ed esclusiva. In tutto questo carosello di sentimenti per ritrovare la serenità e la pace e quindi la gioia bisogna solo rinnovare con ardore le promesse già fatte di essere tutta e solo del Signore.
E il 12 febbraio così scriveva nei suoi appunti:
Come è facile cadere nella tristezza per la mia estrema sensibilità!–E’ stata, questa tristezza, sempre un pericolo che ho combattuto, sapendo a quali tristi conseguenze mi avrebbero portato.sono le cause di questo sentimento, ma alla base di tutto c’è sempre il cuore: il desiderio grande di amore che ha occupato tutti gli anni della mia vita. Esso è stato la gioia, ma anche il mio tormento per non poterlo raggiungere essendo il mio ideale posto nel Signore, combatto una battaglia dura tra lo spirito e il corpo, perché per l’amore che Gli porto vorrei piacergli sempre, invece commetto delle mancanze e allora nasce la tristezza. Vorrei stargli sempre vicino, ma le occupazioni mi distraggono e manco al raccoglimento. Vorrei che nel mio desiderio di affetto ci fosse solo Lui, ma a volte le consolazioni le cerco nelle creature, specie nei giorni in cui sono più giù e allora c’è il pericolo della tristezza, perché in me c’è il desiderio grande del distacco e la volontà di essere fedelissima a Lui solo; ma la tristezza, che trepida alla ricerca di briciole che la creatura mi possa dare, mi intristisce, perché non soddisfa minimamente il mio desiderio, bensì l’acuisce e alloro desidero ardentemente la morte come unico mezzo per soddisfare ciò che il mio cuore ardentemente desidera.giorno verrà, quando potrò lasciare questo corpo, che tanto mi pesa e l’anima mia libera e felice potrà godere senza più ombre di tristezza quest’amore divino in tutta la sua pienezza, senza paura di dispiacergli, di perderlo e persa in Lui goderlonell’eternità .
La tristezza, come abbiamo detto, è generata anche dal turbamento per qualche mancanza commessa; ma tutto ciò che turba – nel 1966- non viene da Dio, perché Dio non richiama l’anima ad una vita migliore agitando lo spirito con ansia e preoccupazioni, scrupoli e inquietudini. Non richiama per una mancanza commessa con la maniera forte e brutale degli uomini, ma il suo richiamo è dolce, quieto, tocca le fibre più profonde del cuore fino a far cadere le lacrime. Assomiglia alla rugiada che rinfresca le aride piante.
Il 6 febbraio del 1971 il terremoto aveva distrutto completamente il Centro Storico e anche Madera come tutti gli abitanti dovette, con la famiglia, abbandonare la sua casa e trasferirsi altrove.la propria casa, le proprie cose, le proprie abitudini, non avere a disposizione quelle comodità, così necessarie ad una persona malata, fu senz’altro un grave colpo per Madera. E anche in quel frangente, così doloroso, non aveva perso il suo buon umore che era capace di vedere nelle più dolorose situazioni il lato umoristico.
“Ho voluto imitare in tutto nostro Signore; mi mancava la fuga in Egitto e adesso posso dire che anch’io sono stata profuga come lo è stato Lui.
pure questa prova tanto dolorosa, aveva segnato nel suo animo i solchi della sofferenza e della tristezza.
Strani sentimenti mi si accavallano, mi avvolgono, come un fumo denso che mi fa brancolare tra un cumulo di tristezze mai conosciute e di risentimenti verso tutto e tutti. Provo una solitudine profonda, che va dal cielo alla terra e, nella successione dei pensieri, dalla terra al cielo. Buio. Vorrei solo Dio, ma ecco la creatura per consolarmi un po’, invece è peggio, poiché il mio cuore, sia pure in questa notte, desidera solo Dio. Che però non trova.
(5 settembre 1971)
Gesù, che anno! Il terremoto ha sconvolto tutto, ma tu mi hai tanto aiutata e benché abbia avuto tante pene, alla fine dell’anno mi trovo che Tu mi sei sempre più caro. Rimani, Gesù, con me e con tutti in questo nuovo anno, se no, ho paura!
(31 dicembre 1971)
il Signore non l’avesse abbandonata e che fosse rimasto vicino al lei si può vedere da alcuni piccoli fatti, apparentemente insignificanti, ma non per lei che era capace di scorgere sempre la presenza del Signore, anche nelle più piccole cose che le accadevano.
giorni prima del terremoto del 6 febbraio del 1971 era tornato dall’Equador, dove si trovava come missionario, Padre Vanio, un Giuseppino, figlioccio di Madera e che Madera aveva aiutato a diventare sacerdote. Il giorno dopo il terremoto, domenica, Padre Vanio, ritornando nel paese distrutto per vedere che cosa era accaduto alla sua casa, aveva trovato la porta della chiesa di san Giuseppe aperta. Era entrato, s’era fatto largo tra i calcinacci, aveva raggiunto l’altare e, notando che nel tabernacolo c’era la pisside con le ostie consacrate, aveva preso la pisside e, non sapendo dove portarla, perché tutte le chiese erano danneggiate e inagibili, l’aveva portata proprio da Madera, profuga in una casa di amici. Madera aveva posto la pisside sopra un tavolo della sua stanza, le aveva acceso accanto un lume e felice d’avere Gesù sacramentato vicino, diceva a tutti che se lei era stata costretta a fuggire dal paese, il Signore le era andato appresso, l’aveva seguita, non l’aveva abbandonata in quel frangente così tanto doloroso..
Ed anche da un altro piccolo fatto Madera aveva voluto vedere come il Signore non l’avesse dimenticata in quel particolare momento.piccolo giardino antistante la casa dove era venuta ad abitare Madera dopo il terremoto, i suoi nipotini avevano raccolto due cardellini caduti dal nido e li avevano portati a Madera e Madera, tanto amante degli animali, li aveva posti in una gabbia che teneva nella sua camera. E subito, lo stesso giorno, la madre dei due cardellini, senza nessun timore e noncurante delle persone che si trovavano nella stanza, venne ad imboccare i piccoli che cinguettavano con il becco spalancato. E questa storia si ripeté ogni giorno per un bel po’ fino a che gli uccelletti furono capaci di volare. Solo allora Madera, con un po’ di tristezza aprì la gabbia e dette loro la libertà. E– diceva – come non vedere da questo piccolo fatto un’allusione ad una realtà ben più grande: come la madre non aveva dimenticato i suoi piccoli e ogni giorno veniva a dar loro il cibo, così anche il Signore, nonostante che siamo sballottati fuori dalla nostra casa, non ci ha abbandonato e non ciabbandonerà mai
Nel 1973, dei problemi economici, che s’erano creati a seguito del terremoto per la sua famiglia, non c’era verso di vedere neppure un barlume di soluzione, e scriveva:
Grazie di tutto, o Signore. Materialmente non è avvenuto nulla di quello che speravo: la casa, Mimmo, il babbo. Grazie, però, o Gesù di tutto il resto; se quello che speravo non è ancora avvenuto avrai avuto le tue buone ragioni. Mi fido solo di te e credo che hai fatto tutto per il mio bene, perché mi ami. Gesù, ho paura di questa tristezza che a volte mi prende; non farci caso, ma ti prego di darmi una mano, perché da sola non ci riesco a non farla vedere.
E col passare degli anni, la salute veniva minata sempre di più e alle malattie con le quali aveva dovuto combattere fin da giovane, si aggiungevano altri mali e altri disturbi. Nel dicembre del 1980 annotava:
Solitudine esterna, quasi angoscia. Il cuore molto fiacco. La quaresima l’ho passata sempre al letto. Mi stanco terribilmente. Dubbi sulla fede. Sofferenze spirituali.
Ma era inevitabile che anche lei provasse come tutte le anime incamminate nel sentiero della perfezione il buio e i dubbi sulla fede come purificazione ultima, prima del trapasso, dubbi su quella fede della quale negli anni precedenti esaltava la sua forza granitica:
La fede: come questa virtù teologale è profonda in me! Dio, nella sua grande bontà me l’ha regalata fin da bambina, in un modo quasi straordinario. Difatti non ho mai dubitato delle verità rivelate. Ho creduto sempre nell’amore di Dio, nella sua misericordia e giustizia con una certezza vissuta. E questa fede, che mi fa tutto sperare e amare, è cresciuta con me ed è la certezza della mia vita e Dio non potrebbe mandarmi una prova più grande se mi offuscasse anche per un attimo questo faro di luce. (gennaio 1966)
Quante volte, negli ultimi mesi di vita, seduta sul letto, appoggiata alla sedia per i dolori atroci del bacino, esclamava: E’ buio, è buio!. é anche lei ha sperimentato quella che tutti i mistici hanno definito la notte dello spirito.
“E’ un continuo deserto di tenebre, di abbattimento, di insensibilità – così scriveva Padre Pio – è la terra natale della morte, la notte dell’abbandono, la caverna della desolazione: qui si trova la povera anima lontana dal suo Dio e sola con se stessa.”
in questo buio sempre più grande si abbandonava con estrema fiducia alla bontà e alla misericordia di Dio e spesso, quando le si chiedeva dello stato della sua salute e della sua vita, rispondeva: Mi trovo perfettamente nella situazione descritta dal salmo 130., non si inorgoglisce il mio cuore non si leva con superbia il mio sguardo;vado in cerca di cose grandialle mie forze.
Io sono tranquilla e serena
come un bimbo svezzato e in braccio a sua madre,
come un bimbo svezzato è l’anima mia.
La formazione
Educazione e formazione
Tante persone, come ho già detto, venivano a farle visita e non visita di cortesia, ma venivano per sentire una parola buona che li confortasse, per avere lume su qualche problema che li assillava, venivano per prendere coraggio per tirare avanti ed avere la forza di sopportare le loro pene e le loro miserie.per tutti aveva una parola buona, una spiegazione convincente sui problemi che riguardavano la fede, una serenità di giudizio per risolvere situazioni dolorose che affliggevano specie le famiglie. E quale era il suo dispiacere quando, dopo aver cercato di convincere, con tutta la carità possibile, qualcuno a non mettersi in certe situazioni, s’accorgeva che quanto aveva detto s’era poi immancabilmente avverato:
Quanto deve essere grande il dispiacere del Signore nel vedere le anime che si perdono, dopo che Egli ha fatto del tutto per richiamarle a sé. Io ho provato il dolore di vedere piangere proprio oggi una persona per una situazione in cui l’avevo esortata, nel modo più valido, a non mettersi; ora dovrà starci per tutta la vita! Rispettare la volontà umana è l’atto più generoso che poteva fare Dio alla creatura, tutta superbia, che non sa o che non vuole riconoscere la volontà di Dio; sopraffatta dalla sua stessa superbia ne paga poi le tristi conseguenze.

Seminare, seminare, seminare sempre: bisogna educare la gente a camminare sulla strada giusta; se da giovane devierà a destra o a sinistra, poi nella maturità tornerà nella diritta strada che gli avevano insegnato a battere e continuerà così fino alla fine.
le persone poi che le erano più vicine instaurava un rapporto spirituale più stretto: ad ogni inizio di anno stabiliva con ciascuno una specie di programma che poi insieme verificava alla fine di ogni mese e assegnava un punteggio per valutare lo sforzo fatto e i risultati raggiunti.guidava l’anima con delicatezza, seguendo passo passo il suo cammino, senza forzature seguendo il consiglio di Santa Teresa d’Avila: E’ sempre assai utile non trascinare l’anima a viva forza, ma guidarla a poco a poco con soavità.
Quale poteva essere, ci domandiamo, il suo metodo pedagogico? Si lasciava guidare dall’innato istinto, affinato da una ricca umanità e da una solida spiritualità.
Qualche volta, però, doveva fare forza su se stessa e richiamare, quando c’era la necessità, con un certo vigore.
Spesse volte debbo tenere duro, essere rude con i miei fiotti; faccio tanta fatica, perché desidererei parlare sempre con dolcezza delle cose di Dio del suo amore e invece per raddrizzare, per modellare ogni tanto debbo prendere lo scalpello, richiamandoli a dei sacrifici che, se potessi, farei a meno di imporli. Debbo sforzarmi, per non essere trascinata per l’affetto e la comprensione che porto loro a far loro acquistare una pietà poco virile e una perfezione mediocre. Certo che con me stessa sono più rude: è raro che scenda ad un compromesso per scusarmi; comunque chiedo a Dio con san Paolo “fa’ che dopo di aver corretto gli altri, io non diventi reprobo”.

E il 18 febbraio:
Cercava di portare gli altri ad un livello alto di perfezione. Attenta però a non venire esigente, poiché ci potrebbe entrare un po’ del mio amor proprio, un attaccamento troppo eccessivo che non si sa mai quanto sia spirituale e quanto umano. Ricordarmi soprattutto che solo se sarò buona, se scomparirà questa Madera per lasciar posto a Gesù, potrò fare del bene, altrimenti, nulla, nulla, anzi… mi sciupo un po’ io, perché divento triste, esclusivista, sciocca, ecc.scendere se non per un puro atto di carità e rettificando nel momento stesso l’entusiasmo di agire “come agirebbe il Signore?”
Diceva spesso che lei doveva essere come un canale attraverso il quale Dio si rivelava alle anime che l’avvicinavano, ma per far sì che Dio si rivelasse era necessario che la parola di Dio scorresse limpida attraverso il canale e più il canale era sgombro e pulito, più Dio si rivelava nella sua interezza.
Nulla, sono nulla senza il mio Dio: sono perduta come un pesce fuor dell’acqua, come una stanza senza ossigeno. Ho la certezza di questo, quando per alcuni giorni non ricevo la Santa Comunione, allora l’ortolana, (perché questo è il mio lavoro), non ha più acqua in abbondanza da far passare nel solco per darlo alle anime. Poiché sento con certezza che ciò che dico non è mio, ma della fonte inesauribile, o meglio, della sorgente infinita che è Dio; la mia premura sta solo nel pulire il solco, affinché quest’acqua arrivi più pura e più abbondante possibile ai miei fratelli. Difatti io nel dire non mi preparo mai, spesso capisco cose che non sono di mia competenza, dimentico come per incanto qualunque cosa scabrosa sentita e il Signore mi dà sempre la grazia del momento
(5 febbraio 1966)
Dimentico come per incanto qualunque cosa scabrosa…
Quanti segreti infatti la gente deponeva nella sua anima!
Il 10 gennaio annotava:
Quanti segreti! Come, con il passare degli anni, questi si accumulano fino ad essere qualcosa di veramente duro a sopportare! Cose tristi, spaventose nel rapporto spirituale e tacere; tacere sempre per anni con tutti, tacere anche con la mente per non giudicare, per non sentire quel distacco che è deleterio per la carità. Sopportare le ostentazioni sulle varie virtù delle persone stesse alle quali mancano e credono di farsi belli non sapendo che si sa la verità. Come è duro sopportare questo, specialmente verso coloro, l’ipocrisia dei quali è insopportabile.
Lo scopo di tutta la sua vita era – l’abbiamo detto – far conoscere a coloro che venivano a trovarla e ad aprirsi con lei che Dio è solo Amore. E con quanta forza cercava di togliere dall’anima la figura di un Dio geloso delle cose create e tutto teso a punire e a condannare. Perché Dio – questo era il suo pensiero – non vuole essere amato da parte nostra con un atteggiamento di ostilità verso il creato, ma vuole essere glorificato proprio attraverso il creato. Perché un Dio che condanna il creato ed è geloso delle sue opere non è un Dio, ma un idolo, uno dei tanti idoli ai quali gli uomini nel corso dei secoli si sono sottomessi in modo ridicolo. giorno una persona le aveva regalato un libro e nella prima pagina aveva scritto: “A Madera che mi ha insegnato una sola cosa: Dio è amore.”lei commentava: Anche se il risultato di tutta la mia vita fosse stato di aver fatto capire ad una sola persona questo concetto, sarei completamente soddisfatta.
l’8 febbraio del 1970 scriveva:
Amore. Tutto in Dio è amore. Gli antichi patriarchi sono espressione del suo amore; la creazione, della sua bellezza; la venuta di Gesù per avvicinare il suo amore agli uomini. Che cosa fa riconoscere quindi il cristiano non è la cultura, non la ricchezza, non la salute, ma l’amore che si esprime in ogni rapporto umano, gioendo con chi gioisce, soffrendo con chi soffre, perdonando, scusando tutto sull’esempio di Gesù che aiutò tutti nel corpo e nello spirito. Allora il messaggio cristiano sarà valido.
Devo far conoscere l’amore di Dio alle anime attraverso me.’umanità ha bisogno soprattutto di amore, quello vero, quello disinteressato, quella scintilla divina, cioè, che scaturisce dall’Amore stesso di Dio e che noi, umanità aggiunta, dobbiamo far rivivere come testimonianza fedele per far comprendere il cristianesimo. Dobbiamo uniformarci a Gesù, modello unico, che ogni anima, che desidera la perfezione, deve studiare ed imitare. La sua vita è stata solo amore: nell’adesione perfetta alla volontà di Dio, nella sofferenza fisica a vantaggio di noi, nella predicazione che rispecchia il suo grande amore per l’umanità. Ecco perciò che nella mia vita c’è modo di far rivivere questo modello: nella serenità di accettare tutto, nella gioia del dolore, nel farLo conoscere attraverso la parola e soprattutto amando, come Lui e per Lui.
Così scriveva il 1 febbraio del 1966.
E il 3 febbraio:’aiuto spirituale che Dio mi concede di dare a certe anime, il mio maggiore desiderio, dopo l’eliminazione del peccato, è quello di spingerli alla confidenza e alla certezza dell’amore di Dio. Si è dato varie volte il caso che, dietro le mie preghiere, tante anime hanno toccato con mano l’immensa bontà di Dio nei loro confronti. Bontà che si dimostrava nell’accontentarli in ciò che onestamente desideravano. Ora scrivo qui per ricordarmi di insegnare loro soprattutto a fare la volontà di Dio, più che a porgere a Lui i nostri piani, affinché li attui; chiediamo che i suoi piani siano attuati in pieno in noi, perché solo così siamo certi di non sbagliare. Certi del suo Amore per noi, dobbiamo abbandonarci perciò con estrema fiducia al suo volere. Io so per esperienza personale quanto sia sbagliato fare a Dio la parte nelle mani, perché Lui mi ha sempre esaudito, quando io, piena di fiducia e di generoso amore, però anche di una forte dose del mio volere, ho chiesto che una tal cosa si svolgesse secondo i miei desideri, cose che hanno avuto ripercussione su tutta la mia vita; oggi debbo dire che era meglio se avessi lasciato a Lui carta bianca in tutto. L’unica fortuna mia è stata che in ogni cosa mi ha sempre guidato l’amore per Lui, per cui poco ho sbagliato e Gesù stesso poi ha preso l’iniziativa, quando i miei desideri, per poca intelligenza e inesperienza, prendevano una piega sbagliata e mi ha fermato con estrema dolcezza fino a farmi cambiare idea, uniformandomi alla sua, senza che me ne accorgessi. Oggi so che posso fidarmi in tutto senza ombra di dubbio. Perciò aiutare le anime in questo abbandono.
Madera ricorda che sei solo uno strumento nelle mani di Dio,- scriveva il 15 gennaio del 1966 – devi portare le anime a Lui, non ti devi appropriare di nulla del loro amore, ma farlo tutto convergere in Lui, e quando ti accorgi che la loro bontà diventa troppo legata e subordinata a te, cerca di ridimensionare tutto, mettendoti da parte, diventando più austera nelle parole e in tutte le altre espressioni e cerca di insegnare le verità divine, parlando di Lui. Sta’ attenta. Non ti credere qualcuno e non scavalcare Dio, né nel pensiero, né nel desiderio di primeggiare nel loro cuore. Sei nulla e come tale non ti appartiene nulla se non i desideri umani, dei quali da tempo hai fatto volontaria rinuncia, perciò tu sei di Dio e in Lui sei perduta per sempre.
E il giorno successivo: luce. Essere luce che rischiara il cammino in questo caos di sentimenti, di passioni, di tristezze. Divenire cristallo purissimo, affinché la luce che è dentro di me risplenda in tutta la sua bellezza. Sparire il più possibile, poiché ogni più piccola impurità può offuscare il cristallo, ogni ricerca di me si frappone tra la luce e l’involucro, ogni attimo di tristezza è simile a ciò che succede ai vetri di una finestra d’inverno: pur essendo una fiamma nella stanza che brilla e riscalda, il gelo che è fuori li appanna allora la luce esce fioca e non ha più il potere di guidare, di riscaldare di far felici le anime. Sforzo continuo alla perfezione perciò, se voglio che quella luce, la luce di Dio rischiari il mondo.
Vivere Cristo è uniformarsi il più possibile a Lui. Morire il più possibile per far rivivere Lui. Sono anni che questo pensiero domina la mia vita spirituale. Vorrei che le anime, avvicinandomi, dimenticassero me e vedessero Lui. Vorrei che ogni mia azione fosse improntata alla sua dolcezza, misericordia, generosità con quella retta intenzione, anche nelle cose più umili ed umane. Avere la sua stessa purezza, la sua carità, il suo distacco, la sua pazienza. Quanto sono lontana da questo modello! Vergine santa, aiutami tu che puoi e sai come egli era, altrimenti chissà quando verrò su.
Consacrazione
il Signore aveva deciso altrimenti, tanto è vero che quando compì i diciotto anni, età da lei stabilita per fare il grande passo, si ammalò e così vide sfumare il suo più grande desiderio. Però sappiamo che la sua stanza divenne una cella e quando, sola, dopo il terremoto, andò ad abitare la sua vecchia casa ristrutturata, a chi veniva a trovarla diceva, scherzando, che quella era il suo monastero.
‘età di diciassette anni, dopo aver fatto gli esercizi nell’ottobre del 1941, predicati da don Vincenzo Bonaventura Medori, nel convento delle Clarisse, annota alla data del 19 novembre:
“ Mi hanno detto che potevo fare la consacrazione a Gesù il giorno della festa di Cristo Re e l’ho compiuta dopo aver fatto la santa comunione.
Io, Madera, dono e consacro al Sacratissimo Cuore di nostro Signore Gesù Cristo la mia persona, la mia vita, le mie intenzioni, i miei dolori e le mie pene per dedicarmi in avvenire alla sua adorazione e glorificazione. Risolvo in modo fermo e irrevocabile di appartenere a Lui solo, interamente, di non agire che per suo amore e di rinunciare risolutamente a tutto ciò che potrebbe in qualche maniera disgustare questo Cuore divino.
Perciò, o Cuore santissimo del mio Gesù, ti eleggo l’unico oggetto del mio amore, il protettore della mia vita, la salvaguardia della mia salute, come il sostegno della mia debolezza e il riparatore di tutte le mancanze della mia vita. O Cuore sacratissimo, ricco di indulgenza e di bontà, sii anche il mio rifugio nell’ora della mia morte; la mia giustificazione dinanzi a Dio Padre e storna da me il castigo della sua giusta indignazione. O Cuore amoroso, in Te pongo tutta la mia fiducia. Temo tutto dalla mia malizia, ma anche spero tutto dalla tua bontà. Distruggi dunque in me tutto ciò che potrebbe spiacerti o resisterti. Possa il tuo puro amore imprimersi così profondamente nel mio povero cuore che io non possa dimenticarti giammai, né da Te separarmi. Cuore divino, Ti scongiuro in nome dell’infinita tua bontà fa’ che il mio cuore sia nel tuo cuore profondamente scolpito, perché è nel tuo santo servizio che voglio vivere ed in te Morire. Così sia.
( E in calce a questa preghiera abbiamo trovato scritto a matita: quaranta anni che dico tutti i giorni questa preghiera)
Nel giugno del 1946 ebbe dal Padre Spirituale il permesso di fare il voto di castità fino al Santo Natale. Voto che poi rinnoverà ogni anno a Natale. E così scriveva nel giorno della festa del Sacro Cuore:
Voto di castità fino al Santo Natale. Obbliga il voto la purezza di tutti i sensi. Quello che non è peccato non lo è nemmeno qui. Se si pecca, è sacrilegio.
Oggi 28 giugno, festa del Sacro Cuore di Gesù. Formula per il voto di castità. (Rinnovato l’8/6/1956)
Cuore SS. Di Gesù, Tu prediligi le anime giovanili e alla domanda: “Buon Maestro, che farò per acquistare la vita eterna?” Rispondevi: “ Tu conosci i miei comandamenti. Osservali!” Anch’io sono il giovane del vangelo; per tua bontà ho potuto rispondere: “Dalla mia giovinezza ho osservato tutto questo, che cosa mi manca ancora? Perché se anche qualche nube avesse offuscato il mio amato, nella tua misericordiosa compassione hai perdonato le mie colpe e con la tua grazia sono riuscita ad osservare i tuoi comandamenti.
Da tempo mi sembra che dall’altare mi guardi con il medesimo sguardo di compiacenza con cui osservavi il giovane del vangelo e mi ripeta: Ti manca una cosa. Finora hai osservato i miei precetti, ora segui i miei consigli.” Ho riflettuto con ponderata prudenza a questo tuo delicato invito ed ora col permesso del mio confessore sono lieta di fare con santo trasporto di gioia al cospetto della Triade sacrosanta, di Maria SS., di San Giuseppe, santa Gemma e santa Teresa e di tutti i santi del cielo il voto di castità per sei mesi fino al Santo Natale (Nel 1956 scriverà: per tutta la vita).Degnati, o Gesù, di accettare questa umile offerta come un atto di adorazione alla tua suprema Maestà, di ringraziamento per tutte le grazie ricevute e in particolare per avermi fatto comprendere ciò che non a tutti è concesso capire: riparare le gravi colpe che si commettono contro la purezza specialmente dalle giovani e pregare che mi ottenga gli aiuti necessari per essere angelicamente pura nei pensieri, negli affetti nele farmi apostola di questa bella virtù in mezzo alla gente.
Il giorno 8 dicembre del 1949, nel giorno della Immacolata Concezione offriva la sua vita a Gesù per mezzo della Madonna.
Ho offerto a Gesù la mia vita per mezzo della Madonna.
O Madre Immacolata oggi ti faccio l’offerta della mia vita affinché Tu la dia Gesù. Ti prego, però, di prepararmi in modo degno nel continuo atto di amore in modo che dopo i meriti di Gesù e i tuoi questa mia offerta valga a far trionfare il regno di Gesù mediante l’Anno Santo e santifichi tutti i sacerdoti. Madre mia fiducia mia. Rinnovo l’offerta della verginità e del cuore e ti prometto di stare unita quasi ininterrottamente con Gesù. Aiutami tanto a fare presto.
L’11 febbraio del 1954, anno Mariano, nella festa della Madonna di Lourdes faceva il voto di obbedienza che rinnoverà il primo gennaio dell’anno successivo:
1 gennaio – Rinnovo il voto di verginità e di obbedienza per un anno
E nel Lunedì di Pasqua del 1956 annota:
Don Leopardo(il suo padre spirituale) ha dato il permesso di fare il voto di verginità per tutta la vita
E l’8 giugno:
Oggi, 8 giugno, festa del Sacro Cuore, ho fatto il voto di verginità per tutta la vita. Che gioia! Ora sì che mi sembra di essere tutta di Gesù; sento che questo voto ha rinsaldato il mio amore e che una nuova fase di vita spirituale si apre. Non vorrei tradirlo nemmeno nelle piccole cose, vorrei consolarlo, vorrei amarlo come nessuno lo ha amato.
La Madonna, che mi ha presentato a Gesù, mi aiuterà a farlo contento. Sono la sua piccola sposa, mi ci sento e ormai non mi debbo preoccupare più di nulla; penserà a tutto Lui. Io debbo solo amare.
Il 20 gennaio del 1966: è bello essere consacrata a Dio. Sentirsi cosa sua, avere la certezza del suo amore, della sua Provvidenza, della sua presenza come cosa che gli appartiene e che gelosamente protegge. Quante volte ho potuto sperimentare e toccare con mano questo fatto. Come ha saputo difendermi, prima da me stessa, poi da quelli che, sia pure con buone intenzioni, cercavano di prendermi, di distogliermi da questa unione intima e profonda, da questo distacco totale dalla creatura, che trova ragione di amore solo dopo di averlo fatto passare in Lui. Dio è veramente un Dio geloso – come dice la Sacra Scrittura – Se così non fosse, povera piccola creatura chiamata ad altezze così grandi e legata dai lacci umani che la trattengono alla terra; prima di conoscere a fondo l’amore di Dio, si troverebbe perduta nei suoi stessi simili. Per questo solo la gelosia di Dio circuisce l’anima fino ad isolarla anche materialmente, fino a non farla avvicinare con interventi piccoli, ma straordinari. Difatti in un periodo della mia vita avevo la mistica sensazione di stare in un castello e lì ero la regina: Dio era con me, ma nessuno poteva entrare dal di fuori se Lui non abbassava il ponte levatoio: ho veduto l’impotenza quasi straordinaria che li tratteneva, benché lo desiderassero tanto di venirmi a trovare. Questa è stata la mia salvezza: solo questa premura mi ha fatto rimanere solo sua. Veramente ciò che c’è in me di bello Dio l’ha fatto, l’ha fatto Lui, come un artista che può veramente compiacersi di ciò che ha tratto dal mezzo. Io do a Lui quello che Lui prima ha dato a me. Quindi consacrarsi a Dio non è dare, quanto ricevere; non è rinuncia, ma partecipazione al suo infinito amore; è rinunciare a tutti per ricevere tutto, centuplicato.
E a proposito della verginità annotava il 6 febbraio del 1966:
Beati i puri di cuore perché vedranno Dio.la conoscenza intima del Signore, per godere del suo amore è necessaria una purezza grande, quasi eroica che elimini ogni pensiero, ogni desiderio, che mortifichi, per quanto è possibile, i nostri istinti, poiché avvicinarci a questa purezza irraggiungibile, a questo Essere Supremo, del quale ogni umana comprensione di perfezione dà solo una pallida idea, è cosa estremamente ardua; la creatura deve per necessità superarsi, divinizzarsi, liberarsi dalla carne, che è l’ostacolo maggiore, poiché adattarsi ad essa (carne) è compromettere tutte le altre virtù, perché l’impurità è superbia, è egoismo, è perdita di fede, è annebbiamento della mente e fa perdere anche il contatto intellettivo con Dio; sbarra perciò la via alla perfezione, avviando l’anima alla rovina
L’anima che s’è votata a Dio, che ha fatto un voto deve rimanere fedele agli impegni presi. E il 15 febbraio 1966 ribadiva il concetto della fedeltà.
Bisogna essere fedeli a tutto ciò che si è promesso e soprattutto alle piccole cose.
Io spesso ho modo di dire: “sono fedele per natura e per grazia”. Sempre infatti ho cercato di non mancare di parola con il Signore. Certo, però, che se ciò fosse stato rispettato in tutta la sua integrità a quest’ora sarei perfetta; però mi sforzo, perché mi piace tanto essere fedele in tutto: dalle pratiche di pietà, seppure fatte male, ai propositi, fatti nelle varie circostanze; alla linea di condotta che mi sono proposta. E tutto questo si estende anche nei rapporti con il prossimo: per quanto posso mantengo e rimango fedele agli impegni presi e all’affetto che gli porto.
Vangelo
Mi sono ispirata solo e unicamente al vangelo.
Così affermava nel suo testamento. E il 12 gennaio del 1966 scriveva:
Il Vangelo: pagine sante dove attingo tutta la cultura spirituale che mi serve. Non mi stanco mai di leggerlo, trovo sempre cose nuove, penetro a fondo lo spirito di Gesù. Ho la risposta a tutti i miei dubbi, alle mie aspirazioni, so come comportarmi in ogni circostanza, poiché se la mia unica aspirazione è vivere il più conformemente possibile alla vita di Gesù, dove altro potrei trovare se non nel Vangelo la risposta a come agiva e pensava Lui?
E che il vangelo fosse il libro che lei sempre leggeva e meditava e sul quale esemplava la propria vita lo capivamo quando, nel corso dei nostri colloqui, le chiedevamo consiglio sul da farsi in certi casi, e allora ci domandava come per prepararci alla risposta: la compirebbe questa azione Gesù?le sue risposte erano veramente illuminate, aderenti ad un ideale di giustizia e di carità veramente evangelico. E soprattutto sulla giustizia non transigeva, perché – diceva – la giustizia di un seguace di Cristo deve essere più alta della giustizia dei farisei.
Durante il tempo di quaresima ogni giorno leggevamo un brano di un vangelo, e dalle osservazioni personalissime e vive, che lei faceva sui vari episodi e che erano senz’altro il frutto di una lunga meditazione, maturata sulla propria esperienza, capivamo che proprio sul vangelo ispirava tutta la sua vita.
“Perché i fatti del vangelo – come diceva santa Teresa del B.G . – non sono stati scritti per essere raccontati, ma rivissuti. Dobbiamo entrare dentro la pagina del Vangelo e divenire attori, parte in causa, perché il Vangelo è un libro vivo, non un libro morto”. malattia del nostro tempo, che ci colpisce più da vicino, è l’ansia, la paura; quell”umanissimo sentimento, cioè, che è il segno più chiaro del nostro limite. Abbiamo paura: paura del domani; paura della salute che declina; paura della vecchiaia; paura della notte; paura della morte e viviamo sempre col batticuore.’ vero che un male potrà avvenire, ma non è assolutamente certo che avvenga; e quante cose sono avvenute che non erano aspettate, e quante aspettate non sono avvenute mai!però sono considerazioni umane e dovrebbero darci tranquillità e sicurezza, ma non è così e noi abbiamo sempre paura, paura del domani, di quello che ci potrà accadere.

Tutti, chi più chi meno, abbiamo paura- Ci diceva – di non essere capiti, paura di non farcela a sopportare il male, paura di rimanere soli…Il futuro infatti molto spesso ci si presenta minaccioso e abbiamo paura di non farcela ad andare avanti; spesso la tristezza ci prende per tante situazioni apparentemente dolorose, che sembra non abbiano vie d’uscita. Ma sono paure e preoccupazioni che poi alla prova dei fatti si rivelano inconsistenti, ma che pure hanno messo nel nostro cuore tanto sgomento, tanta paura.
Ed ecco Gesù che cammina sulle acque e agli apostoli impauriti sembra un fantasma. Come le nostre preoccupazioni: non sono altro che fantasmi. Fantasmi che camminano sulle acque e che solo quando siamo capaci di rivolgerci a Dio svaniscono nella luce del mattino. E al posto di quei fantasmi appare il Signore, che calma il vento e infonde nei nostri cuori la pace e la sicurezza.questa sicurezza- diceva – dobbiamo dimostrare anche agli altri.
Perché “quando ci troviamo in mezzo a persone scosse da un’angoscia mortale, paralizzate dalla fosca incertezza del futuro, allora dobbiamo irradiare intorno a noi la pace di Dio, che è superiore ad ogni follia del mondo”.
Ecco, immaginatevi di essere con altre persone, che non hanno la stessa nostra fede, su una stessa barca, la nostra vita; il mare è in tempesta, davanti a noi c’è il porto, già lo vediamo e stiamo remando per poterlo raggiungere. Gli altri si affannano, urlano, gridano presi dalla paura; noi dobbiamo remare, tranquilli, dobbiamo far vedere agli altri la nostra sicurezza, la nostra fede, perché siamo sicuri che a quel porto ci arriveremo e non affonderemo mai nei marosi.
La parabola del Figliol Prodigo poi era per lei una specie di cartina di tornasole per valutare il cammino fatto nell’amore.
Chi si sente solidale con il fratello rimasto a casa, quello- diceva – è uno che ancora non ha capito l’amore e soprattutto l’amore di Dio.
Perché il fratello, che era rimasto a casa, era il fratello che non sapeva amare. Certamente era un uomo integro, aveva sempre ubbidito al padre, era un uomo serio, un uomo d’onore. Ma quando il fratello finalmente ritornò a casa e il padre se lo strinse al petto, lui rimase freddo, mentre la gelosia gli rodeva il cuore. Quel fratello degenere, che se ne era andato da casa e aveva sperperato tutta la sua eredità, l’aveva visto come un uomo fallito, con disprezzo. Lui non aveva mai conosciuto naufragi morali, né le tentazioni che avevano squassato il cuore selvaggio e inquieto del fratello. Era vissuto sempre negli agi comodi di una vita borghese. E siccome non amava, gli era mancata la capacità di immaginare che uno potesse finire in prigione per un qualche delitto. Per questo nella sua opaca moralità non aveva un cuore che batteva all’unisono con quello del padre. E così in effetti è proprio lui che emigra verso regioni lontane, dalle quali non c’è possibilità di ritorno, perché chi non sa amare non trova mai la strada di casa.
E si serviva della parabola del Figliol Prodigo per confortare, ma anche per genitori che avevano problemi nell’educazione dei figli.
Perché i figli- diceva – sono fatti per i genitori e devono affrontare la vita a modo loro. E se anche, purtroppo, qualche volta l’affrontano in modo sbagliato, devono andare per la loro strada. E i genitori di quei figli che se ne vanno da casa o prendono una strada sbagliata, non si devono identificare nel padre del Figliol Prodigo, che scruta ogni giorno l’orizzonte per vedere se spunti il figlio che se ne è andato e possa riabbracciarlo e fare festa. La parabola presenta una situazione diversa: nella parabola Gesù mette in evidenza l’atteggiamento misericordioso del padre che è sempre pronto a perdonare e fare festa, ma non condanna il figlio, libero di scegliersi un futuro.
Era il pensiero di Gibran: “I vostri figli non sono figli vostri. Essi sono figli e figlie della vita. E benché essi siano con voi essi non vi appartengano.”
E il preoccuparsi troppo dei figli – ripeteva un pensiero di San Cipriano – soprattutto nell’accumulare per loro denaro, non fa parte della cultura cristiana. I genitori si devono preoccupare della vita dei figli, della loro educazione, ma i beni materiali i figli se li devono acquistare da soli con pazienza, con ostinazione, con orgoglio.
E quando i figli – diceva ancora – si sono allontanati da Dio e non si può più parlare a loro di Dio e della religione, bisogna invertire la rotta e parlare a Dio dei figli.
Originale e viva era poi la spiegazione della parabola dei lavoratori a giornata, che un padrone chiama a lavorare nel suo campo nelle varie ore del giorno.
Non si fermava all’aspetto “sindacale”, discutibile, ma andava oltre e capiva benissimo le ragioni dello strano comportamento del padrone.
I lavoratori dell’ultima ora dovevano avere la stessa paga di quelli della prima ora, perché dovevano essere “risarciti” dell’umiliazione di essere rimasti senza lavoro per tutta la giornata: nessuno li aveva chiamati, nessuno aveva dato loro la consapevolezza di essere utili a qualche cosa; per tutto il giorno avevano sofferto il senso di impotenza, di inoperosità che può provare chi, in cerca di un lavoro, rimane inerte con la nera prospettiva di non poter mantenere la propria famiglia. Gli altri, certo, avevano faticato sotto il sole, ma avevano avuto la sicurezza di un lavoro, e la certezza che a sera avrebbero avuto il loro salario, la loro mercede.
Così nel campo morale. Noi fin da piccoli abbiamo conosciuto Dio, e da questa conoscenza abbiano avuto le risposte a tutte le nostre ansie, ai nostri problemi, siamo vissuti all’ombra della sua Provvidenza, il domani non ci ha mai fatto paura, perché nelle mani di Dio; ma gli altri che per tutta la vita sono vissuti senza la consolante presenza di Dio, che hanno tremato di fronte alla malattia, alla solitudine, all’angoscia devono avere alla fine della vita, quando finalmente conosceranno Dio, la nostra stessa “paga”.
E come era presente il vangelo nella sua intierezza durante la Settimana Santa!
Così scriveva nel 1966
4 aprile– Lunedì Santo
Gesù andò di nuovo a Gerusalemme e parlò al tempio, dando le ultime istruzioni alla folla, poi la sera ritornò a Betania.
5 aprile- Martedì Santo
Come ieri, anche oggi Gesù ha parlato nel tempio; ha visto il fermento che suscitava la sua persona, poiché era ormai decisa la sua morte e non sarà perciò mancata qualche cattiveria da parte dei facinorosi di allora (di sempre). La sera ritornò a Betania.
6 aprile- Mercoledì santo
Gesù non si è mosso da Betania, è voluto rimanere in questo ultimo giorno prima della sua passione, con i suoi amici e certamente con la sua Madre. Quante cose avrà detto! Come avrà cercato di preparare gli apostoli per i giorni dolorosi che dovevano venire! Certamente chi più l’amava avrà capito che Gesù stava per passare qualcosa di molto grave; lo si vedeva guardandolo negli occhi, ma lui per non rattristarli, vedendo la gioia che provavano i suoi cari ad averlo tutto per loro, non parlava chiaro; tutta la sofferenza la teneva per sé, come aveva sempre fatto.
7 aprile- Giovedì Santo
E’ l’alba, Gesù incarica i tre di andare a Gerusalemme per preparare la Pasqua. Lui rimane fino a sera con i suoi amici a Betania. Il suo cuore desiderava presto potersi donare nel sacrificio supremo e la sua umanità sentiva tutto il peso di questo sacrificio. Si avvia piedi sul far della prima sera verso Gerusalemme; sono con Lui gli apostoli che non capiscono nulla (o molto poco) di ciò che passa nel suo cuore, altrimenti non avrebbero bisticciato per i posti a tavola più tardi. L’addio è tra i più mesti, tra i più belli, tra i più perfetti, poiché non manca la tristezza umana, la speranza di ritrovarsi, la perfezione nell’Amore grande con l’istituzione della eucarestia. Nella preghiera finale c’è tutto e per loro e per noi. Poi la vera e propria passione, la tristezza della solitudine, la visione cruenta della sofferenza, l’ingratitudine umana di allora e di sempre, il tradimento, il rinnegamento fino a giungere a sentire questo dolore morale così forte da non dargli la morte, perché il cuore anziché scoppiare travasa facendo uscire dai pori il sangue.
8 aprile- Venerdì Santo
Notte e mattino pieni di sofferenze: lo schiaffo del servo di Anna; il rinnegamento di Pietro nell’atrio; i dileggi della soldataglia; le bestemmie; gli insulti; gli interrogatori di tre tribunali; la cattiveria del popolo; l’infamia dei capi del Sinedrio; la cruenta flagellazione, supplizio tremendo, anche perché la mansuetudine di Gesù eccitava ancora di più i carnefici; la coronazione di spine e infine la condanna e il popolo che preferisce Barabba; il tragitto; la crocifissione, dolore tremendo; l’agonia spasmodica fra indicibili sofferenze; il peso del corpo che allargava sempre di più i fori dei chiodi; i crampi tremendi che facevano sussultare le piaghe di tutto il corpo; l’affanno per la difficoltà della respirazione; la febbre altissima; la sete ardente; l’immobilità…tutto questo per tre lunghe ore, poi la morte.
9 aprile- Sabato santo
Silenzio di attesa. Ricordo dei dolori di Gesù in unione con Maria SS. Solitudine per la mancanza di Gesù, ma certezza e speranza della sua vittoria sul dolore e sulla morte.
10 aprile- Pasqua di Resurrezione
Gioa radiosa per la vittoria su tutto: sulla morte, sul dolore, su tutta questa umanità che crede di distruggere Dio, perché riesce a farlo soffrire nella sua umanità, ieri in Gesù, oggi nei martiri. Certezza della nostra resurrezione. Anche se per noi la passione, più o meno dolorosa, durerà tutta la vita. Ritrovamento di Gesù, del suo amore e grande dolcezza di sentircelo sempre vicino.
(aprile 1966)
Convivialità
“Ho incontrato un’ammalata? Se l’uomo è solo principalmente corpo, dirò di sì; se è principalmente spirito, dirò che ne vorrei incontrare tanti, tutto il mondo in tale stato.”
Don Alfredo Vitiello
Così scriveva nell’agenda di Madera, nel settembre del 1975, un sacerdote che, insieme ad una famiglia di Nettuno, era venuto a farle visita.
Era bastato un breve incontro a questo sacerdote per capire quale era la nota dominante del carattere di Madera: vivere, sempre, anche nella sofferenza, la letizia francescana. Quella letizia che è capace di possedere la grazia dello stupore; di trasalire di fronte alle piccole gioie che si incontrano nella giornata, e la forza di ravvivare lo spirito con le piccole cose di sempre.
E nella realtà era proprio così.
Anche quando era costretta a rimanere immobile nella poltrona, con i piedi ingessati o racchiusi nelle docce, aveva sempre qualcosa di creativo da fare: dipingeva, intagliava, costruiva oggetti con una inventiva particolare. E proprio questo non mollare mai davanti alla malattia e al dolore, questo non ripiegarsi su se stessa e partecipare agli altri questo suo amore alla vita era l’esempio più chiaro della sua convivialità.
Aveva – l’abbiamo già detto – un carattere molto espansivo e quasi sentiva la necessità di avere tanti amici attorno a sé, e non passava festa in cui non ci radunassimo per poter stare insieme, piccoli e grandi, per assaporare una convivialità serena attorno alla sua forza aggregante.
Perché il giorno di festa era per lei quello che la festa veramente è: un’esperienza comune di gioia, un canto d’azione di grazie. Perché lo stare insieme, e soprattutto il mangiare insieme, ha la capacità di ridonare la speranza del tempo e la forza per vivere le sofferenze e le difficoltà della vita quotidiana.
Non so chi l’abbia detto, ma credo che sia vero: se Giuda fosse rimasto fino alla fine della cena forse non avrebbe tramato il tradimento.
Anche se malata, aveva il gusto della vita, dono di Dio, perché sapeva assaporare e valorizzare – come ho già detto – soprattutto le piccole cose.
Perché in effetti la vita, quando manca la speranza e la meraviglia per il domani, è una vita piatta che va verso un epilogo che non arriva mai “come un nastro magnetico che ha finito una canzone e si srotola senza dire più nulla verso il suo ultimo stacco”.
Se gli anni scorrevano, uno uguale all’altro, e lei, malata e inchiodata nella poltrona, era costretta a rimanere chiusa in casa, questi anni però si ravvivavano per lei con le feste liturgiche, che segnavano delle tappe attraverso le quali gioia e dolore, serenità e tristezza si alternavano in una perfetta simbiosi.
Quando cominciava l’Avvento costruiva un candeliere a quattro bracci sui quali poneva quattro candele rosse che accendeva, una dopo l’altra, quando il sacerdote le portava la comunione nelle quattro domeniche che la separavano dal Natale.
E con quanta cura addobbava la stanza nella festa della Immacolata, dopo aver messo, nel posto d’onore della sua camera la statua della Madonnina che per tutto l’anno teneva nello studio.
In verità la sua stanza sempre era tappezzata di immagini sacre; e a chi le faceva notare l’eccessivo numero di quadri raffiguranti il Signore o la Madonna rispondeva che “gli innamorati – come diceva San Francesco di Sales – hanno sempre i pensieri rivolti verso l’amata o l’amato; hanno il cuore riboccante di affetto per lui o per lei, non perdono occasione di manifestare il loro amore e incidono sopra la corteccia di ogni albero il nome della persona amata. Del pari coloro che amano Dio non possono tralasciare di pensare a Lui, di parlare di Lui e, se fosse possibile, vorrebbero scolpire sul petto di tutte le persone il santo nome di Gesù”.
Perciò quelle immagini le voleva lì, accanto a lei, anche se numerose, come immagini di persone tanto care.
E non solo di immagini sacre la sua stanza era tappezzata, ma anche di una infinità di regali, di gingilli, di ninnoli, anche preziosi, che le erano stati regalati dalle persone care nelle varie ricorrenze o, come presenti, dalle persone che erano venute a farle visita. E di tutti questi oggetti aveva una cura scrupolosa: li esponeva sui vari mobili in certe circostanze particolari o in certe ricorrenze, e non per amore dell’oggetto in sé, ma perché dietro ogni oggetto c’era una storia, c’era una persona, c’era un volto.
E fino alla fine della sua vita non s’è privata di nessun “regalo”, perché per lei sarebbe stato come tradire la persona che glielo aveva donato.
La novena del Santo Natale la celebrava insieme alle persone care con un semplice, ma sentito rito domestico.
Ma la sua convivialità si esprimeva in un modo tutto particolare nelle feste del Santo Natale
Quando mancavano una decina di giorni al Santo Natale iniziava l’allestimento dei tanti presepi che possedeva: presepi artistici, di legno, di gesso, di cristallo, di carta, fatti dalla sua vena artistica o regalati da amici o conoscenti che sapevano e conoscevano la sua predilezione per questa tradizione.
E diceva che in ogni casa doveva esserci il presepe, simbolo del grande amore di Dio per gli uomini.
E da tutte le stanze nelle quali aveva allestito i vari presepi emanava come una strana magia; sembrava che in quella casa non abitasse solo lei, ma ci fosse la presenza mistica e magica di qualcosa di soprannaturale.
Il presepe– diceva – appartiene ad un tempo che è fuori del tempo: in esso tutti, soprattutto gli anziani, rivivono la magia della propria infanzia.
Le feste del Natale poi raggiungevano il momento culminante nel giorno dell’Epifania, quando sul far della sera ci ritrovavamo tutti a casa sua per deporre i vari Bambinelli dei presepi e soprattutto il Bambinello di cera, che le suore, dopo che l’asilo era stato distrutto dal terremoto, le avevano regalato, il Bambinello che si svegliava e poi si riaddormentava al suono del carillon. Colui che, secondo una specie di classifica stilata da lei in base agli esami mensili, ai quali ci sottoponeva per verificare se quanto promesso all’inizio dell’anno era stato rispettato, era risultato primo, aveva l’onore di tenere il Bambinello di cera ed apriva la piccola processione che si svolgeva attraverso tutte le stanze. Avanti lei, Madera, che era la vera artefice e regista e noi dietro a cantare “Tu scendi dalle stelle.” Quel calpestio domestico di noi tutti in corteo, quel buio punteggiato da tante candeline accese, quelle voci stonate ma vere costituivano un rito che affascinava, soprattutto i più piccoli, rito che poi si concludeva con una preghiera che era insieme un ringraziamento dell’anno trascorso e un mettere nelle mani di Dio l’anno che doveva venire.
La settimana Santa la viveva intensamente come se si trovasse presente alla passione del Signore.
La Domenica delle Palme ci diceva: Io vado a Gerusalemme. Dio ha bisogno che qualcuno gli stia vicino.
E in tutti gli altri giorni della Settimana Santa il suo raccoglimento, il suo modo di fare, la sua stessa stanza, nelle suppellettili e nelle cose che toglieva o metteva, rispecchiava questa viva, intensa partecipazione.
E la Domenica di Pasqua la stanza si riempiva di fiori, metteva il vestito bianco, e ogni cosa attorno a lei assumeva l’incanto della letizia pasquale. E quando andavamo a darle gli auguri, ci accoglieva con il saluto che i primi cristiani si scambiavano nel giorno di Pasqua: Il Signore è veramente risorto! Alleluia!
Anche il mese di maggio aveva una solennità particolare.
Don Umberto Venturini, parroco di Barbarano Romano, nel ristrutturare la chiesa aveva trovato una tegola sulla quale era stata dipinta un’immagine di Madonna che però per il tempo e l’umidità aveva perso i suoi colori e l’immagine si conosceva appena. Sotto la supervisione di Madera l’immagine era stata riportata agli antichi splendori. Don Umberto per sdebitarsi aveva fatto stampare sopra una tela l’immagine e l’aveva regalata a Madera. E questa tela dopo essere stata incorniciata l’aveva posta nella sua stanza e il primo maggio don Umberto l’aveva consacrata con il titolo di Madre dellanostra famiglia E Madera per l’occasione aveva composto questa preghiera.
Vergine bellissima, ripiena di ogni virtù e grazia, in te la Trinità si compiace, gli angeli rimangono estasiati e noi figli tuoi, incantati, ci avviciniamo a Te. Aiutaci, o Madre, ad imitarti nell’umiltà, nella purezza, nella carità, nella fede, nella fiducia illimitata in Dio. Fa’ che la nostra giornata sia vissuta sempre cristianamente nella piena coerenza di genitori e di sposi, poiché oltre che dei nostri cuori Tu sei la Madre della nostra famiglia. A Te affidiamo tutto sicuri della tua intercessione di noi presso Dio.
Perché veramente grande era l’amore e la venerazione che rivolgeva alla Madonna. Ed ogni festa la celebrava con una partecipazione particolare, perché– sempre ripeteva – non domandar che festa sia, quando senti nominare il nome di Maria.
Il 2 febbraio del 1966 scriveva:
La Madonna. Al pensare a Lei fa bene al cuore. Ho paura di non amarla abbastanza, tanto lo vorrei. Pensando a Lei, subito mi viene presente la sua dolcezza, l’umiltà, la purezza, tre virtù che si compendiano in una, perché sono caratteristiche sue che la delineano perfettamente. E’ la creatura più bella, meravigliosamente bella, che qualunque santa al suo confronto impallidisce; se fossi stato uomo non avrei potuto amare altra donna che Lei (come m’è accaduto che, essendo donna, non ho potuto amare altri che Gesù).
Specchio purissimo di Dio, cristallo terso, tabernacolo vivente. Madre dolcissima per Gesù e per noi. Sposa amorosa e intemerata; tutti possiamo avvicinarci a Lei per ricevere esempio e conforto, perché Lei è creatura come noi, arrivata ai nostri più audaci desideri, punto fermo per chi comincia e per chi finisce.
Nella stanza attigua alla sua, teneva una piccola statua della Vergine Immacolata. Questa statua, piuttosto malridotta, le era stata regalata, e lei, dopo averla restaurata, l’aveva posta sopra un mobile e l’aveva fatta oggetto di delicata devozione. Ogni persona che veniva a trovarla, prima che se ne andasse, Madera la portava davanti alla piccola statua di Maria e invocava su di lei la protezione. E accadeva anche per noi. Ogni volta che dovevamo metterci in viaggio o che dovevamo fare qualcosa di importante c’era sempre la preghiera con la quale ci metteva sotto il manto della protezione della Madonna e così noi ci sentivamo più tranquilli e sicuri
Tante nel corso dell’anno erano le occasioni per ritrovarci insieme: compleanni, onomastici, feste liturgiche…; ogni occasione era buona per poterci ritrovare insieme, come una famiglia nella quale si poteva assaporare tanta pace e allegria. Ogni azione veniva santificata e ricondotta alla gloria di Dio. Qualsiasi attività si faceva in comune, si apriva sempre con la formula: Tutto a gloria di Te, mio bene immenso, quel che faccio, quel che dico e quel che penso.
Era, in fondo, la parafrasi, direi quasi scherzosa, ma non per questo meno vera ed ortodossa di quanto diceva San Paolo a Timoteo: “Tutto ciò che è stato creato da Dio è buono e nulla è da scartarsi, quando lo si prende con rendimento di grazie, perché esso viene santificato dalla parola di Dio e dalla preghiera.”
E il Qoelet non ci ammonisce che gioire della vita è un rendere onore a Dio?
Va’, mangia con gioia il tuo pane;
bevi il tuo vino con cuore lieto;
godi la vita con la sposa che ami.
(Vade ergo et comede in laetitia panem tuum
et bibe cum gaudio vinum tuum
perfruere vita cum uxore qum diligis.
Qoelet: 9,7-9)
Padre Adalberto
Nel mese di marzo del 1966 si tennero a Tuscania le sante missioni predicate dai Padri passionisti. Uno dei padri predicatori era P. Adalberto Cerusico, il quale, quando si trattò di andare a fare visita ai malati e gli fecero i nomi di alcune signore che erano malate da tempo, scelse di andare prima da Madera.
A Madera disse che quest’incontro lo aveva presagito da tempo e che forse era stato invitato a predicare le missioni a Tuscania proprio per poter incontrare lei.
Alla fine del colloquio si fece dare una agenda e nella pagina del 17 marzo scrisse quanto segue:
Mihi vivere Christus est
Amo Christumio
Vivo io?No, non più io
Ma è Gesù che vive in me!
Ti assicuro nel nome di Dio che sei la prediletta di Gesù. Gesù ti ama. Ti ama, ti ama e vive in te, vive con te e tu vivi in Lui.
Gioa e sorriso, pace e bene, fiori e frutti dell’amore che vivi perché il tuo programma, la tua missione e solo Amore. Amore! Ama, ama, ama molto nella libertà dei figli di Dio, ama nel sorriso, ama nella tua immolazione, felice perché Gesù è felice in te e di te.
Il campo della tua attività amorosa si estende fin dove si estende l’Amore. Tu vivi in Gesù e Gesù vive in te. Quindi ti assicuro sia per il tuo passato, per il presente e sia per il futuro che nel tuo stato interiore ed esteriore tutto è divino, perché in te tutto è amore. Tu vivi nel cuore di Gesù, perché il cuore di Gesù è in te.
Sì, e qui dove vivi e sei e operi è amore, tutto è amore. Solo amore, sempre amore. Qui ove sei, anche se soffri aridità e abbandono, l’anima tua si unisce sempre più al tuo diletto e nel tuo sconfinato abbandono e trionfa nel tuo proprio annientamento.
La Madonna ti benedica e ti benedica ogni volta che palpiti di Gesù e il tuo palpito per Gesù è incessante. Confermo quanto ti ho detto a voce, benedico Gesù d’avermi condotto qui. Prega per me povero povero e ti benedico anch’io in Maria con il cuore di Gesù.
Padre Adalberto dell’AddolorataNoviziato – Orbetello (Grosseto)
marzo 1966

Oggi 17 marzo ho avuto una profonda gioia spirituale: è venuto il padre delle sante missioni. Ha capito perfettamente la mia anima. Mi ha assicurato in coscienza che è Dio che mi ha guidato sempre e mi guida, perché la mia anima ha la sua impronta inconfondibile. Mi ama tanto, così tanto che il padre è convinto che perfino queste missioni l’ha predicate, affinché l’anima sua si incontrasse con la mia, difatti fino ad oggi aspettava, senza sapere nulla, questo incontro ed ora sente che è stato esaudito.
Serena in tutto; amare il prossimo senza ombra di paura, poiché la fonte da cui scaturisce è Lui, perciò non lo dimostrerò mai abbastanza; non fare caso a ciò che sento: non è nulla. Dei miei peccati e difetti il Signore ne ride come un padre ride nel figlio diletto di qualche capriccio. Dice che vivrò ancora per dare questa testimonianza dell’amore di Dio, perché in me si veda, poi perché debbo mettere in pratica la mia vocazione (sempre d’amore) verso il prossimo. Mi ha assicurato che oramai io prendo parte a tutta la sua vita apostolica e qualora avessi bisogno, lo debbo o informare per lettera, oppure chiamarlo, poiché anche se stesse al Polo Nord correrebbe perché se io avessi questo desiderio lui avrebbe la certezza che Gesù lo vuole e vuole accontentarmi. Dice che debbo chiedergli tutto al Signore, perché mi accontenterà sempre, perché quello che lui mi porta è un amore particolarmente straordinario. Ha detto che non mi debbo meravigliare se avrò delle grazie mistiche. La pace dovrà farmi riconoscere che viene tutto da Gesù. Gioire anche delle attestazioni sia di stima che di affetto, perché siccome è contento Gesù, debbo esserlo anche io.mia anima è felice, perché essendo nell’amore sono già nell’eternità, Pregare per lui affinché diventi santo, gran santo e muoia martire proprio con lo spargimento di sangue, come attestato di ciò che ha sempre esposto al suo apostolato.
Il 28 settembre Padre Adalberto era tornato a trovarla e l’aveva confessata.
(Padre Adalberto è venuto a confessarmi e m’ha dato l’assoluzione di tutta la vita)
Gesù è in me operante: come glorificazione del Padre; con il mio apostolato, quello visibile e l’altro immenso; nella sofferenza, uniformandomi a Gesù.
Tutto bene; debbo continuare così. Verso le anime debbo dimostrare loro l’amore senza ombra di paura, mai. Forte nelle convinzioni, qualunque sia la reazione di mio padre o di altri. E’ una prova; il demonio si scatena anche così, perciò tranquilla.
Più carità con l’umanità di Madera, niente nello stato spirituale in cui mi trovo, può contaminarmi; fare tutto nella piena libertà senza paura della reazione di chicchessia.
Profumo di Gesù, va bene. Niente paura se le anime, attratte dal profumo della rosa, si avvicinano sempre di più ad aspirarlo.
Bene il buio, risucchia tutto il mio, per far rimanere Lui solo.
Come si vede da queste note lo scopo di tutta la vita, il programma di santificazione che perseguiva Madera era basato solo ed esclusivamente sull’amore di Dio. Dio è amore– diceva spesso. – E il rapporto che noi dobbiamo avere con Dio deve essere un rapporto basato sull’amore e non sul timore. Se noi dovessimo obbedire alla legge di Dio solamente per il timore di offenderlo e non per l’amore che gliportiamo il nostro comportamento sarebbe un comportamento di servi e non di figli.
Il 15 settembre del 1972 era venuto di nuovo a trovarla Padre Adalberto.
E’ venuto padre Adalberto. M’ha dato l’assoluzione generale
Prima di andare via il padre si fece dare l’agenda da Madera e vi annotò di suo pugno quanto segue:
(scritto di pugno da p. Adalberto)
Ave, Mater Dei.
Madera carissima nel mio Gesù.
Ti scrivo dinanzi all’adorato Gesù, quanto Lui stesso, nella luce del suo palpitante cuore, mi fa vedere della tua anima.
Figlia mia sei veramente il suo cielo quaggiù, il suoin terra. In te il nostro diletto Gesù trova tutte lecompiacenze, le sue gioie infinite.
Non ti direi così se non fosse Lui stesso a manifestarsi così compiacente e gioioso di questo suo personale attestato d’amore per te.
Ti tiene e ti porta nel suo cuore adorato. Ti guarda con tenerezza di Uomo Dio. Ti custodisce con l’infinita sua delicatezza amorosa; Lui è – soltanto Lui – capace d’amarti cosìsuo cuore si riposa nel tuo cuore. E il suo amore infinito per il Padre, per la Chiesa, per la Madre San.ma e peranime ti penetra, ti pervade, ti illumina, ti infiamma, ti trasforma e ti identifica tutta: anima e corpo, mente e cuore, pensiero e volontà a Lui solo, Gesù.
Il suo sorriso è il tuo sorriso incessante; figlia, ti giuro in nome di Dio.
(quindi nella forma più solenne) la perfetta verità di questo che ora ti sto riferendoti davanti a Lui personalmente e sotto l’ineffabile splendore del suo cuore e della tua irradiazione luminosa che emani in lui, per Lui, con Lui.
Prosegui così, o prediletta, cara del mio Diletto. Tutto il tuo programma è: Amore. Tutto lo scopo della tua esistenza è: Amare! Amare l’Amore, Amare con amore, Amare per amore. Amare nell’Amore.
Non ci sono complicazioni o tortuosità nelle vie in cui ti conduce per mano il tuo Condottiero, il tuo Maestro, il tuo Adorato, il tuo Sposo, il tuo Tutto: Gesù. Sono i sentieri fioriti dell’amore, sentieri tutti nascosti nel suo cuore. Qui nel suo cuore, ove sei e vivi,
Tutto è amore!
Solo amore!
Sempre amore!
Qui in tutto si respira tenerezza, umiltà, dolcezza, fortezza, ardore, entusiasmo, gioia, martirio, felicità, armonia, zelo, sete d’amore perfetta, immolazione costante.
E tutto si respira da te:
con semplicità di bambina
con prudenza di adulta,
con libertà di figlia,
con intimità di sposa,
con espansività di mamma,
con gioiosità di confermata,
dall’amore, per l’amore, nell’amore!
La sua volontà santissima fu, è e sarà sempre il cibo della tua anima; la luce della tua vita, il sorriso della tua immolazione…nella salutare infermità che l’Amore eterno ideò e creò per te.
Madera cara in corde Matris, ti sono e ti sarò sempre vicino con la Madonna S.ma. Resta con me come io resto con te. In paradiso saremo insieme a cantare e glorificare l’Eterno Amore che per Mariam, in Gesù ha fatto in noi cose grandi…Dio solo!
Intanto in questi pochi giorni che ancora ci restano quaggiù, la nostra unione d’anima sia al suo massimo fulgore in una unione di carità, di fede, di sacrificio IN UNITA’ IMMACOLATA, inù e con Gesù
La mia attività sacerdotale si corona con la tua partecipazione reale: ove sono io ed opero sei e operi tu pure, in gloria et laudem Dei, ed ove sei tu (vale a dire sul tuo trono di regina=la croce; sulla cattedra di maestro=la croce; sull’altare d’immolazione=la tua e Sua croce) ivi sono io; e prego e parlo, gioisco, soffro ed amo con te. Sempre con te Uni con Maria e con Gesù.
Se tu lo vorrai e gradirai, ogni sera (finché non saraiù dinanzi al trono dell’Eterno) nel momento che a te piacerà (portato dalla Madonna) verrò spiritualmente, ma realmente. Vicino a te, mi siederò accanto a te per DARTI LA S. ASSOLUZIONE. Ogni sera ti assolverò, ti parlerò intimamente alla tua anima e ti benedirò con la benedizione della Madre Sant.ma.
A Dio solo ogni onore e gloria
alla Madonna ogni gioia materna
A te ogni consolazione del cielo.
E a me, povero povero, tutta la dolce umiliazione di misero e ingrato servo inutile.
Madera cara, esulta sempre! Ti benedico.
“in nome e volontà della nostra carissima Madre” la sua benedizione scenda sopra di te. Cosi sia.
corde Matris aff.mo P. Adalberto Cerusico, passionista
( P. Adalberto in questa occasione le aveva regalato una corona del rosario che in certi momenti emanava un intenso odore di rose. Ed era una corona nera, comune, e di questo fatto, che noi abbiamo potuto constatare, ne possiamo dare fedele testimonianza).
Il 27 settembre del 1974 il Padre Adalberto le inviò una lettera:
Madera, piccola sposa del tuo adorato Gesù.’Amore! Ecco tutto in te…perché è Lui solo, Gesù, a vivere in te, con te e per tuo mezzo continua lui, Lui – il tuo Gesù – a salvare anime ed anime. Credi, o figlia mia, credi a questo amore che Gesù ha per te. Tu sei sua, sei l’assimilata al tuo sposo. Sei tu la sua delizia, la luce dei suoi occhi velati di pianto e di sangue. Sì! sei tu la sua luce, perché sei il suo amore…sei tu il suo respiro, il suo palpito e il suo cielo quaggiù. Madera cara, in tanto sei così cara al tuo Gesù, in quanto sei quel nulla così immenso che tanto ti fa penare. Gesù ti ama e tu lo ami; e io ti benedico e ti confermo nel nome di Dio tutto questo che ti ho detto nella luce del suo amore.
Padre Adalberto
Nel 1977, il Padre Adalberto, ormai malato, non poteva più muoversi liberamente. Alcuni figli spirituali di Valentano erano andati a prelevarlo da Nettuno, dove si trovava nel convento dei Padri passionisti adiacente al Santuario dedicato a Santa Maria Goretti. Prima di raggiungere Valentano aveva voluto far visita a Madera. E anche il 15 giugno, dopo aver parlato a lungo con Madera, volle scrivere di suo pugno sulla agenda di lei come una specie di messaggio:
Ave Maria, Mater Dei e Mater ecclesiae.
Madera cara in Gesù,
Ti confermo nel nome sacrosanto di Dio e della Santissima Vergine Maria quanto ti ho detto in questo nostro sacro e indimenticabile colloquio e cioè sei in Dio; tutta luce; sei in Gesù adorato: tutto amore. Sì! Gesù trova e gode in te tute le sue più divine compiacenze.
prosegui, o figlioletta cara, prosegui a regolarti così come stai procedendo nella vera e somma serenità, libertà di spirito e totale sicurezza d’anima per qualsiasi problema che ti sorgesse o ti dovesse tenere preoccupata e forse anche angosciata ed abbattuta. Oh, figliola mia, mamma tua è in paradiso!
Quale gloria, quale gaudio! La Santa Trinità l’inonda di gioia per due ragioni: una per la tua assimilazione a Gesù sofferente, l’altra ragione è per l’amore immenso e materno che aveva per te.
Ti benedico. P. Adalberto dell’Addolorata.’
‘8 novembre del 1978 P. Adalberto le scriveva:
Ave Mater Dei
Madera cara in Gesù, il mio e tuo adorato Gesù ti possiede tutta completamente. Anche quei timori, che a volte ti prendono, sono tutti baci dell’adorato Gesù, a te, che ti tiene a sé assimilata e identificata. Come non v’è discepolo sopra il maestro, così non sarà mai che l’amore di Gesù ti esenti da questa particolare identificazione ai timori della morte ecc. Ma allora, o figlia, sii felice più che mai in Gesù, di Gesù, con Gesù, che è e sarà sempre felice in Madera e con Madera. Vivi così che è ottimo il tuo stato interiore.
Ti benedico.
Aff.mo P. Adalberto.
!l 13 ottobre del 1984, giorno del suo 60° compleanno Madera annotava nella sua agenda:
Ha telefonato P. Adalberto da San Martino al Cimino
Sii contenta, felice. Gesù ti ama tanto ed è tanto contento di te. Va’ avanti con la tua semplicità e stai contenta. Non dare importanza alle chiacchiere; tu fai bene quello che fai; continua come sempre. Gesù vuole stare con te nella sofferenza.benedico e prego tanto per te.
—===ooo0ooo===—
Rportiamo qui a conclusione di quanto abbiamo detto di Madera ciò che lei scrisse il 16 febbraio del 1985 e che sembra un po’ la conclusione e l’esame di tutta la sua vita, che ella divide in tre tappe:
Ho veduto per un attimo con chiarezza e semplicità tutta la mia vita spirituale, o meglio le tappe decisive attraverso le quali il Signore mi ha guidato con il suo diretto intervento.
Prima tappa. – A 14 anni mi sono incontrata con l’umanità di Gesù, è stato un colpo di fulmine. Consacrazione; anni di ricerca e conoscenza attraverso letture, soprattutto del vangelo; direzione spirituale; attenzione massima ad ogni predica, ad ogni conferenza, e poi vita di unione intima, affettiva, generosa, gioiosa, travolgente con Lui. Sono stati anni veramente spesi alla conoscenza e alla identificazione in Lui; la mia preoccupazione era di assomigliare a Lui il più possibile e fare quello che più Gli avrebbe fatto piacere.
Seconda tappa – Benché il fuoco che avevo dentro avrebbe voluto arrivare a tutte le anime che avvicinavo, per un certo numero di anni spandevo questo ardore a tutti. La giovinezza, che pur nella malattia era rimasta così intatta e serena, conquistava le persone, che avvicinavo, al Signore: almeno per un certo periodo, poi ritornavano al loro tran tran. E’ stato un periodo in cui Dio mi ha protetto con grande cura, poiché non tutte le anime lasciava che mi avvicinassero; alcune addirittura, anche se volevano, non potevano: ho avuto il riscontro in parecchie e serie occasioni. Poi dopo questa lunga (diciamo) preparazione all’apostolato, avallata, anzi incoraggiata, dai vari sacerdoti, quali mons. Brizi, padre Cerusico, padre Stefano e altri occasionali, ma non meno validi, Gesù ha voluto che prendessi cura di certe anime che avevano il desiderio di conoscerLo e amarLo. Ho inteso veramente la nascita in me della loro anima; nascita sofferta, scaturita dal mio amore grande per il Signore, che, unito al Suo in una fusione di gioia e sofferenza insieme, mi faceva accollare tutto il bene e il male che era in loro, come fosse mio; facevo da intermediaria presso Dio di ogni loro azione, umana e spirituale.
I loro interessi valevano più dei miei, il loro progresso mi premeva rallegrare come fosse mio. E tutto questo fino a che sono venuti grandi, e non hanno avuto più bisogno di me, poiché hanno raggiunto una maturità che permetteva loro di camminare da soli.sembrava così logica e scontata questa soluzione tanto che io dovevo trovarmi preparata e felice quando quasi tutti gli uccelli, e tra questi non escludo i familiari, si sarebbero staccati da me… Ma non è stato così! Poiché troppa vita importante avevo regalato a piene mani, senza pensare un po’ a me, poiché se loro (ciascuno in particolare), erano contenti, io ero felice della loro felicità e mi bastava, e se avevano un dispiacere ero talmente presa dal loro dolore e dalla loro preoccupazione che i miei dispiaceri passavano in secondo ordine.conclusione io ero in tutti, Madera cercava solo di aiutare il più possibile tutti; l’unica persona di cui non mi interessavo ero io stessa.
L’impatto con la nuova realtà, quella cioè di non aver più vicino chi aiutare, e chi mi faceva partecipe della sua vita spicciola, m’ha in un certo senso smarrita. Mi sembrava di aver perduto me stessa, dato che per molti anni mi ero perduta in loro. In questo momento però è scattata la mia terza tappa.
Terza tappa. Ho scoperto Madera, cioè la mia semplice entità: di essere nulla! Questo l’ho sempre creduto, lo so con certezza, lo tocco con mano: se prima qualunque cosa la facevo con Lui, oggi sperimento la mia incapacità, non solo di dare agli altri, ma anche di dare a me stessa; non ho la forza e debbo sforzarmi parecchie volte al giorno per resistere alla sofferenza fisica, alla tristezza, alla solitudine (quasi angosciosa). Mi sento come un povero animaletto preso in trappola; la prigionia la sento all’ennesima potenza. In tutto questo, (chiamiamolo) squallore ogni tanto si squarcia il buio e sento che il Signore mi ama, come sempre e che tutto ciò che provo è perché Egli vuole che sia solamente sua e dedichi il mio tempo ad amare, adorare, a stare sola con Lui
Pensieri
2 gennaio 1966
Gesù, nome dolce che dice tutto. Sussurrato piano per paura che il suono turbi l’intimità dell’anima. Nome di Colui che ha fatto la gioia di Maria SS., dei santi e di tutte le piccole anime che in questo nome trovano la risposta dolce, umana e divina a tutta l’ansia di amore che sentono in cuore. Gesù, nome che si pronuncia in terra, ma più delle onde sonore si allarga fino a raggiungere il cielo e si unisce al coro degli angeli in un’eco soave e dolce.
4 gennaio 1966.
Santità. Nessuno più di Dio desidera la nostra perfezione. Se il mio pensiero va ai primi anni di vita, tutto mi ricorda la premura che il Signore aveva nell’avviarmi a questa vita. La gioia che provavo in chiesa, nelle varie funzioni ancor prima di riceverlo a otto anni nella Comunione; la fiducia completa che avevo in Lui; gli infantili colloqui che preparavano la mia vita futura; i patti fatti e puntulamente da Lui rispettati: consacrazione, età di malattia, (quando iniziò la sua malattia),malattia di cuore, offuscamento (incapacità da parte dei dottori di capire il suo male)dei dottori e cento altre cose, fedelmente rispettate. Come dubitare quindi che mi manchi l’aiuto per raggiungere la perfezione, quando Lui ha rispettato i patti? Mio Dio, soddisfa l’ultimo, che poi è il primo mio più grande desiderio: dammi una piccola parte del tuo Cuore per poterti amare; l’unico modo per poterlo fare: Te a tutti.
9 gennaio 1966 – domenica
Mio Dio, che piacere il riceverti nell’Eucarestia! Come la mia anima risplende della tua luce! Come è bello sentirti così vicino, parlarti, posare il capo sul tuo cuore, sentirsi amati da Te. Che sarà mai il paradiso se già qui in terra sentiamo questa gioia che è poi offuscata da questo corpo che paralizza gli slanci; da questa immaginazione occupata da tanti inutili pensieri che ci distraggono, dalla infermità che qualche volta opprime, ma soprattutto dalla poca trasformazione spirituale che non è ancora riuscita a liberarsi di questo involucro per lasciare libero lo spirito a spaziare nella piccola cella interiore dove c’è già il paradiso, perché ci sei Tu?
5 febbraio 1966
I Santi. Fratelli nel Signore, amici da ricordare; bisogna cercare, tra la fitta schiera, quello che più è vicino al nostro modo di vita, alla nostra mentalità spirituale. Chiedere l’aiuto, affinché anch’io sia capace del loro eroismo nella virtù, uguagliandoli e se è possibile superandoli nell’amore. Me li sento molto vicini, perché, umani come me, sono la parte più divina accessibile, poiché, pieni delle mie stesse miserie, hanno saputo elevarsi, capaci quindi con il loro esempio vissuto e con il loro sguardo dal cielo di spronarmi, d’aiutarmi, di incoraggiarmi e di aspettarmi in un incontro che, spesso, penso in paradiso, per godere insieme con loro dell’amore infinito.
7 febbraio1966
Mio Dio, che pena vedere giovani famiglie avviate a questa nuova via in due e che hanno impostato così male i loro rapporti! Come viene da Te il mio modo di pensare in questo campo, visto che chi si allontana da questo modo di pensare, sbaglia in pieno.’ che la mia pena porti il suo frutto e che il mio parlare a C* sia ascoltato e messo in pratica. Aiutami per quanto possibile a salvare questo matrimonio, quasi in frantumi, visto che solo dopo sei mesi già pensano di scioglierlo. Aiutami a dimenticare che io avevo fatto del tutto, perché non si unissero, affinché io metta tutto l’impegno ugualmente a pregarti.
8 febbraio 1966
L‘angelo custode; compagno inseparabile, quanto gli voglio bene! A lui mi rivolgo come al più caro degli amici; quando mi sento sola, lo chiamo; ricordo che fin da bambina nei banchi di scuola mi stringevo per lasciargli il posto, perché si sedesse accanto a me. Spesso lo penso vicino ai miei cari e a certe persone che vengono a trovarmi. Mi rivolgo all’angelo dei miei fiotti perché li aiuti e li accompagni nei loro viaggi; lo prego di sostituirmi insomma nel modo concreto in tutto ciò che il mio affetto per essi desidera. Spero che il mio angelo mi accompagni oltre la morte, quando finalmente potrò fare la sua conoscenza visibile e rimanere per l’eternità insieme.
11 febbraio 1966
Dio mio, che piccola anima sono io! Più mi guardo e più mi ritrovo nulla; tutto è Tuo ciò che è in me. Come è da poco la mia vita, se faccio il confronto con le anime buone che avvicino! Tutte piene di mortificazione, cercano di piacerti, facendo un mucchio di sacrifici, io invece con Te mi permetto tutto o quasi tutto; fiduciosa del tuo amore, mi abbandono, mi specchio in esso e trovo solo che serenità, gioia goduta nelle oneste cose; comprensione massima per l’umana natura; speranza nelle tue promesse; misericordia prima della giustizia. Tutto ciò mi fa rimanere piccola, senza eroismi, ma sicura in Te, ultima fra tutte.
21 febbraio 1966
Le anime dei passati. Da qualche anno in qua vado constatando quanto siano presenti tra noi le anime dei morti. Dio ha permesso nella sua bontà di farmi fare un’esperienza in questo.
Alcuni anni or sono, sempre in sogno, venne A* e mi disse, o meglio compresi dal suo volto, tutto lo sbaglio che suo figlio stava facendo (in seguito tutto si è avverato). L* mi ha manifestato la tristezza per una situazione che lei non poteva approvare, e in seguito, avverato. Di mons. B* sento ancora vivo, a distanza di tempo, l’aiuto che mi dava e l’affetto che mi porta. Da C* ho saputo la disgrazia del figlio con tristezza e in parte con disapprovazione.
Le anime dei morti vedono prima tutto quello che ci accade. Pregare perciò per loro e chiedere sempre che ci aiutino.
1 marzo 1966
La Comunione dei Santi.questa verità è bella! Sento tanto desiderio di metterla in pratica, anche perché, forse, per la mia grande sensibilità avverto questa unione con le anime alle quali sono spiritualmente legata. Certo che è anche una grande responsabilità, perché il mio stato d’animo deve essere sempre nella migliore forma, altrimenti faccio male alle anime e se non proprio male, certo non l’aiuto a fare il bene; poiché questo fluido divino, che ci lega, è reale e ogni cosa viene notata; con i vicini, anche le sfumature; con il resto dei fratelli il male compiuto e il bene inviato con la preghiera, con la sofferenza, con le buone opere arrivano ad essi per il mistero che ci lega nella figliolanza di Dio.
2 marzo 1966
Mortificazione. Un tempo mi mortificavo molto di più di oggi: ogni occasione era buona per farlo. Oggi ho paura di esserlo poco, non so se per mancanza di attenzione nella ricerca dell’occasione, oppure per negligenza, e, Dio non voglia!, per tiepidezza nell’amore. Spesso mi accade di non trovare al cento per cento la spinta per una data mortificazione, poiché per il mio stato di salute, fiacco e malato, sono poche quelle mortificazioni che posso fare e, purtroppo, quelle poche mi sfuggono. Moralmente, specie nel contatto umano, tutti vogliono qualcosa da me e se alle volte vorrei stare per conto mio, per mortificarmi un po’, vedo subito lo scontento e il raffreddamento nel bene. Spiritualmente non ho più nulla esternamente, nemmeno un sacerdote che venga a prendere i peccati. Comunque sia non sono per nulla scusata, poiché dovrei trovare cento occasioni per dimostrare al mio Gesù, attraverso lo spirito di mortificazione, il mio amore. Ma, seguendo la piccola via, mi permetto tutto, come un bambino con la sua beata incoscienza, e sotto l’amoroso sguardo di Gesù mi permetto di cogliere senza pungermi le poche rose che trovo sul mio cammino.
5 marzo 1966
Confessione, il sacramento che dà infinita gioia, che ci fa sentire fortificati nella tentazione, ma per me è stato sempre difficile poterne usufruire fin dai primi anni del mio lavoro alla perfezione. Avrei desiderato farla con il mio direttore spirituale, ma poi non potevo, perché il suo orario non era compatibile con il mio, per il fatto che confessava la sera molto tardi, e così io dovevo farla con altri alla spicciolata, ma ne traevo comunque, sempre, un beneficio spirituale. Poi è arrivata la malattia e ha diradato anche questa gioia, sempre di più sempre di più, fino a non sapere a chi dire i miei peccati e arrivare, con sommo dolore, a far passare 40 giorni tra un’accusa e l’altra; perciò niente forza del sacramento, niente gioia, solo tanta pazienza e abbandono.
6 marzo 1966 – domenica
Fin da bambina il Signore mi ha chiamato ad una vita di perfezione; infatti la parole che mi hanno accompagnato fin dalla più tenera età, ad ogni mia innocente marachella erano: – “Madera, mi meraviglio di te! Anche tu questo!” – E tutto per delle piccole cose, tanto normali nei bambini, ma che io non dovevo fare, sotto la pena di essere notata, segnalata e con continue ripassate. Da me si è sempre aspettato qualcosa di buono, di diverso e spero in ultimo di non aver deluso chi mi è stato vicino.
7 marzo 1966
Ritornando sullo spirito di mortificazione, dopo di aver parlato con il padre passionista, debbo dire che anche qui il Signore mi ha guidato, poiché mi ha detto che debbo gioire di tutto, debbo prendere tutto come frutto dell’amore che porto e che mi porta al Signore. Perciò gioire in Lui più che togliere, sospinta a salire sempre di più verso di Lui e dare a chi mi circonda testimonianza di Lui per mezzo del sorriso e dell’amore, il più puro, ma anche il più affettuoso.
8 marzo 1966
Matrimonio. E’ strano! Di questo sacramento non ne dovrei parlare, visto che non mi interessa personalmente e invece, per via dei miei fiotti, ci debbo star in mezzo al problema. Sono combattuta, non avendone la vocazione, a parlarne bene, dar loro l’entusiasmo, che proprio non sento, liberare il mio sentimento da una tristezza che certamente è sbagliata, ma della quale non riesco a liberarmi quanto vorrei, al solo pensiero che qualche fiotto si deve sposare.
Mio Dio, come sono buffa! Riconosco la santità di questo sacramento e ne ho un terrore quasi fisico. Aiutami, o Signore, a non far trapelare mai nemmeno la centesima parte di questo sentimento.
9 marzo 1966
Morire. Fin da quando era bambina non avevo paura di morire, poi nella mia giovinezza, quando ho conosciuto il Signore, allora non solo non ne avevo paura, ma la morte, per tanto tempo, l’ho desiderata. Rimanevo meravigliata nel sentire da alcuni che anche i Santi avevano avuto paura di morire: ma come era possibile amare tanto il Signore e non sentire il desiderio struggente di unirsi a Lui? Avere il terrore di dargli dispiacere con il peccato e non desiderare di liberarsi da questo corpo che ci trascina in basso? Tutto questo si raggiunge con la morte, perciò ben venga sorella Morte, carceriera solerte e puntuale, che allo scadere del nostro esilio, apre la porta di questa prigione per liberare l’anima affinché voli al suo Dio, a quel Padre che l’ama fin dall’eternità. mi sei cara, sei l’angelo che ferma l’orologio del nostro cuore. Non sempre ciò che procede questo istante è bello, anzi spesso è doloroso, per questo si ha paura di te, ma fa’ che alla mia morte io ti possa vedere un momento prima per ringraziarti, o angelo carceriere, che vieni a fermare il mio cuore; ma solo apparentemente, poiché, aperto il carcere, io potrò amare in eterno.
11 marzo 1966
Giudizio di Dio. Sì! Dio è sommamente giusto. In Lui, perfezione infinita, ogni cosa è retta e perfetta; certamente dopo l’amore e la misericordia, la giustizia è sua, in tutta l’essenza della parola e della comprensione umana.
E’ così riposante questo pensiero in chi Lo ama, poiché è già scontato che qualunque sia il Suo giudizio, questo sarà accolto con gioia, poiché chi ama ha fiducia, è sicuro, sa di potersi fidare dell’Amato, in tutto.
12 marzo 1966
Paradiso. Se dovessi descrivere il paradiso come lo penso, cioè, dandogli una dimensione umana, so che farei ridere, poiché in esso vi è tutto quello di bello che desidero avere: i fiori, le ali per volare, le capriole fatte nelle soffici nuvole, i giochi con i beati del Paradiso… e cento altre cose, senza dimenticare che vorrei con me tutti quelli che amo. Ma se poi fermo il pensiero fantastico e lo immagino il paradiso dal lato mistico (che forse sarà il più reale e anche il più bello) allora non so descriverlo, poiché la sua rappresentazione sfugge alla mia penna, dato che non ho concretezza! E’ l’incontro con Dio, è conoscere l’amore, capirlo, goderlo nella pienezza e sentirsi perduti in Lui, nella gioia completa e ritrovarsi sola, per perdersi di nuovo in Lui per tutta l’eternità.
1938
Tu che sei Santo, ammirabile fra tutti i santi, Tu che l’universo intero sospira unanime, Tu che compi la meraviglia di una potenza infinita concessa ad un uomo, non vi è certo, e non vi sarà mai, chi ti rassomigli, Dio, che sei talmente mio. Io verrò incontro a te come alla mia pace e alla mia vita eterna.
Nelle tue mani è il mio essere che Tu sostieni, e Tu sei la mia ricompensa, perché in Te sta tutta la mia perfezione. Tra noi due non corre solo un vincolo legale e degli obblighi definiti dal diritto, ma l’esigenza di tutta la mia vita, incapace di sostenersi e di comprendersi se non si inabissa nella Tua immensità.
Considera inoltre che il divino Maestro ha tutto l’interesse ad accordarti la santità, perché sei una parte di Lui stesso, sei un membro del corpo, di cui Egli è la testa. La tua gloria è la sua e la tua imperfezione è il suo disonore.
L’amore genera la confidenza e la pace; il timore conserva il turbamento e l’agitazione. Se guardi te stessa e le tue debolezze, il timore invaderà il tuo cuore; se ti volgi verso Gesù, il quale è buono e potente, l’amore ti penetrerà.

Allontana immediatamente ogni pensiero inquieto, ogni idea deprimente, ogni sentimento di tristezza o di scoraggiamento. Questi pensieri e questi sentimenti sono i frutti della confidenza in te medesimo.
La morte è il passaggio dal tempo all’eternità, dal noto all’ignoto, dall’apparenza alla realtà, dal transitorio all’immutabile. Questo passaggio devi farlo da sola, senza l’assistenza e senza l’appoggio d’alcuna creatura. Nessuno ti accompagnerà al di là della tomba; soltanto le tue azioni, buone o cattive, ti rimarranno unite.
L’anima, che non desidera essere trascinata prima o poi in un precipizio, deve combattere la commozione della tristezza. Questa commozione è una passione e se si lascia crescere occuperà presto tutto il campo dell’anima. E’ necessario circoscrivere immediatamente la sua azione, ricorrere a Dio con la preghiera e se l’anima disgustata ricusa di pregare e si ostina nella malinconia, bisogna applicarvela per forza.
Anima mia, se vuoi piacere a Gesù, prendi il suo spirito pacifico, il suo spirito di comprensione e di pazienza.
Testamento spirituale
24 – IX – 1981
MADRE DELLA NOSTRA FAMIGLIA E G. PREGATE PER NOI
Carissimi,
quando leggerete questa, io non sarò più tra voi, ma finalmente nella casa del Padre; non ci sarò con il corpo, ma il mio amore è con voi, siatene certi!
Vorrei dirvi tante cose, ma penso che non sia mancata occasione di parlarvene, poiché abbiamo vissuto tanti anni insieme; desidero assicurarvi che ho parlato sempre nella convinzione della mia nullità, mi sono ispirata unicamente al Vangelo e sono stata ubbidiente figlia della Chiesa; ho cercato di fare del tutto per mettere in pratica, prima di voi, ciò che dicevo; non ci sono sempre riuscita; sento perciò il dovere di chiedere a tutti voi perdono, a ciascuno in particolare, perché so bene quante volte mi sono sentita in colpa, poiché, per la mia grande fragilità, vi avrò certamente deluso, predicando bene, ma deludendo le vostre aspettative.
Avrei tanto voluto darvi il buon esempio, far sparire Madera, far rispecchiare in me quell’immagine di Gesù che tanto volevo far conoscere e amare, ma, come ebbi a dire tante volte, sono una piccola anima, anzi un’anima nulla…
Questa mia consapevolezza, unita alla certezza che qualunque fosse stato il mio stato di miseria, Dio mi amava, abitava in me e mi conduceva per mano, ha fatto sì che io vivessi serena nel piccolo apostolato che ho fatto, vivendo con Lui la più bella avventura che un uomo possa vivere sulla terra.
Ho sempre sofferto, non tanto ciò che avete visto, ma ho sofferto nel cuore, fin da bambina, per la mia grande sensibilità; il pensiero dei poveri, degli abbandonati, dei carcerati non mi faceva dormire. Venendo grande e partecipando alle pene di tutti, sono cresciute le occasioni di dolore e di tristezza; per mia fortuna il Signore mi è stato sempre vicino; Lui non mi ha deluso mai; ha risposto a tutte le mie preghiere; è stato di una delicatezza straordinaria; il suo amore mi ha dato la forza per vivere tutto questo tempo serena con l’unico desiderio struggente di andare da Lui, poiché questo amore è cresciuto con me, rimanendo eternamente giovane.
Fidatevi di Lui. Sempre; anche quando non capite. Qui sta il segreto per vivere la più bella avventura.
Ed ora , cari, vi lascio; vorrei dirvi un’ultima cosa che mi preme molto.
Vorrei che l’amore, che ho cercato di insegnarvi, sia il vostro riconoscimento: vi ho tanto amato, tutti, e vorrei essere ricordata soprattutto per questo, non per altro; e con tutta umiltà vorrei essere da voi imitata, anzi superata.
Amatevi tra di voi, in famiglia, e amate tutti quelli che avvicinate. A chi vi fa soffrire vogliate bene; solo con l’amore si vince, anche quando sembra di essere perdenti.
Fate agli altri quello che vorreste fosse fatto a voi. Questo è il punto di partenza per ogni atto d’amore concreto.
Cercate di non essere tristi, perché i figli del Re non hanno da temere nulla, solo dispiacere al Padre e se per disgrazia dovesse accadere, siate sicuri del suo perdono.
Coraggio!
Salire la montagna è faticoso, ma ne vale la pena.
Gesù ha tracciato per primo il sentiero, sapete come salire senza sbagliare.
Io, per quanto mi sarà possibile, vi starò vicina e continuerò a parlare di voi al Padre, in modo migliore di come facevo in terra.
Ricordatevi, o cari, che la Madre per eccellenza è la Madonna e, come facevo spesso, vi affido a Lei sotto il suo verginale manto e vi aspetto per essere tutti eternamente felici.
Il Signore vi benedica
Sia benedetto il suo nome. Sempre.
Madera ha avuto nella sua vita numerose malattie che l’hanno fatta soffrire spesso atrocemente, ma che ha considerato come doni da offrire al Signore nella partecipazione alla sua passione, e le ha vissute con un amore vivo e ardente. Noi, al contrario, abbiamo paura della croce e, quando la malattia e i dolori ci assalgono, ci abbandoniamo alla disperazione.
Che Madera, dal cielo ci ottenga di poter imitare il suo esempio,
Il Mago Ranieri Bustelli

Nato a Tuscania il 12 febbraio 1898, morto a Firenze il 30 aprile 1974 è stato uno dei grandi maghi e prestigiatori del XX secolo. È considerato un maestro ed un precursore da diversi prestigiatori moderni, tra i quali Silvan.
È l’ultimo di quattro figli che Alberto e Benilde Lucchetti hanno avuto dopo Giuseppe, Amelia e Ines.
La famiglia Bustelli non ha radici a Tuscania, proviene dalla vicina Tarquinia, e vi rimane per pochi anni dopodiché si trasferisce a Roma. Qui, Ranieri inizia quell’avventura che lo porterà in tournée per mezzo mondo e ne farà un maestro e modello per maghi e prestigiatori.
Il giovane Ranieri non è molto brillante a scuola, tuttavia compie gli studi primari e parte di quelli secondari; cosa non da poco per quei tempi.
A Roma entra in contatto con alcuni personaggi dello spettacolo, come il giocoliere e saltimbanco Amedeo Bernardini, che probabilmente gli suscita la passione per il gioco di prestigio. Successivamente è allievo anche di Luigi Piovano e Luigi Giovenzana.
A 18 anni debutta in uno spettacolo di varietà e poco dopo crea una sua compagnia con la quale gira l’Italia presentando spettacoli di illusionismo e giochi di prestigio. In seguito, nel periodo che abbraccia gli anni ’20 e ’30, il suo successo si consolida grazie alle sue innate doti di prestigiatore ma anche di uomo di spettacolo a tutto tondo: è fra i primi in Italia a concepire e proporre l’illusionismo e la magia in modo completo e moderno, con intermezzi comici e artistici di vario tipo. Fra il 1948 e il 1949 si esibisce per 4 mesi al teatro Adriano di Roma, sempre con un successo strepitoso di pubblico e con incassi record. Nei primi Anni 1950 anni ’50 esegue tournée in vari stati europei ed anche in Canada.
Dotato di elegante presenza, di fine umorismo e di un notevole senso commerciale, Bustelli superò rapidamente la fase dell’apprendistato e si lanciò ben presto nell’attività teatrale come professionista. Allestì una grande rivista magica e portò il suo spettacolo sulle più rinomate ribalte d’Italia e d’Europa, ottenendo ovunque strepitosi successi. Il suo spettacolo era ricchissimo ed oltremodo vario; in esso si alternavano grandi illusioni e manipolazioni, sketch comici ed effetti di magia generale del repertorio classico.
Da vero uomo di teatro Bustelli aveva capito che il solo modo di fare accettare la magia per un’intera serata era quello di porgerla al pubblico in forma tale da renderla concorrenziale con le grandi rivisteche allora furoreggiavano (macario, Dapporto, Osiris). Aveva capito cosa divertiva il pubblico e sapeva come porgere al pubblico certi giochi, anche i più banali. Il suo repertorio era scelto col criterio di divertire oltre che di stupire.
Gli scenari da lui utilizzati erano ricchi ed originali: ad esempio per il gioco della Battisfera usava un siparietto semitrasparente rappresentante un fondale marino con tanto di pesci, madrepore e sirene. Il complesso di doti artistiche unite ad un ottimo senso commerciale lo portò ad ottenere successi di critica e pubblico strepitosi. Tanto per avere un’idea del richiamo che Bustelli esercitava sulle folle, basti pensare che egli restò per oltre quattro mesi consecutivi al Teatro Adriano di Roma, realizzando un incasso netto per sé e per la sua compagnia di oltre mezzo milione per serata
Si ritira dalle scene nel 1955, contribuendo comunque alla fondazione del Club Magico Italiano, di cui fu anche presidente. Il suo modo raffinato di presentarsi al pubblico e la sua innata classe contribuirono a creare lo stereotipo del mago in frac, cilindro e mantello che poi si affermò. È stato uno dei pionieri in Italia dell’illusionismo inteso come spettacolo completo e moderno di rivista e varietà.
Muore a Firenze il 30 aprile 1974
Carlo VIII

Il 27 maggio del 1494 si sparge la voce che Carlo VIII sta per risalire a Roma dal napoletano. Alessandro VI si rifugia nella rocca di Orvieto. Carlo, superata Roma, il 4 giugno (giovedì) è a Ronciglione da dove manda ambasciatori al Papa per un incontro, ma all’alba del giorno seguente il Papa fugge a Perugia. Carlo entra in Viterbo a tarda sera alla testa delle sue numerose truppe. La domenica mattina (il 7, la festa di Pentecoste) giunge a Viterbo il comandante della retroguardia con 8.000 uomini, Matteo di Botheau, figlio di Giovanni duca di Borbone e di Auregne, meglio conosciuto con il nome di Gran Bastardo. Non è possibile alloggiarlo a Viterbo e così viene deviato verso Tuscania. Ma a Tuscania non c’è più posto, perché oltre ai normali abitanti ci sono diverse centinaia di operai agricoli scesi dai paesi dell’Appennino, per la mietitura..
Mentre il Gran Bastardo giunge a Tuscania è già pomeriggio e molti cittadini si avviano verso la chiesa della Rosa (che era Cattedrale) per cantare i vespri. I Francesi domandano vettovaglie e alloggio per la notte. Ci sono discussioni animate. Parte qualche parola grossa e infine si passa alle armi: due fanti francesi cadono sotto le spade dei Tuscanesi. E’ l’inizio della battaglia. Si chiudono in fretta le porte, ma basta un po’ di fuoco per renderle inutili. Ottomila soldati irrompono per le vie di Tuscania. Hanno l’ordine di trucidare chiunque, tranne le donne e i bambini. Il sacco nella città è di breve durata: alla fine i Francesi abbandonano l’abitato, carichi d’oro, d’argento e di mille oggetti rubati. Catturano molti uomini e li trascinano via come prigionieri.
Dopo una pausa un’altra ondata di persone irrompe per le vie piene di cadaveri e di feriti: sono le centinaia di persone che, asserragliate nella Cattedrale della Rosa fin dall’inizio dei vespri, si precipitano ora alla ricerca disperata dei loro congiunti. Dalla Torre Ciglioni, da Tor della Vela e dalle altre della Rocca Tartaglia scendono in preda al terrore quei pochi che vi si erano asserragliati e che i Francesi nella fretta non si erano presi la briga di stanarli. Si contano i morti: sono circa 800. Molti sono anche montanari dell’Appennino. All’alba la triste notizia è portata a Viterbo, e subito i Viterbesi si fanno in quattro per portare aiuto ai poveri Tuscanesi. Corrono da Carlo VIII. Pregano.
Un messo è già partito a sprone battuto a rincorrere il Gran Bastardo con l’ordine di lasciare prigionieri e bottino. Ma l’ordine non viene eseguito. Partono intanto da Viterbo Mariano Nicolai e Paolo Gentili. Portano offerte a Tuscania; con loro ci sono le confraternite laiche al completo: i medici sono carichi di medicinali e di bende per i feriti. La notizia intanto si diffonde; a Orvieto la portano a Tommaso di Silvestro, i montanari feriti ritornano ai loro paesi. Mariano Nicolai corre da Tuscania a Viterbo; il Gran Bastardo non ha ancora rilasciato i prigionieri. Si scrive (12 giugno) allora al re che ormai è alle porte di Siena: Aiutare i Tuscanesi – dice la lettera – è come aiutare noi, perché consideriamo i Tuscanesi come nostri concittadini. Questa volta l’ordine rinnovato al Gran Bastardo viene eseguito; i poveri prigionieri tornano a casa con quasi tutto il bottino. Ora la marcia di Carlo si trasforma in fuga. Da Siena ripiega su Pomarance (15 giugno). Non gli è possibile sfuggire all’esercito della Lega che lo investe e lo sconfigge a Fornovo sul Taro (16 luglio). Carlo riesce a raggiungere la Francia, ma il Gran Bastardo è fatto prigioniero. Anche il Papa è tornato a Roma. Dal 23 al 25 giugno è transitato a Viterbo, ma non dice neppure una parola di cordoglio per i poveri Tuscanesi: forse conservava ancora il rancore verso di loro per il comportamento tenuto nei mesi precedenti.
In modo veramente encomiabile si comportano invece le autorità del Comune di Pomarance. Intorno alla metà di luglio esse avvisarono il Comune di Tuscania che una parte del bottino era stato recuperato e i Tuscanesi potevano andare a riprenderselo. Furono mandati Antonio Scagnozzi e Antonio Malagigi, che mentre ricevano il maltolto comunicarono ai presenti una decisione del Comune di Tuscania. “qualora i Pomarancesi avessero avuto occasione di venire o di transitare con le loro merci nel territorio di Tuscania sarebbero stati esenti dal pagamento di qualsiasi gabella per sempre. Almeno così il medioevo si chiudeva con un gesto di simpatia e di amicizia dopo tanti lutti e tribolazioni.
La famiglia Ciglioni
Nobile famiglia tuscanese al figlio della quale San Francesco, passando per Tuscania, fece un miracolo. Il miracolo fu così raccontato dal padre Candido Chalippe Recolletto nella Vita di San Francesco:
De la nobile Toscana in questa altera
Città vetusta a un cittadino degno
Risana il suo diletto e caro pegno
Che sdirenato e curvo nato gli era.
Il Conte Enrico Pocci

“Ama Dio, ama il tuo prossimo”: l’adesione convinta all’insegnamento evangelico è stata alla base di tutta la vita del Conte Pocci e si è tradotta, anzitutto, nell’accettazione della volontà divina, anche nelle prove più difficili, quali possono essere state la morte dei figli. Quando nel 1913 morì la piccola Isabella, il Conte scrisse, nelle memorie di famiglia: Sia fatta la volontà di Dio! E quando morì il primogenito, Cesare, a 16 anni, il padre commentò: Il Signore ha voluto toglierlo dai pericoli del mondo. Inchiniamoci e adoriamo.
E nel dolore che si prova la fede: quella del Conte Pocci ne uscì rafforzata e gli fece accogliere come una grazia speciale il sacerdozio del suo don Filippo.
Tale fede non avrebbe potuto mutare se non fosse stata sostanziata dalla preghiera e il Conte fu assiduo in questo incontro con Dio, tanto da farne un rifugio in qualsiasi momento delle giornata; non si limitava, però, ai momenti di raccoglimento e di orazione personale, ma si preoccupava di fare opera di apostolato in ogni ambiente, prima di tutto in famiglia, poi tra i giovani, i lavoratori, i militari di cui si occupò giovanissimo e per i quali in occasione della campagna d’Africa compose la Preghiera dei soldati alla Vergine SS.
Intese l’amore per il prossimo come apostolato, ma anche come servizio generoso e disinteressato: in questo senso svolse la sua attività di avvocato e il suo impegno di amministratore pubblico, prima come Consigliere provinciale, in un periodo particolarmente difficile della nostra storia. Di lui scriveva Manlio Pompei su “L’Idea Nazionale” del 13 ottobre del 1920: …Questo Conte cattolico e devoto si afferma con le buone opere; mostra di intendere la funzione sociale della ricchezza, raccoglie i figli del popolo in sane istituzioni e li educa; lavora per gli umili e li sovviene e li conforta; incanala per giusta via l’esuberanza dei combattenti suoi cittadini, soddisfacendo così con suo personale sacrificio, dando del suo e persuadendo a dare chi può e deve dare, le sacrosante aspirazioni al lavoro e al benessere di chi salvò il paese.
Dal 1927 al 1932 fu Podestà di Tuscania. La popolazione accolse con entusiasmo la sua nomina ed egli si prodigò come sempre per il bene della sua gente compiendo numerose benefiche realizzazioni. Purtroppo in seguito ad alcune incomprensioni nel 1932 presentò le dimissioni in un manifesto in cui, tra l’altro diceva: Assicuro quei pochi che mi hanno combattuto ad amareggiato, anche se lo fecero per ignoranza o per cattiveria, che non serbo loro alcun rancore; io ignoro l’odio e la vendetta! Anche in quella occasione si riconfermava la sua profonda coerenza di cristiano; nel mettersi da parte continuando però a fare del bene fino alla fine.
Ma è giusto parlare di fine? Egli con la sua fede si direbbe che ha continuato ad essere tra noi, col suo esempio, con la sua attività di apostolato che, attraverso le generazioni è arrivato fino a noi proponendoci un modello di vita che non appartiene al passato, ma che deve seguitare ad essere punto di riferimento nel nostro tempo così distratto da falsi miti, confuso, disorientato e quindi tanto bisognoso di veri autentici esempi di un cristianesimo concretamente vissuto.
La famiglia fu originaria di Roma. Egli nacque a Viterbo il 25 agosto 1875 da Piergiovanni Pocci e Martia Brawndlyngt. Si laureò in legge presso l’Università di Roma nel 1896. Fu ufficiale di complemento di artiglieria, promosso maggiore il 16 settembre 1917.
Divenne cameriere segreto di cappa e spada di Sua Santità dal 4 febbraio 1902, sotto il pontificato di Leone XIII. Verrà riconfermato da tutti i successori. Venne nominato commendatore della corona d’Italia il 29 luglio 1922. Grand’Ufficlale il 22 dicembre 1932. Commendatore di san Gregorio Magno il 2 ottobre 1920. Cavaliere di Gr Croce dell’Ordine di san Silvestro il 12 febbraio 1942. Commendatore della Polonia restituita l’8 novembre 1923.
Fu eletto Consigliere Provinciale per il mandamento di Tuscania nell’ottobre del 1920 ( I cittadini di Arlena e Tessennano lo vollero nominare cittadino onorario)
Risolse in Tuscania e in Arlena le questioni delle terre ai combattenti, inducendo gli altri proprietari e dando egli per primo l’esempio a fare concessioni di favore.
Ha fatto parte del Consiglio Provinciale di Viterbo fino allo scioglimento; dal 1922 fece parte anche della Giunta Provinciale Amministrativa.
Fu Podestà di Tuscania dal 1927 al 1932: al Comune di Tuscania sono note le realizzazioni di questo periodo nel campo dei lavori pubblici e nel campo amministrativo. A quel periodo risale la fondazione del Pio ricovero di san Giuseppe (ospizio dei vecchi) e il dono che come prova del suo affetto per la città volle fare della statua marmorea della Madonna nel giardino antistante l’edificio scolastico di cui aveva provveduto al compimento.
Nel campo della beneficenza è da ricordare anzitutto l’Oratorio san Luigi, da lui fondato nel 1902 e sempre mantenuto a sue spese, in locali suoi.
Dal 1940 fino al 1952 fu presidente dell’Istituto dei ciechi di Sant’Alessio in Roma, fu consigliere e poi Commissario Straordinario dell’Istituzione Umberto e Margherita per gli orfani di operai caduti per infortuni sul lavoro.
In Tuscania avendo poi formato nel periodo in cui resse il Comune l’ospizio delle vecchie lo aiutò sempre largamente di persona e moltissime persone furono da lui beneficiate.
Nel 1922 fu nominato membro del Comitato per il Congresso Eucaristico Internazionale di Roma e presidente della sottocommissione per gli alloggi.
Morì a Roma il 13 aprile 1952 e fu sepolto nella cappella di famiglia nel cimitero di Tuscania.
Vincenzo Campanari

Vincenzo Campanari nacque a Tuscania il 27 luglio 1772 da una famiglia benestante, che si dedicava all’agricoltura, come quasi tutte le famiglie locali di quel tempo. I Campanari non erano tuscanesi; provenivano dalle Marche dietro l’impulso di quel fenomeno che va sotto il nome di transumanza. Dopo un certo numero di anni diversi transumanti marchigiani finivano per stabilirsi in Maremma pur mantenendo contatti, soprattutto nel periodo estivo, con la terra d’origine; è il caso della famiglia di Carlo Campanari (bisnonno del nostro archeologo e poeta) che viveva nella ridente cittadina marchigiana di Fiastra, intorno alla seconda metà del Seicento.
E’ probabile che egli facesse la spola tra Fiastra e Tuscania. Grazie alle ricerche di don Antonio Paranzoni, parroco di San Paolo in Fiastra, si può stabilire che il secondo dei suoi sette figli, Vincenzo (nato il 22 gennaio 1693) ebbe contatti con Tuscania, forse insieme al fratello Nicola ed alle cinque sorelle. Anzi ad un certo punto Vincenzo si trasferì definitivamente a Tuscania dove nel gennaio del 1729 sposò Domenica Conti, una ragazza di Canino; dieci anni dopo nacque Carlo, quarto di cinque figli. Della sua giovinezza non sappiamo nulla; il suo nome compare solo nei Registri dei matrimoni allorché nel 1763 sposò Maddalena Dolci da Vetralla.
Tra gli elenchi degli amministratori comunali Carlo non c’è mai (forse perché morirà alla giovane età di 35 anni) mentre suo padre Vincenzo si interessava alla cosa pubblica; almeno due volte (1762 – 1766) compare tra i consiglieri popolari ( i consiglieri comunali erano divisi in due categorie: cittadini, (nobili locali) e popolari, che non potevano vantare una stirpe locale, per cui non erano iscritti al Patriziato tuscanese). Dal matrimonio di Carlo e Maddalena nacque Vincenzo, il futuro archeologo e poeta. Dei sei figli (tre maschi e tre femmine) Vincenzo fu l’unico maschio a sopravvivere, ma non poté trascorre un’infanzia circondata dall’affetto dei familiari, perché alla sua nascita il nonno Vincenzo era già morto da due anni, mentre il padre Carlo morì (22 luglio 1774) quando il piccolo compiva due anni appena; anche la madre Maddalena scomparve qualche anno dopo.
Fin dai primi anni dell’800 Vincenzo appare tra i consiglieri comunali, sia sotto il governo pontificio, sia sotto la parentesi dell’Impero francese di Napoleone. Tra le pause dell’attività pubblica egli continuava a coltivare indefessamente i suoi studi, scrivendo numerose poesie e due poemetti: La Redenzione e Il sacro Libro di Rut.
Il 18 febbraio 1812 un’altra disgrazia lo colpì negli affetti più cari: morì la moglie Matilde, appena trentaquattrenne.
Oltre agli studi letterari e di archeologia Vincenzo si dedicò personalmente all’educazione dei suoi tre figli. Ricordiamo la buona riuscita di Secondiano, che studiò per sei anni nel seminario di Tuscania, dove insegnava anche suo padre Vincenzo; mandato poi a continuare gli studi all’Università di Roma, Secondiano si laureò e esercitò la professione di avvocato, ma non cessò mai di dedicarsi, sotto la guida paterna, allo studio dell’archeologia e della storia.
Non restò difficile a Vincenzo, anche per l’amicizia con il cardinal Consalvi, inserirsi nell’ambiente culturale romano. Divenne socio di numerose Accademie, alle cui attività partecipava assiduamente presentando relazioni seguite ed apprezzate dagli altri soci. Tanto per ricordarne alcune: fu membro dell’Accademia romana di archeologia, dell’Istituto romano di corrispondenza archeologica, della Società Colombari di Firenze, dell’Accademia Calamense di Napoli e di tante altre. Nell’ambiente romano conobbe certamente il pittore francese Francois Marius Granet che venne in visita a Tuscania. Con il trascorrere degli anni la vera vocazione del Campanari si andava delineando sempre più chiaramente: lo studio intenso dell’archeologia divenne quasi l’unico valore della sua esistenza.
Nel 1825 perlustrava una zona presso il fiume Fiora, poco più a valle del ponte dell’Abbadia: “…a me pareva di sentirmi muovere sotto de’ piedi i nascosti monumenti e le ossa e le urne dei sepolti; quasi che questi si accorgessero del mio talento di turbare il loro riposo. Amena era quella campagna, alte e maestose le ripe del fiume. Deserto e tacito il luogo; io solo, io, di niuna cura accompagnato fuori che quella di scoprire antiche cose, non ho passate più liete ore di quel giorno e degli altri quando vi tornai a meditare.” Quel presentimento doveva divenire presto una realtà, perché sotto quel terreno, che stava calpestando, di lì a poco avrebbe scoperto l’antica Vulci.
Il 25 settembre dello stesso anno chiese al Governo Pontificio l’autorizzazione ufficiale per scavare in quel posto; intanto aveva trovato a Tuscania un sarcofago che mostrava scolpito sul cassone un viaggio all’aldilà di un magistrato tuscanese scortato da un corteo.
Ne fece subito argomento di una pubblicazione intitolata: DELL’URNA CON BASSO RILIEVO ED EPIGRAFE DI ARUNTE FIGLIO DI LARE, che è forse la prima trattazione organica di un sarcofago etrusco. In questo periodo (aprile – giugno 1828) le consecutive assenze dalle riunioni del Consiglio Comunale fanno ipotizzare una lunga permanenza fuori Tuscania, per accelerare il sospirato permesso a scavare nella zona di Vulci, permesso che ottenne appunto nel 1828, dopo tre anni dalla richiesta. Gli scavi e i ritrovamenti dettero a lui un grande prestigio personale: Nel marzo del 1832 da semplice consigliere comunale quale egli era, fu nominato Governatore interinale di Toscanella (il governatorato si estendeva sui territori di Tuscania, Canino, Arlena, Cellere, Tessennano e Piansano); quindi ottenne la carica di Gonfaloniere (corrispondente al nostro Sindaco), che conservò ininterrottamente per cinque anni fino al 1837. Sfogliando i Registri dei verbali del Consiglio Comunale è frequente il caso di trovare stanziamenti di denaro per il restauro e la conservazione dei monumenti artistici di Tuscania, ma è sorprendente constatare come, durante gli anni in cui il Campanari fu Gonfaloniere, numerosissime somme sono erogate a questo scopo.
Gli scavi di Vulci, iniziati nel 1829, portarono alla luce un’ingente quantità di reperti: era stato un investimento di denaro veramente azzeccato per la famiglia Campanari, che provvedeva ad esportare all’estero la cose migliori; si tenga presente che allora lo Stato Pontificio non mostrava un serio interesse a trattenere i reperti archeologici etruschi; anzi proprio verso i reperti etruschi si verificava un disinteresse per il poco valore che si dava alla materia.
La merce era spedita da Vincenzo al figlio più piccolo, Domenico, che si era trasferito definitivamente a Londra ed aveva aperto una bottega d’arte per promuovere negli studiosi la conoscenza dei reperti etruschi ( e negli acquirenti la vendita!).
Intanto a Roma il papa Gregorio XVI, gli artisti e gli archeologi della corte pontificia venivano maturando l’idea di creare un museo etrusco. Per accumulare i reperti archeologici nel 1834 essi presero accordi con il Campanari e i suoi figli, creando una società: tutto ciò che si scavava doveva essere direttamente venduto al Governo Pontificio.
Se i reperti affluivano a Roma certamente Domenico a Londra non stava a guardare con le mani in mano; alla fine del 1835, forse tutti e quattro i Campanari erano riuniti nella capitale britannica per concertare un piano grandioso: una mostra promozionale da realizzare con rigorosi criteri scientifici d’avanguardia.
Vincenzo, dopo un breve rientro in Tuscania, ritornò di nuovo a Londra per dare gli ultimi ritocchi alla mostra che fu allestita in Pall Mall.
Venuto a conoscenza della partenza del Campanari alla volta di Londra, Papa Gregorio XVI decise in tutta fretta di anrticipare le mosse del Campanari e il 15 novembre 1836 ordinò l’immediata realizzazione del museo etrusco, che fu allestito con sorprendente rapidità in meno di tre mesi. I Campanari inaugurarono a Londra la mostra; il museo etrusco fu aperto pochi giorni dopo.
Venduto tutto il materiale della mostra al British Museum di Londra lascio immaginare quale fonte di guadagno inesauribile si aprì da quel momento per i Campanari, che tornati a Tuscania continuarono a far affluire a Londra materiale sempre più numeroso. Si aprirono anche i mercati della Prussia e della Baviera. L’inglese George Dennis, ospite di Carlo Campanari a Tuscania, annotò nel suo famoso volume Le città e le necropoli d’Etruria, che in Germania affluiva solo materiale etrusco di prima qualità, mentre gli inglesi acquistavano coccetti di qualsiasi tipo.
Nel 1839 Vincenzo, scavando a Tuscania in località Carcarello portò alla luce la tomba della famiglia Vipinana: 27 sarcofagi di pietra con coperchio scolpito, molte iscrizioni e vasellame a non finire. Si ripeté l’esperienza di Pall Mall: Vincenzo e figli trasportarono i sarcofagi nel giardino della loro casa ed intesero ricreare l’ambiente dal quale li avevano prelevati: costruirono la copia della tomba scoperta ponendovi all’interno dieci dei sarcofagi rinvenuti, mentre i restanti furono distribuiti in studiato disordine tra la verzura e i pergolati:
Vincenzo Campanari, tornato dall’Inghilterra lasciò l’ufficio di Gonfaloniere, perché divenne consigliere della Delegazione Apostolica di Viterbo.
Rimasto improvvisamente paralizzato si spense poco dopo il 13 giugno 1840, aveva 68 anni. Fu sepolto nella chiesa di Santa Maria del Riposo, dove anche oggi si può leggere l’epigrafe funeraria in latino dettata dal figlio Secondiano.
Mons.Leopardo Venturini
(a cura del prof. Giuseppe Giontella)
Mons. Leopardo Venturini nacque a Tuscania il 17 agosto 1911. Nerl 1923 entrò nel Seminario di Tuscania. Nel 1927 fu mandato a proseguire gli studi liceali e teologici presso il Pontificio Seminario Leoniano di Anagni. Nel 1930 conseguì la laurea in filosofia. Nel 1933 si trasferì presso il Pontificio Seminario Regionale della Quercia, dove terminò gli studi di teologia e venne ordinato sacerdote il 18 marzo 1934 dal vescovo Mons. Emidio Trenta.
Egli seppe dividere con lo stesso zelo la sua vita fra l’insegnamento di filosofia nel Seminario della Quercia (dal 1935 al 1962) e l’attività sociale in Tuscania, Viterbo e Capodimonte.
A Tuscania nel 1947 fu assistente del Centro Italiano femminile (C.I.F.) e contemporaneamente organizzò le prime colonie estive per bambini a Capodimonte e a Tarquinia. Divenuto Delegato regionale delle A.C.L.I., riuscì a mettere insieme a Tuscania una cooperativa di muratori, che costruirono i palazzi di Via Cerasa.
Nel 1951 progettò la creazione di un Istituto a Capodimonte, e pose la prima pietra in un’area che si affaccia sulla riva del lago; ma soltanto nel 1961 Don Leopardo potè realizzare il suo sogno, inaugurando l’Istituto S. Cuore, dove sono passati numerosissimi ragazzi provenienti dalle province laziali e dalle regioni limitrofe.
“Fu un apostolo convinto della devozione al Sacro Cuore –
Di questa provvidenziale opera trovo nella corrispondenza un solo discreto accenno (in una lettera del 20 dicembre 1961) “Non so se hai saputo che, qui a Capodimonte, ho aperto un Collegio per ‘ritardati scolastici’. Speriamo che almeno questa esperienza vada bene (per ora la dirigo personalmente)“. Capodimonte divenne un “fuoco” irradiatore di luce e di calore umanissimo e soprannaturale. Il Signore aveva preso in parola il desiderio e il dono di Don Leopardo, e lo portò davvero sulle “montagne altissime”, ma ve lo portò alla maniera sua, a quella terribile maniera del suo amore, che –
Fu il monte dalla sua trasfigurazione, non gloriosa, ma dolorosa, eppure soffusa di cristiana letizia, che si diffondeva allargandosi come il cerchio dell’onda sul lago antistante. In un momento di sconforto, una volta, gli dissi: fatti animo, vecchio mio, un giorno su questa tua cattedra vale presso Dio più dei trent’anni sulla cattedra di filosofia. Non rispose, non poteva quasi più farsi capire. Ma quei suoi occhioni limpidi e luminosi sfavillarono, ed egli annuì col sorriso più dolce. A quanti lo sappiamo e sentiamo vivo in mezzo a noi non sarà possibile dimenticare la luce di quegli occhi e la dolcezza di quel sorriso. Ed è grande grazia”.
La vita di Don Leopardo fu poema sacerdotale, a cui attinsero numerosi alunni, confratelli, laici. Non cessò di diffondere fede, speranza, amore, anche quando, colpito dalla grave malattia, era costretto a parlare del suo Dio con un filo di voce attraverso un microfono. La sua memoria è rimasta viva tra i suoi colleghi d’insegnamento e tra i suoi numerosi alunni.
Canonico teologo del Capitolo della Cattedrale per molti anni, il vescovo Mons. Adelchi Albanesi lo nominò prima delegato vescovile (nomina del 1° gennaio 1956), poi vicario generale dal 1962.
Il Papa lo insignì del titolo di Cameriere Segreto.
Nel dicembre 1966, ormai gravemente malato, lasciò la direzione dell’Istituto S. Cuore e si ritirò a Tuscania, dove morì a Tuscania il 3 agosto 1967.
Ed ecco dei ricordi, espressi da alcune delle numerosissime persone che l’hanno avvicinato; sono tratte da un volume di poesie di Don Leopardo, pubblicato a cura di Mons. Giovanni Antonazzi, l’anno successivo alla sua morte.
Il Senatore Giulio Andreotti lo ricorda così:
“Egli è vivo nella nostra memoria, non per l’uno o per l’altro incontro che avemmo con lui, ma per molto di più. Certo, il ricordo più lontano — poco dopo la fine della guerra — lo ricollego alla prima visita al Circolo ACLI di Tuscania. Si muoveva con discrezione, ma con intuitiva autorità tra quei lavoratori, tutti intenti ad annaffiare con l’ottimo vino del posto le partite a carte nell’accogliente Circolo. Mi fece, in mezzo a quei tavoli chiassosi, l’impressione di un gigante buono ed è stata una sensazione che ho rivissuto tutte le volte che l’ho avvicinato. Si può dire, senza indulgere minimamente a retorica, che man mano che le forze fisiche lo abbandonavano –
Mons. Primo Gasbarri, vescovo di Grosseto, collega d’insegnamento al Seminario della Quercia, lo ricorda allegro e chiassoso nell’appartamento riservato ai docenti:
“Non ho bisogno di avvertire chi conobbe da vicino don Leopardo che, se egli fu filosofo, non fu, per questo, fuori della realtà e della concretezza, astratto, nascosto dentro il suo pensiero. Era invece comunicativo, entusiasta, lietamente chiassoso a volte. Il corridoio dell’appartamento, ove abitavano i professori del seminario regionale, risuonò dei canti e delle esplosioni erompenti dall’anima di don Leopardo, portatore di serenità e di letizia nella cerchia dei colleghi. Chi lo avvicinava era conquistato da lui. La sua parola era illuminata dallo splendore degli occhi intelligenti e vivi, piacevole e condita di facezie argute. Soprattutto sentiva profondamente l’amicizia. Oltre che maestro, fu amico dei suoi alunni, e non soltanto di essi, di un’amicizia fedele, disinteressata, prodiga dei tesori della sua intelligenza e del suo cuore. La speculazione filosofica lo aveva lasciato sacerdote; tutto in lui era in funzione del suo sacerdozio e della missione sacerdotale. Senza questo riferimento non potrebbe comprendersi appieno il magistero di don Leopardo nella scuola, nell’apostolato, nella lunga malattia, nella morte. Il filosofo, nella piena libertà della ricerca, può essere, senza limitazioni e compromessi, come fu don Leopardo, vero maestro e autentico sacerdote“.
Mons. Francesco Zarletti, suo alunno, poi professore di lettere al ginnasio del Seminario, lo ricorda così:
“Di Don Leopardo, professore di filosofia, ricordo soprattutto il sorriso; un sorriso buono, quasi materno: quello che viene sulle labbra, quando si sanno tante cose, quando soprattutto si è arrivati a sapere che cosa è la vita. Noi alunni lo sentivamo questo, e l’animo non poteva fare a meno di confidarsi e rifugiarsi in lui. Non ci dava appena delle cognizioni. Ci dava il cuore: un cuore che l’intelligenza viva, il sofferto pensiero, la preghiera umile ed assidua rendevano squisitamente sensibile ed aperto a ogni umana comprensione. Era la sua, vorrei dire, non una filosofia di andata, ma di ritorno, ritorno sempre caro ed atteso, che ci portava in dono le verità ultime e definitive della vita: amare il Signore ed essere buoni. Lo ricordo poi disteso sul suo seggiolone, dove la malattia lo aveva inchiodato come in croce. Non poteva compiere il benché minimo movimento. Negli ultimi mesi nemmeno a parlare riusciva. Ma a sorridere sì. Il sorriso gli era rimasto uguale. E quel sorriso, fatto di pianto per sé, di bontà per gli altri, di fede e di offerta per il Signore, io l’ho come il suo testamento: quello veramente ultimo, che si fa in silenzio, quando tutte le parole sono state dette“.
Mons. Rodomonte Galligani, collega nell’insegnamento, quando morì l’amico Don Leopardo, gli dedicò un bellissimo carme (dove lo chiama “Maestro”). Riportiamo soltanto la strofa finale:
Pensavi, Maestro, che in una bellissima notte,
trapunta di stelle, ondeggianti sul lago increspato,
leggera leggera su te si posasse una mano
e a te ridonasse le forze e l’antica virtù.
Attesa fallace ed inganno. E tu invano pregasti
che sulle tue carni dolenti scendesse un sollievo,
o soffio di vento, che a te temperasse l’arsura.
Il seme opulento marciva. E morì tra le zolle,
ma proprio dal morto frumento spuntava il frumento,
in esili piante che il vento scuoteva e piegava;
ed ecco la messe ondeggiare e tinnire nel maggio,
e il duro cipresso si cambia nel tiglio odoroso.
Sei morto, Maestro. Ma quanto sei vivo nei cuori!
La fede dapprima lottata, poi lieta e serena;
la fine prevista, accettata con salda coscienza;
e il calice pieno di amaro, amarissimo vino,
bevuto ogni giorno, non sorso per sorso, ma a stille,
che spinta, che grazia per me, così pigro e indolente;
che scossa; che invito a portar la mia croce e adorare!
Così fu per me, così fu per cento, per mille:
è questa la turgida mèsse che il seme portò.
Alarico Santi

Fu il primo fotografo di Tuscania. Prima di lui il fotografo veniva da fuori e da tutti era chiamato “il ritrattore”. Era circa il 1920 e già allora era stato creato a Tuscania il Circoletto, l’Oratorio San Luigi, voluto dal Conte Pocci. In quel circoletto, un gran sacerdote, don Leonardo Arieti, insegnava ai giovani un po’ di tutto e al giovane Alarico insegnò l’arte della fotografia. Così dopo un po’ di tempo il nostro Alarico impiantò in Tuscania, in Via del Giardino, il suo primo studio fotografico. C’era allora un giornalino locale, “Fiammetta” e Alarico ci si reclamizzava così: Si garantisce la perfetta somiglianza dei soggetti”. Ma le prime foto lasciarono molto a desiderare; si racconta che consegnando le foto ad un giovane barbiere nel suo negozio, il giovane le gettò in mezzo alla strada dicendo: Se qualcuno, vedendole per terra, mi riconosce e me le riporta, te le pago.
Con il tempo Alarico diventò un grande artista, tanto che andava sempre dicendo, con il suo difetto di pronuncia: Le mie foto sono altisticamente altistiche. Alarico era una persona seria, ma portava con sé anche tanto umorismo; vestiva di scuro, portava un grande cappello nero sopra lunghissimi capelli, al posto della cravatta aveva un grande fiocco scuro; era, d’inverno, avvolto costantemente in un grande mantello e con il suo naso sempre rosso si distingueva nella massa. Tuscania gli deve tanto; non c’è casa dove non ci siano foto di scolaresche, di comunioni, di matrimoni e di altre manifestazioni come quelle del regime fascista. Con la sua “arte” Alarico ha immortalato più di quaranta anni di storia tuscanese.
Riccardo Valentini
Il Prof. Riccardo Valentini è il Responsabile della Divisione Impatti sull’Agricoltura, Foreste ed Ecosistemi Naturali Terrestri (IAFENT).
Si è laureato in Fisica nel 1985, nel 1987 è diventato Ricercatore presso Università della Tuscia. Nel periodo 1990-
Dal 2000 è Professore ordinario presso l’Università degli Studi della Tuscia (Dipartimento di Scienze dell’Ambiente Forestale e delle sue Risorse). Nel 2002 è diventato Direttore del Dipartimento di scienze dell’Ambiente Forestale e delle sue Risorse.
L’attività di ricerca del Prof. Riccardo Valentini riguarda una serie di temi principalmente nel settore della Ecologia, delle foreste e delle problematiche connesse con l’attuazione delle convenzioni internazionali per la protezione dell’ambiente globale. Il Prof. Valentini è stato il pioniere delle ricerche che hanno riguardato il ruolo delle foreste nei cambiamenti climatici e l’effetto serra. Il suo gruppo di ricerca negli anni 90’ ha sviluppato una tecnologia nuova per la misura della quantità di anidride carbonica che viene catturata dalle foreste. Questa tecnologia è oggi utilizzata in più di 200 stazioni di misura nel mondo ed è considerata ormai uno standard per il monitoraggio ambientale.
Le sue ricerche pubblicate su riviste scientifiche internazionali di grande prestigio come Science e Nature hanno mostrato come le foreste siano importanti elementi di cattura dei gas serra inquinanti, come l’anidride carbonica, e come le politiche di gestione e miglioramento delle foreste possono portare un contributo positivo a mitigare il riscaldamento climatico.
Il suo gruppo di ricerca è costituito da circa 20 giovani ricercatori formatisi presso l’Università della Tuscia sia in Scienze Agrarie, Forestali e in Scienze Ambientali che oggi svolgono attività di ricerca in molti progetti internazionali in Europa ed in paesi extra –Europei come Brasile, Argentina, Cina, Algeria, Albania e India. I suoi studenti hanno partecipato a spedizioni scientifiche di grande rilievo internazionale in Siberia, Himalaya ed Amazzonia.
E’ stato coordinatore dei seguenti pogetti Europei: CEE CARBOEUROFLUX ” An Investigation on Carbon and Energy Exchanges of terrestrial ecosystems in Europe”, CARBODATA ” Carbon balance estimates and resource management – support with data from project networks implemented at European continental scale” e della Concerted Action CARBOEUROPE GHG “Synthesis of the European greenhouse gases budget”.
E’ stato inoltre responsabile di unità operativa in vari progetti Europei: LBA-
E’ attualmente coordinatore del progetto STREP “CarboAfrica” e membro dell’exectuive board del progetto integrato “CarboEurope”.
L’attività del Prof. Valentini inoltre si è indirizzata alle questioni di poltiche ambientale globale e sviluppo sostenibile. Fa parte degli esperti del Ministero dell’Ambiente e Territorio per la negoziazione del Protocollo di Kyoto. E’ nominato dal 2000 come esperto dell’IPCC (Intergovernmental Panel on Climate Change). Nel 2004 le Nazioni Unite affidano al Prof. Valentini l’incarico di Presidente del Comitato Scienza e Tecnologia della convenzione ONU per la lotta alla desertificazione. Nell’ambito di questa convenzione ha promosso molti progetti di cooperazione con i Paesi in via di sviluppo e con l’Africa.
Ulteriori riconoscimenti del prof. Valentini sono l’incarico di presidente della commissione del CNR per i Cambiamenti Globali, membro del comitato scientifico del Max Plank Insitute di Biogeochimica (Jena, Germania), del Centre for Terrestrial Carbon Dynamics (Sheffield, UK), del consiglio di ammnistrazione del Centro Euromediterraneo di Simulazione del Clima e presidente presso la FAO del Panel TCO (Terrestrial Carbon Observation) del programma GTOS.
E’ autore inoltre di più di 170 pubblicazioni di cui 90 su riviste internazionali.
Veriano Luchetti

Nato a Tuscania, ha debuttato al Teatro Sperimentale di Spoleto. Subito scritturato dal Teatro La Fenice, si è esibito in tutti i grandi teatri italiani e del mondo: Arena di Verona, Maggio Musicale Fiorentino, Scala (compresa l’inaugurazione del bicentenario con Simon Boccanegra –
(intervista a Veriano su Città Nostra del dicembre 1980).
Villaggio residenziale di Colle Romano, presso Riano Flaminio a due passi da Roma. Il robusto cancello di rovere, unico fornice di una bassa cintura di mattoni intonacati di bianco, si apre quel tanto per consentire al cameriere-
“Il signor Luchetti mi aspetta”.
E’ una parola d’ordine che fa effetto. Attraverso velocemente il pratino all’inglese e mi trovo subito accovacciato nella comoda poltrona dello studio. Il grande camino profuma ancora di legna bruciata; l’avorio della tastiera del piano a semicoda è un invito per le morbide carezze di due mani vellutate; alle pareti c’è anche un Cesetti con i suoi cavalli nervosi e colorati. La libreria è un inno al bel canto: monografie di Verdi, Mascagni, Giordano, Cilea, Wagner, Puccini…; libretti di opere di ogni formato, enciclopedie della musica, saggi critici, alcuni volumi di Tuscania.
Pregevoli pezzi di antiquariato un po’ ovunque; in bella mostra c’è un giradischi professionale con casse armoniche dislocate nell’adiacente salotto illuminato dal cristallo di un tavolo basso e affusolato dove sono adagiate, con ordinata confusione, le variopinte custodie di trentatré giri dai titoli più melodiosi: Butterflay, Otello, Forza del destino, Rigoletto, Aida, Boheme, Fedora, Carmen…
Il padrone di casa fa un’entrata alla Cavaradossi; per poco non mi chiede i colori ed ha in mano una bottiglia gelata di bianco EST, EST, EST, la sua marca preferita.
Indossa una vestaglia di seta blu notte che rende la sua figura ancor più snella e aitante.
Veriano Luchetti, nativo di Tuscania, nel cuore della Maremma viterbese, 42 anni, tenore lirico, sposato con soprano, padre di due figli: Francesco e Laura, volto barbuto, capienza dei polmoni ottima, voce cristallina.
La critica lo colloca tra i migliori del momento insieme a Placido Domingo, Pavarotti e Carreras.
Ha cominciato a cantare a cinque anni. Si chiudeva nel bagno un po’ per ascoltare meglio le vibrazioni della sua voce, un po’ per sfuggire alla noiosa curiosità dei compagni che lo chiamavano Paperino, in quanto era piuttosto basso e grassottello. Suo padre, Giustino, proprietario di un molino a grano e di un frantoio, alla testa di una famiglia numerosa, è stato il suo primo ammiratore.
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Avevo una voce baritonale che la maestra Di Veroli, che in seguito frequentai metodicamente due volte la settimana nel suo studio romano, mi impostò su timbri tenorili. Dopo il servizio militare decisi di iscrivermi nel 1963 al Concorso Voci Nuove di Spoleto. Risultai fra i migliori e mi toccò subito la parte del Conte Loris nella Fedora di Giordano. La critica fu favorevole. Incominciò così la mia carriera. Avrei voluto che mio padre fosse stato in platea per ringraziarlo e ripagarlo dei sacrifici che aveva fatto per farmi studiare.
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La nostra intervista con Veriano Luchetti finisce qui.
Abbiamo incontrato un uomo semplice e leale, un artista serio e professionalmente preparato, un grande tenore lirico, un marito onesto e un padre felice.
L’occhialino
(di Alfredo Stendardi)
Faceva di cognome Onofri, discendeva da una nobile famiglia, aveva un fratello sacerdote. Portava due occhiali con le lenti tanto spesse che sembravano due fondi di bicchieri. Era una persona alta, dai capelli lunghi; il suo portamento era austero, con tanto di bastone e vestiva sempre di scuro. Aveva studiato, ma non aveva mai preso un diploma e si adattava a fare quello che oggi si dice un commercialista. In un tempo in cui molta gente era analfabeta scriveva lettere, domande e faceva discorsi.
E memorabili sono stati i suoi discorsi al cimitero: lui si accodava sempre ai funerali e quando la bara si fermava davanti all’ingresso del Camposanto, qualche familiare gli si avvicinava e gli diceva se voleva dire due parole; allora l’Occhialino rispondeva: “Volete un discorso da cinque, da dieci o da quindici lire?” – Con cinque lire il trapassato poteva raggiungere il purgatorio; con dieci era un’anima per il paradiso; con quindici poi, anche se aveva condotto una vita scellerata diventava un uomo probo, onesto, morigerato, grande padre di famiglia e, se aveva fatto la guerra del 15-
E mentre i familiari si struggevano in lacrime, il trapassato, nella bara, si sbudellava dalle risa a sentire tutte quelle fregnacce. Il nostro Occhialino era anche un accanito giocatore di carte, frequentatore allora del Bar Nardi, in piazza San Marco e aveva spesso come avversario il cavalier Marcoaldi, cavaliere con tanto di croce, detto Perazzolone, per la sua bassa statura e per la sua obesità.
Una volta, avendo perduto diverse partite a carte con il cavaliere, fu oggetto di salate invettive. Allora l’Occhialino rispose: –
Giovanni Quarantotti
Nel 1923 venne fondata la Società Sportiva Tuscania. L’idea di fondare questa società nacque nella testa del sor Giovanni, che, riunitosi con alcuni amici nella sua barbieria, affumicati dal suo immancabile e puzzolente sigaro, tra colpi di tosse e lacrime agli occhi, diedero il via a questo sodalizio.
Giovanni Quarantotti si può ricordare come un uomo con una spiccata personalità e competenza nell’ambito calcistico, tanto è vero che tutti i tecnici che sedettero sulla panchina del Tuscania di allora, prima di ingaggiare un calciatore sentivano la necessità di chiedere la sua consulenza. Non per nulla venne soprannominato Rangone, famoso commissario tecnico della nazionale di quei tempi. Il sor Giovanni fu corrispondente da Tuscania della prima testata giornalistica sportiva italiana La Gazzetta delle Sport, dalla quale gli emigranti tuscanesi residenti a Milano potevano seguire le grandi vittorie che allora conseguivano i bianconeri.
A proposito di bianconeri più volte ci siamo domandati perché per il Tuscania furono scelti questi colori sociali. La risposta che veniva data era sempre la stessa: perché Giovanni Quarantotti era tifoso della Juventus. Niente di più falso! Il sor Giovanni era un accanito tifoso dell’Ambrosiana del mitico Peppino Meazza.
Piero Pantalfini

Ricordi, Piero, che funerale imponente i tuscanesi ti hanno tributato? Non vi hanno partecipato per convenienza, per dovere o per opportunismo, ma per amore. Amore è stato quello dei sacerdoti e della Giunta Comunale, che hanno voluto partecipare la tua morte e tutta la popolazione; per amore erano presenti tutte le classi sociali di Tuscania. Anche quelli che non vanno mai in chiesa erano accorsi iniziando a battere le mani alla fine di una predica che magistralmente ti aveva disegnato.
La schola cantorum ti ha accompagnato con le sue melodie all’ultima dimora, melodie che avrai certamente apprezzato, capace come eri, solo tu, di ricavare ancor più belle melodie dalle campane delle chiese della nostra Tuscania. Una solo cosa non ho capito: perché ti hanno portato in una chiesa dove non hai mai potuto esercitare la tua arte di campanaro.
Sciocchezze – tu dirai –
La coscienza collettiva si è svegliata solo alla tua morte, triste come tutta la tua vita. Ora che gli angeli ti hanno portato in paradiso, ora che le braccia amorose del Padre ti hanno accolto dandoti quella gioia e quella pace che non hai avuto in terra, ti prego suona per noi quelle campane che hai tanto amato per svegliarci dal nostro egoismo, perché non si verifichi più che la nostra comunità, che si dice cristiana, abbandoni a se stessi gli ultimi, i poveri, gli ammalati, i soli. Per primo suona l’accenno, ma se dovessimo far finta di niente suona a distesa, perché non ci siano più alibi per noi. Quando morirò e spero che il Padre mi chiami a gioire con lui per l’eternità vienimi incontro e portami presso quelle campane che mi insegnasti a suonare da chierichetto; fammi questo favore, mi sentirò onorato e felice.
Silvestro Perosini
Io mi chiamo Silvestro Perosini
Nativo son di Toscanella
Mi son partito da quelli confini
Per venirti a trovar Lumiera bella.
Io non voglio né oro né zecchini
Fate la carità a sta poverella.
Io non voglio né oro né argento
Solo che di due soldi mi accontento.
Ma chi vuol dare due soldi a chi lo crede
Non le buttate in terra che non vede.
(Indicando la moglie cieca che girava con il poattino)
Questa ottava rima fu cantata da Silvestro Perosini al mercato di Allumiere in data sconosciuta e ci è stata tramandata grazie alla testimonianza anonima di un anziano tuscanese.
Ultimo di quattro figli, Silvestro nacque a Tuscania il 10 maggio 1828. Di professione bottegaio, divenne famoso presso la comunità cittadina per le sue spiccate doti di cantastorie e di poeta popolare. Amava esibire il suo virtuosismo per la parola, specialmente in occasione di fiere e mercati, improvvisando soprattutto ottave rime.
Purtroppo la caratteristica della letteratura orale e nel caso di Perosini della poesia estemporanea non ci permette di possedere testi scritti. Il nostro vate, che si era dedicato alla poesia per arrotondare i magri guadagni della vendita ambulante, riuscì nel corso degli anni a raffinare le conoscenze letterarie e storiche sfruttando la tradizione orale.
Problemi economici e familiari, la cecità della moglie Caterina Benedetti, lo fecero avvicinare solo in età avanzata verso la composizione poetica scritta.
Egli è autore di un poemetto di 125 ottave suddiviso in quattro canti, intitolato: La devastazione dell’antica Tuscania da parte di Carlo VIII, re di Francia, stampato dalla tipografia Donati a Viterbo nel 1890.
Anche se presenta alcune piccole imprecisioni, l’opera riproduce in maniera limpida e ammirevole le concitate fasi del saccheggio di Tuscania avvenuto il 7 giugno 1495 da parte del contingente delle truppe francesi guidate da Matteo di Botheau, meglio noto con il soprannome di Gran Bastardo.
L’autore ha voluto raccontare non a caso uno dei momenti più tristi della nostra storia per poi sottolineare ed elogiare l’intraprendenza dei tuscanesi nel risollevarsi e nel superare le sventure.. Non ebbe in seguito tempo e modo di comporre e far stampare altri componimenti; si spense a Tuscania in via della Rocca il 6 luglio 1897.
Nell’immediato secondo dopoguerra l’amministrazione comunale, su proposta di un gruppo di poeti a braccio, decise di dedicargli una via.
Orazio di Toscanella
Di nobile e antica famiglia; fu insegnante di Humanae litterae a Venezia. Volgarizzò l’Elucidario poetico di Ermanno Torrentino, volgarizzò la Rettorica di Cicerone e scrisse molte opere per l’insegnamento dei fanciulli.
Paolo de Ludovicis
Avvocato concistoriale che nella festa dell’Ascensione del 16 maggio 1482, nella basilica di San Pietro in Roma homeliam peroravit venerandus pater Paulus Toscanella ex ordine iudicum Rotae palatinae, vir integerrimae familiae et summae auctoritatis apud omnes curiales. Si evince quanto detto anche da una lapide che si trova nella chiesa di Sant’Agostino, nell’architrave della cappella di San Giobbe, eretta da Paolo de Ludovicis.
Angelo Frigo
Fino al 1902 le vie di Tuscania erano illuminate dai lampioni a petrolio che un addetto del Comune accendeva al tramonto e spegneva la mattina all’alba. Nelle case si faceva luce con le candele, con qualche lume a petrolio o con i lumini alimentati dall’olio di oliva. Ma poi arrivò la luce elettrica.
Passando per Tuscania un ingegnere delle Ferrovie dello Stato, Angelo Frigo, persona del Nord, alta, imponente, vero signore, notò che il fiume Marta, dove c’è ora la cartiera Fornai, aveva una forte pendenza. Intuì allora che con apposita canalizzazione si poteva formare una cascatella e così a destra del ponte costruì una casetta, vi impiantò un modesto generatore e produsse la corrente elettrica.
La prima luce arrivò a Tuscania e illuminò le strade con non più di venti lampioni; in seguito si poté avere la corrente anche nelle case: i più fortunati possedevano una lampadina di 50 Watt che con uno speciale commutatore si poteva spartire anche in altre stanze. La corrente arrivava nelle case al tramonto per essere poi tolta all’alba perché doveva essere utilizzata da qualche laboratorio che stava già sorgendo in città, come il molino di Lucchetti e Mencarani. Grazie così a questo ingegnere che si accasò a Tuscania, avendo sposato una donna di questa cittadina, il nostro paese fu uno dei primi dell’Italia ad avere la corrente elettrica.
Don Leonardo Arieti
Don Leonardo è stato un’autentica guida, un maestro senza pretese dottrinarie, ma ricco di soprannaturale ed umana sapienza, un testimone di Dio e di Cristo niente affatto gratuito ed intemperante, ma pronto e discreto nei momenti più bui e smarriti della vita di ognuno.
Credo che non bisognerebbe aggiungere altro per delineare la figura e l’opera di don Leonardo Arieti, tanto queste poche righe, stilate da un sacerdote tuscanese, hanno bene centrato la personalità e l’attività di uno che ha speso per l’educazione dei giovani di Tuscania tutta una vita.
Ormai credo che non ci siano più gli uomini che lo hanno conosciuto e che lo hanno avuto come maestro, come direttore. I giovani lo hanno conosciuto solo dalla voce dei loro padri o dei loro nonni, dai quali hanno ricevuto quei principi morali e umani che sono stati il tessuto della loro educazione.
Era sempre attivo, vigile al Circoletto a dare a tutti i suoi talenti, notevoli in ogni campo: dalla musica alla filodrammatica, dalla chimica alle scienze più varie, silenzioso e vigile nel seguire i suoi giovani.
Pittore di squisito e delicato senso artistico, di profonda dottrina in tutte le scienze esatte, riparatore di tanti guai, nel chiuso del suo studio appariva come un altro Leonardo, pieno di ingegno e di bontà.
Poi la vecchiaia, una lunga, nascosta vecchiaia.
Si sentiva parlare di lui, ma rare volte lo si vedeva in giro, eppure tutti parlavano di lui con rispetto e con una sorta di venerazione.
Solo il terremoto lo ha allontanato dalla sua città: esule se ne è andato da Tuscania per non tornarvi più.
Rimane a Tuscania la tristezza delle cose belle perdute, delle istituzioni e delle tradizioni scomparse: come tutte le cose trascorse, però, il ricordo di don Leonardo rimarrà vivo, sarà il bagaglio che i tuscanesi porteranno con sé, come forza che aiuta a vivere nei momento tristi e dolorosi della vita.
Copone Caio Crescenzo
Nell’epigrafe funeraria, che si trova nel Corpus inscriptionum latinorum, si legge che egli ricoprì, nel governo della città di Tuscania, la carica di decurione, ed inoltre che fu vessillifero nella XIV legione Gemina durante la leva militare svolta ai confini settentrionali dell’allora nascente impero romano, probabilmente sul fiume del Reno o del Danubio.
Il nostro concittadino era dunque aggregato ad una delle più prestigiose legioni di tutto l’esercito romano. La XIV Gemina ebbe infatti il compito di vigilare sul confine germanico in uno dei punti nevralgici spesso sollecitato dalle bellicose tribù dei germani.
Terminata la leva Copone tornò a Tuscania dove, fra gli agi e gli ozi propri del ricco latifondista ebbe modo di scalare i vertici del potere locale divenendo uno stimato decurione per poi trovare l’eterno riposo in una tomba situata sul colle di San Pietro, dove è stata trovata la sua lapide.
Andrea Cenci
Podestà di Tuscania nel 1230. Era un tecnico del mestiere, perché aveva esercitato la carica di podestà a Todi, nel 1226 e suo padre, Roffredo, nel 1188 era un influente personaggio nell’attività giudiziaria del Campidoglio.
Appoggiandosi ai nobili locali, Andreotto di Griffulo, Bonfiglio del Lavoratore e il giudice Lituardo, cercò di fare uscire i Tuscanesi dal loro isolamento interessandosi ai commerci ed orientandoli verso il mare. Fin dalla antichità i Tuscanesi avevano uno sbocco sul mare nel porto delle Murelle, presso il Castello di Montalto, ma negli ultimi tempi, dediti più all’agricoltura che ai commerci, avevano trascurato l’uso del porto. Andrea Cenci, comprendendo l’importanza di tale diritto, si adoperò a rispolverarlo stipulando un trattato con i Montaltesi.
L’atto, sancito il 29 luglio 1230, rappresenta l’ultima fase di intense trattative per la regolamentazione minuziosa sulle operazioni di sbarco ed imbarco delle merci dei Tuscanesi, Ma si trattò anche di un buon colpo per il prestigio della città, perché i Montaltesi dovettero giurare di fornire aiuto militare a Tuscania contro eventuali attacchi nemici.
Non meno risoluto egli si rivelò nello svolgere la sua funzione di giudice: abbiamo un atto giudiziario (2 agosto 1230) rivolto contro l’abate di San Salvatore del Monte Amiata, che aveva arrecato dei danni nelle terre di Paolo Romei, un nobile tuscanese. Dal tono dell’ordine rivolto all’abate, per effettuare subito il risarcimento, si comprende il carattere e la decisione nell’espletamento dei doveri inerenti il suo ufficio di podestà.
La politica di Andrea Cenci approdò certamente a risultati positivi, perché negli anni seguenti non si riscontra l’eco di guerricciole che abbiano in qualche modo coinvolto Tuscania. Anzi i nobili locali intesero continuare su tale politica e cercarono alleanze anche nell’entroterra.
La Ciaffa
(da un racconto di Franco Rosati)
La guerra era ormai finita. I superstiti tornavano a casa, alcune donne si vestirono di nero, un medaglione appeso al collo con la foto del marito che non sarebbe più tornato. Qualche residuo bellico, per fortuna sempre più raro, purtroppo però a volte falciava giovani e quando andava bene strappava loro gambe e braccia e peggio ancora la vista. L’anno dopo la fine della guerra iniziai le scuole medie, chissà perché, da semplice studentello, mi sentivo importante, forse perché fra i tanti ragazzi eravamo in pochi a fare le superiori, in maggioranza infatti erano ragazze. Al tempo mi servivo da un barbiere, dove c’era un ragazzo, poco più grande di me, che generalmente mi tagliava i capelli.
Un giorno entrai nel negozio e non lo vidi, chiesi spiegazioni al principale e alla sua risposta rimasi incredulo, mi sentii male, non potevo accettare che anche lui era morto per una mina. C’era tra noi una simpatica amicizia e provavo disperazione per non averlo saputo in tempo, almeno per andarlo a salutare per l’ultima volta. Cambiai barbiere e vivendo la prima adolescenza, dimenticai. A scuola feci nuove amicizie; ero felice quando arrivava l’ora del disegno, anch’io ora possedevo l’album per disegnare.
Ricordo, quando in quinta elementare, il dispiacere, se non l’invidia, quando gli altri ragazzi, figli di piccoli benestanti, portavano album straordinariamente enormi, ma sui quali non sapevano disegnare.
Una volta il maestro disse di fare un disegno a piacere, non avevo nemmeno i colori, cosa potevo fare? Sfogliai il libro, vidi un ermellino graziosamente sdraiato sopra un ramo d’albero, allora senza perdermi d’animo lo ritrassi con la penna sopra un foglio di quaderno a righe, poi gli disegnai intorno una cornicetta, infine, da un vicino di banco mi feci prestare le forbicine, lo ritagliai e lo consegnai al maestro. L’insegnante ne fu entusiasta ed oltre a darmi un bel voto, mi chiese se poteva portarselo a casa, quale suo ricordo. Fu per me la rivincita dello sfollato dalle poche possibilità sul benessere dei ragazzi del luogo.
Quel maestro lo ritrovai in terza media. Era un professore di lettere, aveva fatto il maestro per necessità, capii così il perché mi chiese quel disegnino. Superai facilmente le medie. Quello fu un periodo molto strano in paese, c’erano fra anziani e giovani, che oggi si chiamerebbero invalidi civili, delle persone che facilmente venivano quasi sconosciute e abbandonate dagli stessi familiari perché si vergognavano delle loro possibilità. Fra quei poveretti ce n’era uno chiamato la Ciaffa.
Non capisco il perché lo deridessero. Non era quello che oggi chiamano subnormale, era invece una persona per me normale, certo non aveva nessuna cultura e professione, purtroppo per lui, aveva un viso un po’ buffo e viveva arrangiandosi con lavoretti di ogni tipo e per chiunque.
Comunque quello fu un periodo strano, perché molti avevano apparizioni di santi, di Madonne e qualcuno anche del Diavolo. In questo contesto, presso un vicino paese (Marta) dentro una grotta, un uomo ebbe, almeno secondo lui, l’apparizione della Santa Vergine. Immediatamente quel luogo divenne meta di pellegrinaggi per una moltitudine di persone. Anche nel paese dove abitavo c’era una bella ragazza che poco creduta, diceva di vedere la Madonna. Molti viaggi venivano organizzati per andare a visitare la grotta dell’apparizione, ovviamente i viaggi si facevano in camion, proprio per mancanza di pullman. Anche mia madre volle fare il suo pellegrinaggio e poiché mio padre lavorava toccò a me accompagnarla.
Per la numerosa folla, fummo costretti ad una lunghissima ed estenuante attesa per di più sotto un sole per niente primaverile. Raggiungemmo finalmente la sbarra che permetteva solo a piccoli gruppi di fedeli di entrare in quella grotta. Una volta all’interno tutti ci inginocchiammo, chiusero la porta d’ingresso e rimanemmo al buio, quindi iniziarono a pregare. Con noi c’era anche quella ragazza che diceva di vedere la Madonna. Dopo alcuni minuti un grido interruppe la preghiera: quella ragazza, inginocchiata proprio dietro mia madre, urlò che la Madonna era lì di fronte a lei. Ci fu un momento di grave tensione, mia madre, pensando che la Vergine le fosse sopra, per paura mi abbracciò così forte quasi da soffocarmi. Qualcuno prontamente aprì la porta e tornata la luce, tutti potemmo vedere quella ragazza sdraiata a terra svenuta.
Fu portata fuori dove ben presto riprese, più tardi ripartimmo; certo l’impressione fu grande e in particolare per me, appena quattordicenne. Era già buio, quando il giorno dopo passando accanto ad una automobile, in un punto ben nascosto, notai, con mia grande sorpresa quella ragazza che si sbaciucchiava con un giovanotto. Pensai che san Tommaso forse aveva ragione e da quel giorno la mia fiducia negli altri, avanzando con l’età, è venuta sempre meno.
Arrivò così l’autunno e la custode dell’oratorio dove abitavo, chiese a me e a mia sorella se la accompagnavamo al cimitero per aiutarla a mettere in ordine la tomba del povero marito.
Questo per l’approssimarsi della ricorrenza dei defunti, il 2 novembre.
La signora e mia sorella ripulirono la tomba dalle erbacce che nel frattempo erano cresciute all’intorno, lavarono il vaso di vetro, dove metteva i fiori, invece a me spettò di riverniciare la catenella che contornava la tomba, i paletti che ai quattro lati la sostenevano e poi il portavasi in metallo. A quel punto la signora mi chiese, conoscendo le mie qualità nel disegno, se le verniciavo di nero anche le scritte ad incavo della lapide. Avevo da poco incominciato, cercando di non fare sbaffature quando da una tomba vicina sentii qualcuno parlarmi. Mi girai e vidi quel piccolo uomo, detto la Ciaffa, che sorridendomi in modo cordiale mi diceva: “A giovinò che fai? Me voi levà el lavoro?” Lo guardai un po’ sorpreso, non sapevo cosa dirgli ma il suo atteggiamento cordiale e una risatella scherzosa, mi dettero il coraggio di rassicurarlo.
Gli spiegai che ero lì solo per dare una mano e niente più alla signora, e che non mi sarei mai permesso di togliergli il lavoro.
La Ciaffa mi fece un altro sorriso e continuò a sistemare un’altra tomba. Poco dopo con la signora e mia sorella lasciammo il cimitero, ma ancora la Ciaffa mi fece ciao con la mano. Questo fu l’unico momento di contatto che ebbi con la Ciaffa. Chissà quale era il suo vero nome? Lo vedevo per il paese abbastanza spesso, ma non ci fu più occasione di parlargli.
Passò così un altro anno, nel frattempo io avevo preso a lavorare presso un laboratorio di analisi cliniche che mi occupava molte ore; nel tempo libero andavo a lezioni private di francese, e come tutti i ragazzi, a giocare a pallone. Un pomeriggio però vidi moltissima gente affacciata alla balconata della piazza comunale; incuriosito mi avvicinai e la parola che correva di bocca in bocca era: la Ciaffa, la Ciaffa.
Impressionato volli vederci chiaro, con la bici raggiunsi il punto dove tutti guardavano, guardai anch’io e vidi un corpo sotto ad una coperta.
C’erano i carabinieri che non facevano avvicinare nessuno, lasciai la bici da un lato della strada e raggiunsi un milite che già conoscevo, chiedendogli che cosa fosse accaduto. Fu lapidaria la sua risposta: s’è ammazzato la Ciaffa. Ci rimasi male, ma purtroppo confermava la prima impressione avuta tra la gente. Stavano solo aspettando il medico per il verbale del decesso, se avvenuto per suicidio o se, in altro caso dar modo ai carabinieri per aprire un’inchiesta per avvenuto omicidio.
Poveretto, cosa era stato a spingerlo a tale gesto? Forse la solitudine, l’impossibilità di sostenersi, non avendo un lavoro fisso, oppure una malattia. Chi può mai capire un simile gesto? Più tardi lo portarono via, se ne andava un’altra persona innocua e chissà quante persone malvagie vivono magari nei lussi più sfrenati. Pensando a questo risalii sulla mia inseparabile bici e tornai alle mie occupazioni.
Come è strana la nostra vita, donata da qualcuno lassù. Che è sempre definito misericordioso.
Il giorno dopo nessuno più parlava di lui, ma dopo all’incirca cinquanta anni ho voluto ricordare quel piccolo uomo un po’ curioso chiamato la Ciaffa.
Il Conte Fani
Secondo il canonico Artemi, che scrive attorno al 1870, Toscanella fu la culla dei Fani di cui aveva trovato nomi e testimonianze in diverse pergamene conservate presso l’Archivio comunale. Il loro stemma più antico è quello che Sebastiano Fani fa incidere nel 1563 nella pietra della loro cappella nella chiesa del Riposo.
Abbiamo una colonna con un crescente sul capitello al quale Sebastiano aggiunge il giglio dopo che Paolo III Farnese, nel 1547, nomina sia lui che suo figlio primogenito, Paolo Vittorio, Cavalieri del Giglio, ordine che doveva difendere le coste dalle incursioni dei pirati maomettani. Solo pochi anni prima un ragazzo dei Fani era stato rapito e venduto come schiavo, ma presto riscattato.. Lo stemma, usato nel XV secolo, lo troviamo dipinto nel cortile di un bel palazzo nel quartiere di Poggio e scolpito sulla chiave dell’arco di una bella casa nell’attuale via Campanari.
Probabilmente erano queste le case dei Fani in quel periodo. Nella cappella del Riposo troviamo dipinto lo stemma di Fani come è arrivato fino a noi: troncato da una fascia rossa. Lo stesso stemma lo troviamo in uno splendido pavimento fatto costruire da Mario Fani nel 1556 nella chiesa dell’Ara Coeli in Roma, in occasione del suo matrimonio con Olimpia Astalli.
Madre Chiara Pieri
Madre Chiara Pieri – Elisa Pieri entrò in Religione il 9 febbraio 1899. Fin da novizia si prefisse la virtù della Santa Indifferenza e in questo atteggiamento morale la sua fede si fortificò e crebbe.
Intelligentissima, fu subito Segretaria, Maestra delle novizie, Economa, Vicaria e per trenta anni Abbadessa saggia e prudente che con la sua opera fece rifiorire la Comunità ridotta ormai in numero esiguo.
Per desiderio di S.S.Pio XI istruì le bambine di Tuscania alla Prima Comunione, allestì corsi per esercizi spirituali e ritiri per giovanette e donne di Azione Cattolica, con profondi risultati.
La vita di madre Chiara Di Gesù Sacramentato fu tutto un poema di bontà, di preghiera, di perenne immolazione.
Degna figlia di San Francesco seppe meravigliosamente, per la rigida povertà, la continua preghiera e lo spirito di mortificazione, espresso anche con corporali sofferenze quali la disciplina e il cilizio, tradurre nella sua vita lo spirito francescano.
Ma questa grande austerità di vita si intravvedeva appena e non pesava su chi le stava vicino; perché il suo carattere estremamente gioviale e il suo garbato umorismo sempre in ogni occasione riuscivano a mettere a proprio agio chi l’avvicinava.
Come tutte la grandi anime il Signore la volle provare anche nel dolore fisico; e neppure nella sofferenza Madre Chiara si smentì. La lunga malattia la sopportò con grande serenità e fortezza e mai venne meno il sorriso, la premura per le figlie e la continua unione con Dio.
Certo aveva messo in pratica quanto disse un giorno a chi le domandava che cosa intendesse per unione con Dio.
L’unione con Dio è come l’aria che si respira!
Fu la sua ultima e grande lezione.
E quando lo Sposo Divino la chiamò per il secondo appuntamento nella stessa data del primo Sì, fu pronta, come la Vergine Prudente, con la fiaccola accesa e i fianchi cinti per entrare nel gaudio beato.
Era il 21 febbraio 1963. Madre Chiara aveva 87 anni.
Gianni Asdrubali

“La Soglia”, G. Sagittaria, Pordenone ( 1985);
“Il meno è il più per una astrazione povera”, La Salerniana, Erice (1986);
“Astrazione povera”, Studio Ghiglione, Genova (1986);
“Roma 1957-
“Astrazione povera”, Studio Marconi, Milano (1987).
Mostre personali e collettive
Tra le principali mostre personali di Gianni Asdrubali, dal 1982 al 1988, si ricordano:
alla Galleria Artra, Milano (1984, 1986, 1987)
alla Galleria La Salita, Roma (1986).
Gianni Asdrubali ha inoltre partecipato, nello stesso periodo, alle seguenti mostre collettive:
“Risonanza-
“Anniottanta”, Galleria d’Arte Moderna, Bologna (1985);
“XI QuadriennaleNazionale d’Arte”, Palazzo dei Congressi, Roma (1986);
“Nuove geometrie”, Rotonda della Besana, Milano (1986);
“Schlaf der Vernunft”, Museum Fridericianum, Kassel, (1988);
“Aperto 88”, XLIII Biennale Internazionale, Venezia (1988);
“Astratta-
“Biennale d’arte australiana”, Art Gallery of New South Wales, Sidney (1988);
“Avamposti” Galleria Studenskog Centre, Zagabria (1988).
Dal 1989 inizia per Gianni Asdrubali un percorso decisamente più individuale che a tutt’oggi prosegue felicemente, contrassegnato da inconfondibili declinazioni. Da allora, mostre personali importanti sono da segnalare:
G. Il Milione, Milano (1989, 1990, 1992);
G. Ponte Pietra, Verona (1989);
G. Spazia, Bologna (1990);
Palazzo Municipale, Morterone, (1990);
G. Plurima, Udine (1990);
G. Eva Menzio, Torino (1991);
G. Manuela Allegrini, Brescia (1994);
A Arte Studio Invernizzi, Milano (1995, 1998);
APC Galerie, Colonia (1995, con B. Querci);
Palazzo Racani Arroni, Spoleto (1996);
Centro Espositivo della Rocca Paolina, Perugia (1997, con B. Querci, N, Sonego, successivamente: Museum Rabalderhaus, Schwaz,
Galerie Nothburga, Innsbruck);
Galerie Siegfried Blau, Dusseldorf (1998);
G. Arte Marchetti, Roma (1998);
Musei Civici, Villa Manzoni, Lecco (1999, con B. Querci, N. Sonego).
Tra le mostre collettive si ricordano:
“XV Premio Nazionale Città di Gallarate”, Gallarate (1989);
“1947-
“Arte a Roma 1980-
“The italianContemporary Art Exhibition”, Museum of Art, Taipei (1990);
“Sincronias”, Museu de Arte, San Paolo del Brasile, Museu de Arte Moderna, Rio de Janeiro e successivamente: Brasilia, Roma (1990);
“La Collezione”, Centro per l’Arte Contemporanea, Umbertide (1991);
“La fabbrica estetica”, Grand Palais, Parigi (1993);
“Omaggio al futurismo”, Palazzo Guasco, Alessandria (1995);
“Riflessione e ridefinizione della pittura astratta”, Galleria d’Arte Moderna, Gallarate (1995);
“Gefuhle der Konstruktion Kunstler in Italien Seit 1945”, Museum Rabalderhaus, Schwaz (1997);
“Lavori in corso 1”, Galleria Comunale d’Arte Moderna, Roma (1997);
“Die Andere Richtung der Kunst Abstrakte Kunst Italiens “60-
“Arte italiana. Ultimi quarantanni. Pittura aniconica”, Galleria d’Arte Moderna, Bologna (1998);
“Generazione astratta”, Sala d’Arte Gastone Millo, Muggia (1999).
Testi critici
Filiberto Menna.–
Gianni Asdrubali, è certamente uno dei protagonisti di questo cambiamento dell’arte e in particolare di una situazione romana, di cui ho cercato di delineare la mappa riconducendola sotto il segno di una astrazione povera rifiutando, comunque, ogni connotazione penitenziale del termine e assumendolo, invece, per mettere in evidenza l’intenzione di contrapporre alla sovrabbondanza e al pieno della pittura postmoderna uno spazio concentrato e silenzioso dove diventa possibile approntare gli attrezzi minimi, quelli assolutamente indispensabili, per intraprendere la costruzione del nuovo. […]
(“Pieno”, in GIANNI ASDRUBALI, Rotundo Editore, Roma,1988)
Giovanni Carandente.-
(“Aperto 88”, catalogo XLIII Biennale Internazionale di Venezia, Fabbri Editore, Milano, 1988)
Elisabeth Bozzi.–
(“Gianni Asdrubali” in LIGEIA n. 3-
Maurizio Corgnati.-
(Presentazione mostra personale presso la Galleria Ellevi, Vicenza 1990)
Ingrid Mossinger.–
(“Scatalande L’ampiezza dello spazio”, catalogo mostra personale presso A arte Studio Invernizzi, Milano, 1995)
Enrico Mascelloni.–
(“L’ossessione e la sfida”, catalogo mostra personale presso Palazzo Racani Arroni, Spoleto, 1996)
Martina Corgnati.-
Alla parola Asdrubali contrappone invece il corpo dell’immagine: il suo lavoro prende le mosse da una franca posizione nei confronti della vita e naturalmente anche dell’arte. “Per fare arte –
L’idea fondamentale, o meglio la sconcertante, illuminante constatazione di Asdrubali, verte sull’assoluta primarietà del vuoto (che si voglia chiamarlo bianco, parete, nulla o spazio, il risultato non cambia), unico vero protagonista e generatore di ogni immagine. L’artista quindi non parte dal segno e men che meno da sè. Parte dal soverchiante strapotere del vuoto non per rappresentare ma piuttosto per manifestare sintetiche e pulsionali, scattanti e nervose concrezioni di energia, attimi sospesi di un divenire violentemente in atto, efflorescenze entropiche sbocciate dal nulla, al nulla destinate. La lucidità di Asdrubali, il suo felice equilibrio di istintività e raziocinio, gli impone di rinunciare al resto.
(“Gianni Asdrubali, Tritatronico”, in Segno n. 147, maggio 1996)
Lorenzo Mango.-
( “Gianni Asdrubali La pittura ha un corpo”, in TITOLO, anno X n. 29, Primavera/Estate 1999)
Elmar Zorn.–
(“La superficie del dipinto come spazio dell’evento nella natura creatrice”, catalogo mostra Tromboloide e Disquarciata presso Musei Civici, Villa Manzoni, Lecco, 1999)















