Modi di vivere e tradizioni
LE ACQUE SALUTIFERE DI TUSCANIA
Noi conosciamo un solo Bagno, quello della Regina, ma –
Quest’acqua fu sempre ritenuta efficace e salutifera per la cura delle malattie della pelle; e lo stesso Consiglio Comunale si preoccupava e si occupava della conservazione di quest’acqua. Tanto per fare un esempio: nel Consiglio del 21 settembre del 1624 si legge:
Havemo nel nostro territorio, nella Bandita di San Savino un’acqua bonissima contro la rogna et altre infermità; né si può godere per essere ripiena di terreno e di altro che con poca spesa si ridurrà in stato di potersene servire comodamente. Si delibera quindi che il molto illustre magistrato con li signori Marcantonio Giannotti e Fabrizio Pocci riducano in quel miglior stato che giudicheranno a proposito il Bagno di San Savino fino alla somma necessaria.
Ebbene oggi il Comune non si potrebbe interessare per dare una rabberciatura a quello sgangherato Complesso termale chiamato dai Tuscanesi Acqua Forte?
L’acqua della Fonte di sant’Angelo –
( qui seguono i consigli tecnici per pulire la fonte, poi)
L’Em.no Cardinal Brancacci, nostro Vescovo servendosi sempre di detta acqua etiam quando si trattiene in Viterbo, con dire passa detta acqua al pari di quella di Nocera, ne manda a pigliare anco quando si trattiene in Roma, ed io fui presente quando si caricò una soma per S.E. da Stortino, suo mulattiere, alli X luglio 1669, che immediatamente la portò a Roma. E l’Em.no Cardinale Sacchetti, Vescovo di questa città anco lui ha fatto l’istesso in servirsi di quest’acqua.
LA VENDEMMIA
Ottobre, nelle nostre zone, è il mese della raccolta dell’uva, quindi della vendemmia. Un tempo esistevano molte vigne. I filari erano costituiti da canne legate con la ginestra essiccata al sole; con forcine di legno si provvedeva sostenere i tralci per paura che cadessero per il peso dei grappoli. Nel corso dell’anno si svolgevano i lavori necessari per ottenere una buona raccolta; a febbraio si procedeva alla potatura, che si preferiva ritardare cosicché i germogli avrebbero resistito meglio alla brina di marzo.
Questa operazione veniva eseguita in base al metodo del capo e del capetto, che, oltre che a migliorare la qualità del frutto e la produttività del tralcio, serviva per togliere il cosiddetto buffone, ossia una gemma che squalificava la vite portandola verso terra.

Successivamente avveniva la vangatura, lavoro molto faticoso che veniva eseguito con una vanga il cui manico doveva arrivare la mento del vangatore. Alcuni anziani raccontano che chi finiva per primo batteva sulla vanga per provocare la stizza degli altri contadini impegnati nella stessa attività.
Prima che la vite germogliasse si provvedeva alla sostituzione delle canne e della ginestra; in seguito ad alcune gemme venivano tolti i bruchi (sdirugatura) con una piccola canna affilata, mentre altri germogli, ritenuti superflui, (cacchi) venivano eliminati, puliti e mangiati: questa operazione si chiamava la scacchiatura. La fase successiva era la rinfrescatura, una nuova vangatura, dopo la quale si irrorava la vigna
con l’acqua ramata (calce e solfato di rame) in modo da prevenire la peronospora.. Quando il periodo della raccolta era ormai vicino venivano controllate le botti per verificarne il buono stato; dopo aver versato al loro interno acqua calda e sale (la stufa) si agitavano avanti e indietro con colpi cadenzati per lavarle; infine vi si calava uno zolfanello acceso per controllarne il grado di acidità.
Finalmente si poteva procedere alla raccolta dell’uva, che veniva sistemata nei bigonzi (bigonci). Questi avevano nelle doghe marchi impressi a fuoco per distinguerne la proprietà. L’una poi era gettata nella pistarola, grosso recipiente di legno quadrato con dei buchi sul fondo, che veniva collocata sopra il tino, ad essa si accedeva attraverso una scala di legno larga su cui veniva portato il bigonzo da due persone, aiutate dal boia. Quindi con i piedi, che precedentemente erano stati ben lavati, si procedeva alla pistatura.
La vinaccia poi veniva pressata nel torchio e il vino così ottenuto, che cadeva su una paiolo di rame nel quale veniva gettata una chiave di ferro, o si univa al vino buono o si metteva a parte per farci l’ammezzato. Il mosto, invece, veniva conservato nelle botti, dove fermentava per essere poi sfecciato a san Martino, quando si assaggiava accompagnando le bevute con baccalà arrosto. Dopo la sfecciatura, in un giorno di forte tramontana, il vino veniva portato in cantina dove veniva conservato.
LA TREBBIATURA
Nei tempi antichi la trebbiatura del grano veniva fatto a mano. Si spandevano le spighe sullo spiazzo antistante la casa colonica, sul quale era stato fatto seccare uno strato di stabbio. (cfn. Vergilio: L’aia va spianata con un grande rullo e rassodata con argilla perché non vi spuntino le erbe. Georg. I,180) per rendere il terreno duro e compatto. Le spighe si battevano con il curiato: (vedi). Quando le spighe erano triturate prima si lanciavano con la pala, (il ventilabro) contro vento in modo che la paglia e la pula, più leggere, cadessero lontano e i chicchi si ammonticchiassero tutti in un punto; poi il grano subiva una seconda brillatura con la giuiarola , un grande cesto con tanti fori larghi come i chicchi del grano, che era attaccata al centro di tre pali legati a capra.
Nelle grandi aziende però la trebbiatura veniva fatta in modo un po’ più rapido e meno faticoso. Sull’aia si ponevano le gregne diritte, una accanto all’altra ( la sterta) e su questa venivano fatti camminare i cavalli che con gli zoccoli trituravano le spighe. Quando le spighe erano ben triturate si procedeva alla pulitura del grano come già abbiamo detto. Nei tempi recenti la trebbiatura era fatta con le macchine. Le gregne portate sull’aia, si ammonticchiavano le une sulle altre e formavano la meta. Quando erano state formate diverse mete, veniva la trebbia. Il personale, che comprendeva circa 25 persone tra operai e operaie, si spostava da un’ara all’altra in genere di notte. Giunti all’ara stabilita venivano piazzati la trebbia e il trattore. La trebbia veniva messa sempre in direzione con l’asse Nord-
addetti alla lea e all’imboccatura delle gregne. Tutti gli operai avevano una mansione specifica: c’era il capod’ara che aveva il compito di sorvegliare gli operai e aveva la responsabilità dell’ara; l’accostatore, con il forcone prendeva le gregne e le passava ad un’operaia, la taierina che aveva il compito di tagliare la gregna; questa, ormai sciolta, veniva immessa nella trebbia dall’imboccatore.
Il lavoro più duro spettava al learino, in genere un ragazzo, che aveva il compito di allontanare dalla trebbia la lea erta e la lea fina che si ammonticchiavano di fianco alla trebbia. Poi veniva la vetta; per fare questo lavoro l’operaio aveva a disposizione un attrezzo di legno che trainato da una vetta, cioè da un parecchio di buoi e strisciando sul terreno, trasportava i mucchi di lea lontani dalla trebbia. Il learino lavorava sempre con un grande fazzoletto davanti alla bocca e sul naso che gli impediva di respirare la gran polvere che si levava.
Un altro operaio importante era il portaspese; veniva assunto uno che era proprietario di carretto e di cavallo, perché ogni giorno faceva la spola tra l’ara e il paese per ritirare il pane dal forno che spesso veniva barattato col grano e per le compere necessarie agli operai, infatti nella paga degli operai erano compresi i tre pasti principali. Il lavoro iniziava al levar del sole. Alle otto c’era una breve sosta per la colazione; all’una ci si riposava sotto gli alberi o all’ombra della trebbia per il pranzo; la baracca, cioè la tenda era riservata al padrone, al capod’ara al cantierista e agli imboccatori e poteva ospitare anche il padrone del grano.
Al calar del sole terminava il lavoro e c’era la cena. Il grano intanto a mano a mano che usciva dalle bocchette veniva insaccato e portato al cantiere e pesato alla bascula dal cantierista che rilasciava la figlia delle bollette con le quali pe’ le Santi Martre sarebbe passato a riscuotere la trebbiatura. Quindi i sacchi erano ammonticchiati e custoditi dal padrone fino a che non fosse stato portato al magazzino al sicuro. La paglia, parte veniva pressata, con la pressa attaccata alla trebbia, ma la maggior parte veniva bruciata per la Madonna di mezzagosto e solo una piccola parte era conservata per la lettiere degli animali
La sterpatura
Nei primi giorni di ottobre dai paesi vicini arrivavano, con le loro zappe, i salariati in occasione della sterpatura.
Seduti sul muretto, davanti alla Locanda, rimessa e stalla di Bettolone e di Livietta, o sdraiati per terra, aspettavano l’arrivo del proprietario terriero che li scegliesse per i lavori dei campi.
I salariati lavoravano nei campi per due settimane; la paga era una pagnotta di pane, di cui la metà veniva conservata per la famiglia. I campi venivano ripuliti dalle erbacce e la sterpatura era eseguita a mano
La Spaccaccia
Spaccàccia – Era il gioco delle trottole, chiamate a Tuscania, per lo loro forma, perazzole. Venivano raccolte insieme tante perazzole quanti erano i giocatori, poi, fatta la conta, ciascuno secondo l’ordine prendeva la sua perazzola e la tirava sul mucchio delle altre, tentando di spaccarle.
Naturalmente vinceva non solo chi era più capace nel tiro, ma anche chi aveva la perazzola più resistente, e con i puntali adatti.
I puntali infatti si distinguevano in tre tipi:
1) alla viterbese, il più semplice; era un pezzo di filo di ferro conficcato nel legno della perazzola, ed era il puntale meno costoso e che si trovava in genere nelle perazzole nuove.
2) alla romana: più sofisticato, perché il ferro che formava il puntale aveva una piccola rondella saldata che non permetteva al puntale di conficcarsi nel legno oltre la misura stabilita.
3) alla cornetana; fatto con un chiodo da cavallo, il più massiccio dei puntali adatto proprio al gioco della spaccaccia.
LA MIETITURA

Nel mese di giugno, mentre il sole bruciava la terra, si mieteva il grano.
La mietitura veniva fatta in giugno, perché nei tempi passati la tecnica non era avanzata e non esistevano le macchine perfezionate e veloci come ai giorni nostri.
Gli operai andavano col padrone e venivano formate le squadre: Ogni squadra era formata da cinque operai: tre mietitori, il balzo e un legarino. La squadra si chiamava gavetta.
Alle cinque di mattina, cioè alle prime luci dell’lba, (Come diceva anche Teocrito: Incominciare la mietitura allor che l’llodola è desta, smettere quando essa dorme e darsi riposo al caldo) le gavette partivano, ognuna con il proprio padrone. Alcune gavette raggiungevano il campo a piedi e perché il tempo passasse più in fretta c’ra La Sbega de Braciola che aveva il compito di raccontare storie chilometriche che non finivano mai. Altre gavette raggiungevano i campi sul carro. Gli uomini lavoravano con una piccola falce la cui lama brillava al sole ed era l’nica fonte di sostentamento per l’peraio e per la sua famiglia.
La mattina co’ la luna
E la sera co’ le stelle,
Ce volete levà la pelle
Nun ve la volemo dà.
Tre mietitori partivano a scala, dietro veniva il balzo che intrecciava la mannella di spighe con le quali il legarino formava la gregna.
All’lba del giorno successivo, pel fresco, cioè la sera o la notte, se c’ra la luna, avveniva la raccolta delle gregne; a questi lavori partecipavano anche i ragazzi e le donne, perché i lavori non erano molto pesanti.
Il cordello era formato dalle gregne messe in modo compatto a forma di grandi mucchi. Il loro asse era rivolto verso Montefiascone, cioè verso Nord, perché se fosse tirato il vento di tramontana non avrebbe scompigliato le gregne. (Lo diceva anche Teocrito: A tramontana volgete il taglio dei vostri covoni o a ponente che così meglio se ne ingrassa la spiga.)
Dopo alcuni giorni le gregne venivano caricate su i carri: era il lavoro della carratura. Gli operai addetti a questo lavoro erano due: il carcarino e il carraro. Il carcarino lanciava le gregne al carraro e questi l’ccomodava sul carro. Quindi le gregne venivano portate in un grande spiazzo, l’ra, vicino ad un casale o in prossimità di grandi alberi per stare all’ombra nei turni di riposo. Qui avveniva la trebbiatura
La monnarella
Il lavoro della monnarella avveniva in maggio. Questo lavoro era eseguito solo dalle donne, perché era un lavoro leggero e non molto impegnativo: bisognava, con tanta pazienza, togliere i mazzocchi delle erbacce che infestavano la semina, affinché i mietitori non trovassero al tempo della mietitura troppa zizzania. Le donne, la mattina, si raccoglievano Fuori Porta, davanti alla Porta di Poggio, prima di partire in gruppi verso i campi. Tanto è vero che c’era il detto:
“Zappa e zappetto
Alla Porta de poggio.”
LA FIENATURA

Si prendeva un palo – lo stollo – in genere di castagno, perché più resistente, si bruciava nella parte che doveva essere conficcato nel terreno e si piantava in terra in genere vicino alle stalle. Addosso allo stollo veniva ammonticchiato e pigiato il fieno. Quando il fienile aveva raggiunto una certa altezza e non si riusciva a gettare il fieno con il forcone, allora si usava la bilancia. Questa era formata da due bastoni: uno conficcato in terra e l’altro messo orizzontalmente a tre quarti del primo.
Quest’ultimo da una parte aveva una corda dall’altra un gancio nel quale si attaccava il mannello del fieno. In questo modo si poteva raggiungere la parte alta del fienile sul quale un contadino sistemava il mannello. Il fienile in seguito veniva tagliato a fette come una mela con la tagliafieno; il fieno che rimaneva alla fine attorno allo stollo si scioglieva con il forcone.
La Tombola (divagazioni)

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Ma poi manco a farlo apposta tutti gli anni questo altoparlante me lo schiaffano qui, vicino all’orecchio. Quest’anno s’è rotto; ho inteso un tale, alto e svitato, che ha mandato tre o quattro benedizioni a quell’imbecille che ha attaccato le spine. Ha sbagliato buco e sono saltate le valvole.
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Ora la Piazza era ritornata silenziosa. Diedi un ultimo sguardo al monumento, poi mi avviai verso casa. Dall’arco della torre di Montascide intanto era sbucato fuori il Grecio, il cane del Consorzio, che sgambettava verso la Porta: aveva udito un furioso abbaiare che proveniva dal Giardino Comunale.
Ottobre 1965
Il Seminario

La domanda ebbe esito favorevole con un rescritto pontificio del 4 novembre 1814, al quale seguì un breve di Pio VII, emesso il 29 Agosto 1815 e reso esecutorio con un decreto del cardinale Severoli del 15 novembre 1816. A titolo di indennizzo veniva imposto di versare agli Agostiniani dieci scudi annui. I compiti di direzione e di insegnamento nel nuovo seminario rimasero affidati totalmente ai sacerdoti locali fino al 1861, quando il vescovo cardinale Gaetano Bedini conferì l’incarico di maestro di retorica a un padre gesuita che nell’anno successivo fu nominato rettore. In seguito furono chiamati altri padri gesuiti per l’insegnamento delle materie filosofiche e teologiche.
Al tempo del vescovo Giovanni Battista Paolucci fu scelto per il soggiorno estivo prima il palazzo del conte Carlo Macchi a Capodimonte, e poi palazzo Balicchi, sito nella stessa località in piazza della Rocca. Lo stesso vescovo Paolucci dopo la visita pastorale del 1881 emise una serie di decreti riguardanti l’amministrazione dei beni del seminario con la raccomandazione di metterli subito in atto per promuovere maggiormente gli interessi dell’istituto che era la vera sorgente del benessere religioso e sociale e la gloria della città.
Il vescovo Antonio Maria Grasselli fin dall’inizio del suo episcopato pose tutto l’impegno affinché fossero incrementati nel seminario lo studio, la formazione religiosa e la disciplina. Nella relazione inviata a Roma dopo al sua seconda visita pastorale egli annotava che nel seminario erano frequentate le classi elementari e ginnasiali ma mancavano gli studi filosofici e teologici. Nella relazione inviata dal rettore, canonico Lodovico Campanari al vescovo Emidio Trenta in preparazione alla sua prima Visita pastorale furono elencati 14 alunni: 7 di Tuscania, 2 Tarquinia, 2 di Arlena, 1 di Allumiere, 1 di Civitavecchia e 1 di Mentana. Tra le funzioni celebrate nella chiesa di Sant’Agostino, affidata al seminario, venivano annotati il triduo alla Madonna del Carmine e la messa con la benedizione delle vesti e del pane nel giorno di San Nicola.
Nel 1928 il Vescovo Emidio Trenta, dovendosi procedere ad una organizzazione unitaria dei piccoli seminari dell’Alto Lazio, soppresse il seminario di Tuscania e lo unì a quello di Viterbo.
Il sellaro
Oggi il lavoro del sellaro è meno richiesto, perché nel lavoro dei campi ad alleviare la fatica dei contadini, i cavalli e i buoi sono stati sostituiti dai trattori, dalle motozappe e da tante altre macchine agricole; tuttavia la sua opera è ancora richiesta e preziosa, anche perché si sono formate qui a Tuscania associazioni di allevatori di cavalli. E oggi i materiali che usa il sellaro sono naturalmente cambiati, ma la fatica e la pazienza necessarie per questa arte non sono certamente diminuite.
Il sellaro passava tutto il giorno a cucire selle, cosciali, soatti; gli strumenti, gli attrezzi usati sono gli aghi senza punta che servono a portare il filo attraverso i buchi fatti dalla subbia; il coltello a spessore per tagliare il cuoio, il marcapunto che segna la traccia dove deve passare il filo rendendo la cucitura diritta e precisa; il compasso a soffietto, utile per rigare il cuoio. I materiali usati sono il cuoio, il filo trattato con 
Oltre alla sella il sellaro confeziona anche la bisaccia alla maremmana, che si pone sul dorso del cavallo; ii cosciali fatti con la pelle di capra e indossati dai butteri e dai cacciatori; il soatto cioè il collare a cui viene applicato il campanaccio e messo al collo delle mucche; infine la lacciara, una corda con il cappio che serve per prendere il cavallo e tenerlo fermo; la pastora, un’altra corda con cui vengono legate le zampe del cavallo per immobilizzarlo.
La sagra (poesia)

A Onano se festeggia la lenticchia
mentre a Canino se onora la bruschetta.
E pure qui a Tuscania ‘ndo c’è la gente sveia
ce sarà la sagra “de la Panzanella”
Questo alimento molle e un po’ salato
fu degli Etruschi il pasto prelibato.
E si guardi scolpito un Lucumone
e guarda vicino al gran panzone,
vedrae una mano che infila ‘na scodella:
quella serviva pe’ la Panzanella.
De Carlo Ottavo poe s’è risaputo
che giunse con un esercito affamato
sotto le mura de questa cittadina:
era maggio ed era de mattina.
A ferro e foco mise Toscanella,
perché non ebbe vino co’ la Panzanella.
Allora noi onoriamo st’alimento
giunto fino a noi attraverso il tempo.
Sarà imbandito un tavolo gigante
ricolmo de pagnotte casarecce.
Il cavalier Patrizi co’ le guante
provvederà a taià il pane a fette.
Dieci ragazze scelte a Montebello
provvederanno a mette il pane a mollo.
e poi del Comune due bravi inservienti
aggiungeranno sopra altri ingredienti.
Pasquinio sarà il gran cerimoniere,
col titolo di Gran Panzanelliere
Poi il Sindaco co’ la Giunta Comunale
che si se magna te danno un gran piacere
al popolo offriran le sacre fette
mentre la banda intonerà marcette.
E infine fra tutte le fanciulle
verrà selezionata da la folla
pe’ esse acclamata la più bella
la prima nostra Misse Panzanella.
Il Gruppo pugilistico di Tuscania
A cavallo degli anni ’50, Giovanni Quarantotti, quando ormai la squadra di calcio del Tuscania era in decadenza, sul Corriere dello Sport scrisse: il grande calcio è finito, ma nascerà il pugilato. – La sua previsione fui azzeccata; infatti Luigi Selvi, viterbese di Pianoscarano, trapiantato nella nostra città ed ex pugile dilettante di ottimo livello, fondò il Gruppo pugilistico Tuscania. E l’iniziativa fu accolta con grande entusiasmo non solo dai giovani tuscanesi, ma anche da ragazzi dei paesi limitrofi, Arlena, Piansano, Capodimonte.
Dei pugili locali ricordiamo: Veriano Taranta, peso welter, campione italiano dei novizi con 25 combattimenti, di cui 23 vinti, 1 pareggiato e 1 perso. Mario Proietti (per gli amici Persichetta) campione italiano 1a serie dilettanti. Di lui è rimasta celebre la famosa scena che avvenne sul ring a Marta, allorché, mentre combatteva con un certo Grazini di Viterbo, avendo ricevuto da costui una serie di testate, Proietti, preso dalla rabbia, gli azzannò un orecchio. Questo fatto fu in seguito imitato dal campione mondiale di Pesi Massimi Tyson.
Nei pesi medio- massimi Selvi poteva contare su Angelo Bassetto. Questo pugile era dotato di una grande forza fisica, ma non aveva la grinta adatta capace di sprigionare tutta la sua potenza; per questo non ottenne mai vittorie di prestigio.
Altri pugili che tennero alto l’onore della squadra del Tuscania sono: Mimmo Scevola, Pino Firmani, Lino Menicacci, Ernesto Menicacci, Mario Ciccioli, Felice Menghini.
Deve essere ricordato anche il fatto che sul ring, allestito dove ora c’è la piscina comunale, salirono atleti famosi come Vittorio Tamagnini, campione olimpico nel 1928 e Angelo Iacopucci, di Tarquinia, campione italiano ed europeo dei pesi medi.
La prostituzione
Il 17 gennaio del 1794 la Curia Vescovile avviò un processo contro la signora Caterina X per inonestatis cum scandalo . La nostra città in quanto diocesi aveva un tribunale ecclesiastico situato presso i locali prospicienti la cattedrale che fin dal 1600 giudicava unicamente i reati considerati di natura religiosa come l’adulterio, la bestemmia, la prostituzione ecc.
L’accusa formulata contro questa Caterina X era pesante: Caterina riceveva a tuttora le genti in casa sua et in specie lo stallino del signor Persani detto Ballarino et anche il cavalcante di Dogana et altre persone con scandalo e mormorazione pubblica del vicinato, che nonostante le ammonizioni per tre volte del parroco, continua nella medesima pratica scandalosa.
Le numerosissime testimonianze fatte eseguire dal giudice vicario generale rilevarono che la signora Caterina, moglie di Secondiano Y, aveva effettivamente una irrefrenabile passione per gli uomini, in particolare per gli stallieri. Il signor Battista, lo stalliere di Dogana, sostenne davanti al giudice che la signora gli aveva attaccato il male venereo e per questo non riusciva a rifiutare le avances della donna.
Ma a complicare la situazione in cui versava l’imputata contribuì la personalità assai semplice del signor Pietro, lo stalliere detto Ballarino, il quale si vantava pubblicamente delle sue scappatelle a tal punto da raccontare poi ogni minimo particolare anche in tribunale; per esempio aveva raccontato ad una amico di essere entrato in casa di Caterina vestito da frate zoccolante.
Il Vicario generale con sentenza emessa il 10 febbraio 1795 vietò alla signora Caterina di uscire di casa e di vedere uomini, eccetto il marito per un periodo determinato.
Il podestà
Il podestà, nel Medioevo, rappresentava la massima autorità comunale. Era sempre un forestiero, perché doveva essere al disopra delle parti in lizza: Guelfi e Ghibellini. Era eletto dal popolo e durava in carica un anno.
Con un salario di circa 1.000 libbre di denari paparini ( e altri proventi straordinari) doveva provvedere a sé e al suo seguito (due giudici, due notai, otto sbirri e quattro cavalli).
Era anche il responsabile della giustizia e dell’ordine pubblico, però controllava anche l’attività amministrativa, sebbene all’attività legislativa locale provvedessero il Consiglio Generale (48 membri, 12 per quartiere) e il Consiglio Speciale (16 membri, 4 per quartiere) riuniti in seduta comune, nella chiesa di San Pietro o di Santa Maria Maggiore
Auguri di Natale di Ciriaco
Auguri di Natale di Ciriaco
Mo che so’ giunte le feste
il sor Ciriaco ai suoi lettori
a sto modo fa gli auguri.
Buon Natale al sagrestano
che per via di quel badocchio
nun ce sente da un orecchio.
Buon Natale all’artigiano
che ‘n se leva da la capoccia
quella terra de la Macchia.
Buon Natale ai contadini
che il Bonomo ie promette
un gran sacco de cosette
quanno vanno a li comizi;
ma che poi de quel che ha detto
arriva solo il giornaletto.
Buon Natale ai netturbuni
che te sonono pel secchio
quanno ancora see al letto.
Buon Natale ai fienaroli
che d’agosto vonno la neve
per portare in gran volata
tutto il fieno a Macerata.
Buon Natale ai cacciatori
che un cinghiale hanno ammazzato
zoppo guercio e pensionato.
Buon Natale al sor Pennazza
che a Tuscania fa quattrini
col Far West e Ridolini.
Buon Natale ai coccettari
che pe’ via de le retate
pale e spiti hanno buttate,
e continuano a scavare
ma con molte meno spese
scavan lì a Porta Portese.
Buon Natale a Felicetta
che se vai co’ un fio in Piazza
lee ti affibbia una trombetta.
Buon Natale a Mainella
che riporterà ‘l Tuscania
dalla brace a la padella.
Buon Natale ai celiboni
soli soli dentro al letto
co sto freddo maledetto.
Buon Natale auguramo
callo callo alle zitelle
perchè hanno freddo pure quelle.
Buon Natale al Farmacista
che anche al buco dell’orecchio
metterebbe ‘na supposta.
Buon Natale anche ai dottori
che purtroppo ogni tanto
arrivan dopo l’oio santo.
Buon Natale pure al C.U.T.
ch’è rimasto un po’ sbandato
perché ‘l prete nun l’ha accordato.
Buon Natale ai professori
che si sona la sirena
nun se trovano mae a scuola.
E auguri a tutti quanti,
ai borghesi e ai militari
al Consiglio Comunale
che per via di quella legna
s’è creato una gran rogna
I PATRONI DI TUSCANIA: VERIANO, SECONDIANO E MARCELLIANO

Per raggiungere tale scopo erano state istituite in tutti i luoghi, persino nei paesi più remoti, delle commissioni che avevano il compito di assistere al rito del sacrificio in onore delle divinità e di rilasciare il certificato di sottomissione a tutti coloro che sacrificavano. Nei confronti di coloro che non si sottoponevano alle disposizioni imperiali si procedeva per vie legali che si concludevano con l’pplicazione della pena capitale.
In questa inquadratura storica vanno collocate le vicende dei Santi Martiri di Tuscania. Gli antichissimi Atti del martirio, custoditi in una pergamena conservata nel monastero di San Salvatore del Monte Amiata, sono forse una tardiva manipolazione improntata ad altri Atti di martiri e appartengono perciò più alle tradizioni e devozioni popolari che alla documentazione storica.
Gli Atti asseriscono che Secondiano era letterato e filosofo, mentre Marcelliano e Veriano erano ufficiali di prefettura. Dopo la loro conversione al cristianesimo essi avevano ricevuto il battesimo da un prete di nome Timoteo. Scoppiata la persecuzione si rifiutarono di sacrificare agli idoli e inutilmente il prefetto Valerio Massimo e lo stesso imperatore Decio cercarono di indurli a rinunciare alla fede per aver salva la vita.
Trattandosi di personaggi di riguardo furono allontanati da Roma per evitare lo scandalo di un pubblico processo e vennero trasferiti nella località di Cencelli, dove il console Promoto li sottopose a tormenti. Successivamente furono inviati a Colomacio o Colonia, luogo di cui ora si è perduta la memoria. Lì essi furono soggetti alla decapitazione e i loro corpi vennero gettati in mare. Le spoglie dei martiri, rigettate dalle onde sulla spiaggia, furono rinvenute da un cristiano di nome Diodato, che le seppellì vicino al luogo dove era avvenuto il martirio. Nel 322 alcuni anni dopo la proclamazione della libertà religiosa fatta dall’mperatore Costantino, i corpi santi furono esposti alla pubblica venerazione in Cencelli.
La tradizione popolare, infiorando il fatto storico con tarde aggiunte suggerite dalla devozione comune, narra che parecchi luoghi si disputavano il possesso delle reliquie. Il vescovo Valeriano, per porre fine a quelle rivalità, dispose che venisse preparato un carro trainato da due giovenche e che le sacre spoglie rimanessero nel posto dove le giovenche si sarebbero fermate. Queste attraversarono il Marta, si diressero verso Canino e per Tessennano e Arlena raggiunsero il territorio di Tuscania. Salirono quindi fino alla cima del colle di San Pietro, dove conclusero il loro lungo percorso. I cittadini corsero in folla a venerare i Santi Martiri che d’llora divennero i Patroni della città.
Le reliquie dei Santi Martiri, deposte nella cripta di San Pietro, furono oggetto di continua e fervida devozione. Il giorno della festività, fissato per antichissima tradizione all’ agosto, veniva celebrato con grande solennità e con il concorso di tutta la popolazione che riconosceva nei Santi Martiri dei modelli di fede da imitare e dei Patroni dai quali veniva implorata la protezione per la salvezza della città, per il lavoro e per la floridezza dei campi.
Anche l’rte concorse efficacemente a conservare e a tramandare la devozione verso i Santi Patroni. Un affresco trecentesco della cripta, attribuito a Gregorio e Donato di Arezzo, raffigura i Santi Martiri nel luogo stesso dove erano riposte e venerate le loro spoglie. Le antifone dei Patroni, che venivano cantate durante la solennità annuale erano trascritte in antiche e grandi pergamene miniate. Il braccio di San Secondiano è custodito in un reliquiario, la cui parte superiore, formata da una mano, risale al secolo XIII, mentre la base cilindrica, lavorata a sbalzo e cesello, è opera del maestro argentiere Flavio De Alessandris, nato a Narni nel 1668 e attivo a Roma e a Napoli. Nella grande tavola esposta sopra l’ltar maggiore della chiesa del Riposo il pittore Pierin del Vaga, discepolo di Raffaello, nei primi anni del secolo XVI ha raffigurato la Vergine tra i Santi Martiri.
Nella tavola di Santa Maria della Rosa verso la fine dello stesso secolo Pierino d’melia ha ripetuto con poche varianti le figure dei Santi dipinti nella tavola del Riposo. In un frammento di affresco della chesa della Rosa la Madonna e il Bambino hanno ai lati San Pietro e San Secondiano. Nella cappella del Santissimo Sacramento nel Duomo, destinata in origine ad accogliere le reliquie, figurano tre quadri con la rappresentazione delle scene del martirio.
Il ricordo del trasporto delle reliquie è testimoniato dalla cappelletta con le immagini dei Santi Patroni che sorge sulla via che porta alla chiesa dell’livo. Ricostruita nel luogo attuale circa cinquant’nni or sono, essa sorgeva prima dal lato opposto della via. Conforme alla testimonianza dello storico Giannotti essa era stata restaurata verso la fine del 1500 e sulle pietre della strada, di fronte ad essa si potevano osservare ancora le tracce che, secondo la tradizione popolare, aveva lasciato il carro durante il trasporto delle reliquie dei Martiri.
Un documento del 1223 informa che il 7 agosto, vigilia dei Santi Patroni, i signori dei castelli di Piandiano, Cegliano, Manziano e Castel Lardo erano obbligati a portare dei ceri che dovevano essere posti nella cripta accanto all’ltare di santi. Questa offerta doveva essere fatta in forma pubblica e gli inadempienti erano soggetti al pagamento di 40 scudi. Ai proprietari dei castelli di Carcarella e Ancarano veniva fatto obbligo di inviare l’lloro che serviva per fare i festoni all’ngresso del tempio nel giorno della festa. Il Consiglio della città stabiliva la pena che doveva essere inflitta ai contravventori.
Un altro omaggio veniva fatto dagli abitanti di Canino per mezzo dei loro pubblici rappresentanti. Essi dovevano offrire 20 scudi e un cero del peso di 10 libbre. Quell’fferta continuò anche quando Canino passò sotto il dominio di Pier Luigi Farnese. Questi a causa della povertà dei Caninesi chiese ed ottenne che il tributo venisse ridotto a 17 scudi annui. L’maggio di Canino veniva documentato ogni anno attraverso la stesura di un atto notarile.
L’ agosto la festa veniva celebrata con la processione del Capitolo e del Clero con la partecipazione del vescovo. Partendo dal Duomo il corteo si dirigeva alla chiesa di San Lorenzo dove forse nel secolo XVI erano state trasferite le reliquie dei Santi e in particolari ricorrenze veniva portata in processione l’rna con tutte le reliquie.
Dopo le vicende del terremoto del 1971 le reliquie trovarono temporaneamente accoglienza nel monastero delle Clarisse e dal 1983 ebbero definitiva sistemazione nella cappella del Sacramento del Duomo.
RICORDO DE S. MARCO
(poesia di Giggepica dedicata al suo quartiere)
Io nun me ricordo, pe’ quale situazzione
so’ stato concepito giù al Grottone;
So’ nato lì, quase pe’ disdetta,
perché abbitava lì la nonna mia, Zucchetta.
Però poe, e nun ve sembre una cosa strana,
ce so rimasto solo quarche settimana.
E so’ venuto, in men che non se dica,
ne la casa paterna, quella de le Spiga.
La casa era del Conte, e ve dico ‘ndove adè:
qui dietro, in Via Lunga, nummoro ventitré.
Qui, de ste poste c’ho un ricordo bello…
Erono le tempe de quanno ero munello.
Infanzia e gioventù io qui ho passato
fino a quel giorno che partii sordato.
Passavo le giornate godendo d’ogni cosa,
tra la piazza de San Marco e la piazzetta de la Rosa.
A dodic’anne poe c’è ‘l mestiere che se ‘mpara:
so annato a fa ‘l barbiere, dal Figaro Cannara.
Erono tempe, che è meio de nun dire.
quanno la barba se faceva a cinquanta lire.
Se lavorava tanto e poe, gira che rigira,
le barbiere, macché! nun facevono ‘na lira.
Mica adè come adesso che pe’ datte ‘na spuntata
te levono na parte de la tu poara mesata!
E qui a San Marco de gente c’era tanta:
parlamo dell’anne, intorno alle sessanta.
Lì all’angolo, armato de cortello,
venneva la ciccia, Itolo de Torello.
Appresso poe ‘l Zi Picchio, con grande maestria,
gestiva la bottega de parrucchieria
Subito dopo ecco Ezio, che con gran piacere
monnava le cristiane: faceva ‘l barbiere.
Seguenno poe tra le negoziante
venneva latte fresco Anna de Ariodante.
Era latte appena munto, quello de’ paese,
mica come adesso c’adè de due o tre mese.
Dopo ave’ preso ‘l latte e un pezzo de vitella
compravomo l’Intrepido qui da Scaramella.
Più giù c’era poe Astilio, gran personalità,
la su’ bottega era d’elettricità.
Poe c’era il barre, ‘ndo ‘l patre mio, Boccone,
tutte le sere se la spassava a giocà a scopone.
La discussione al barre era una sola:
era meio Pericle o Nicola?
Quanno c’era da fa un’amministrazione
Era lì dentro ‘ndo se piava la decisione.
Facenno quattro passe con fare tranquillo
Appresso ce trovave ‘l poro Pepparillo.
Gestivono le fie, erono du’ fratelle
Vennevono, dicendo d’esse du’ orfanelle.
Che poe a forza de piagne, e nun ve sembre strano
Se so’ comprate mezza via Piansano.
Davante a Pepparillo, co’ tavolo e banchetto
ce aveva l’osteria Maria de Felicetto.
C’era vino e cucina e poe altre leccornie.
Li dentro se so prese le più belle sbornie.
E’ scorso tanto vino e pure quarche liquore;
Renato, quanno c’entra, è ‘mbriaco dall’odore.
Appresso, roba fragile, marito de’Chiarina,
venneva tazze e cocce, Angelo Polentina.
E poe ne le rigaie, dei musici il terrore,
voleva, si fischiave, le diritte d’autore.
Appresso Cencio Pieri, che io, a dire il vero,
c’ho visto sempre il povoro Raniero.
Che si aveva da sceie ‘n cappello de flanella
pe’ tirallo fore, te faceva venì l’ugnella.
Era preciso tanto e gran lavoratore,
però pe pià un bottone se stava lì tre ore.
Uscenno da Raniero, dopo avè fatto tardi,
c’era Sali e Tabacchi de Lorenzo Nardi.
E’ l’unico rimasto, mo’ è passato de mano,
E lo gestisce ‘l nipote suo, Cristiano;
che poe, a guradallo bene e si nun me confonno,
adè più parabaiocco del’ su poro nonno.
Accanto alla fontana c’era un barbiere assai valente,
era marito de Teresa, Teresa de Fichente
Invece a destra, qui de la Fontana,
C’era il circolo de la democrazia cristiana
‘ndove c’era Ferruccio del Guardiano,
che venneva vino e bibite a tutto spiano.
E qui pure Andretti, giovane deputato,
a pià il caffe un giorno s’è fermato.
Che si ce viene adesso, per la sua condotta,
‘l caffe lo pia, ma quello de Pisciotta!
Nun posso tralascià un prete che nun c’ha l’eguali,
ve parlo de don Lidano, don Lidano Pasquali.
E stato un prete sempre sincero e schietto,
io da munello io fatto pure da chierichetto.
Quanno che te ‘ncontrava, pure si aveva fretta,
te riccontava, fresca, l’ultima barzelletta;
e nun scordamo poe che, senza tanta smania,
è stato un gran studioso de sta povera Tuscania,
per cui insieme a me a sto grande religioso
fameie un applauso; me sembra doveroso.
De personaggi poe, uno, c’era un po’ sbandatello:
chi nun se lo ricorda il povero Marcello?
Me lo ricordo io quanno era bello anziano:
mo era carzolaro e mo era sagrestano.
Lue tutte le mattine, nun sembra cosa strana,
il viso se lo lavava qui dentro la fontana.
Pure che adera inverno, nun ie faceva faccia
De dasse na lavata pure co l’acqua giaccia.
E si quarche giornata nun se la sentiva calla
Nun ie poteve di: Marcè, ih quella palla!
E pure lue c’aveva le su voie:
quanno che ie chiedeve: Marcé, pia moie!
E lue te risponneva, nell’innocenza sua,
Io moie nu la pio, fino a che c’ho la tua.
De gente de San Marco l’ho in mente una trentina
Però finisco qui, sinnò famo mattina.
Ve dico alcuni, presempio ‘l poro Betto,
la Blande, Lauruccia, Aldo de Remetto.
e ‘l Vicario, uno dei pezzi grossi,
Nunziata, la nasona e Luigino Derossi,
e ancora Alcide, patre de Andreina,
e la vecchia Billetta, ancora signorina,
e poe ancora nun me scordo mae
de Fedro e de tutte le Fornae.
Più giù c’era il Conte, grande educatore,
e de Tuscania gran benefattore.
E poe termino qui, e ancora lo rimarco:
io so orgoglioso de esse de San Marco
31 agosto 1996 Giggepica
IL MAIALE
Il giorno, quando si ammazzava il maiale, era un giorno importante: infatti la carne del maiale doveva essere lavorata e insaccata bene, perché serviva al fabbisogno della famiglia per tutto l’anno. Ed era un giorno tanto importante perché, in genere, era il giorno in cui il ragazzo entrava per la prima volta a casa dei futuri suoceri.
Tutta la famiglia contribuiva all’operazione: gli uomini eseguivano i lavori più pesanti, le donne lavoravano le budelluzze, preparavano l’acqua calda; e anche i ragazzi aiutavano nei piccoli lavori o assistevano e si divertivano a questo spettacolo. Ma chi eseguiva i lavori più importanti era il norcino.
In una mattina del primo inverno, quando ancora tutto era avvolto nella nebbia, una donna prepara l’acqua calda nella caldaia, ravvivando il fuoco con le frasche; la caldaia si trova nel cortile perché le operazioni richiedono spazio. Il norcino, aiutato da alcuni uomini, va nella stalla o nel rimessino a prendere il maiale, che, dopo mesi di cure, è diventato grasso, pronto ad assicurare alla famiglia carne a volontà. I contadini tengono fermo il maiale e il norcino, con un coltello appuntito ed affilato, lo scanna. Per facilitare la pulizia dell’animale viene gettata sul maiale l’acqua bollente. Ora il maiale, dopo essere stato pulito delle setole, viene tagliato a metà.
La vescica viene gonfiata e sbattuta continuamente sul tavolo o sulla pietra per renderla più sottile: servirà ad insaccare lo strutto. Il norcino poi macina la carne per le salsicce, mettendovi una parte di grasso per mantenerla più morbida. Alla carne e al grasso vengono aggiunte altre sostanze per conservarla meglio e per renderla più gustosa: il sale, l’aglio, il pepe, le spezie; la carne così macinata e insaporita viene infilata nelle budelluzze e con lo spago vengono legate e acquistano così l’aspetto di tanti salamini.
La carne del maiale così custodita veniva conservata dalle famiglie benestanti nelle dispense ben arieggiate; tutte le altre famiglie mettevano bene in mostra, come grascia appesa in cucina o sopra il tavolo o vicino alla cappa del camino, le salsicce venivano divise in tante parti quanti erano i membri della famiglia. Lonze, capocolli e prosciutti venivano rotti a Pasqua o conservati per i pasti durante i lavori dell’estate.
LE GUITTARIE
(Da Tuscania non c’è più! –
Quando nelle piane e nei colli degradanti verso il Tirreno la spiga di grano si faceva oro e la mietitura si approssimava, dai paesi limitrofi giungevano lavoratori a mettere a disposizione le proprie braccia.
Gruppi di gente poveramente vestita, con la falce avvolta in panni, perché non si rovinasse, con un piccolo sacco contenente misere cose, invadevano Tuscania. Seduti presso gli scalini della chiesa di San Giovanni o sdraiati sotto l’arco del Sor Imperio o presso Livietta, Fuori Porta, restavano in attesa che qualche possidente terriero li chiamasse al lavoro.
Una volta assunti dovevano raggiungere a piedi le varie fattorie delle tenute, che distavano a volte molti chilometri dal centro abitato. Li attendeva il caporale il quale dava loro sistemazione in capannoni o stalle unitamente alle donne e ai bambini. Questi locali, che videro la più umiliante promiscuità furono chiamate guittarie…
Quanti ancora ricorderanno le lunghe settimane trascorse nelle tenute? Con quale ansia attesero l’arrivo del porta spese per potersi cambiare qualche capo di biancheria!…Oggi la malaria è debellata. Ieri regnava sovrana negli acquitrini dei campi e a nulla giovava il chinino che veniva distribuito ai lavoratori. Quante volte si vide passare la lettiga trainata da cavalli accorrente sul posto di un incidente o a raccogliere un povero febbricitante?
Ci rallegriamo che la nostra gioventù non abbia conosciuto le guittarie, non senta più la milza ingrossata, non soffra il predominio di pochi, eppure sentiamo la necessità di rammentare ai nostri giovani le sofferenze dei padri.
LA FONTANA O LAVATOIO

Di solito i panni in una famiglia venivano lavati dalla madre e dalle figlie, però c’erano delle lavandaie di professione, povere persone che giravano per le case delle persone benestanti e dopo aver lavato i panni venivano pagati con un po’ di formaggio, pane, olio e pochi soldi. I panni, dopo essere stati lavati e portati a casa, venivano imbiancati con la cenere; naturalmente solo i panni bianchi subivano questo trattamento.
Le lenzuola e i capi di vestiario bianchi venivano messi in un tino di legno con un buco nel fondo; poi erano ricoperti con un telo che serviva a non far passare la cenere che veniva posta sopra. Sulla cenere veniva poi versata l’acqua bollente e il bucato era lasciato così per circa tre ore.
Le case patrizie avevano il bucataro, cioè un apposito locale con una fontana adibita esclusivamente a questo scopo. Finito il tempo dell’imbiancatura il tino veniva stappato, si levava quindi il telo con la cenere e i panni erano risciacquati e in fine messi ad asciugare. Il lavatoio era un luogo caratteristico del paese, perché era qui che si raccontavano i fatti e i misfatti del giorno e si orchestravano i più piccanti pettegolezzi sulle persone più in vista del paese.
Il tribunale di “fontana nova”
Quando ero un ragazzo, condottovi da mia madre, amavo frequentare quella specie di Circolo culturale, dove tutti i problemi, anche quelli più scabrosi, venivano discussi e risolti alla presenza del pubblico e con le porte aperte.
Da una canna di ferro l’acqua irrompeva limpida e fresca e cadeva gorgogliando in una vasca. Al mattino presto giungeva la casalinga seguita dalle altre, coi grossi cesti pieni di panni da lavare e, dopo che ognuna aveva occupato il suo posto, aveva inizio il lavoro e l’udienza era aperta.
Allegramente tra lo sciacquio dei panni e l’acqua della vasca che si andava sporcando, l’ambiente si animava di voci argentine e sembrava che anche l’aria si inquinasse con le parole che uscivano da quelle bocche dalle labbra coralline.
Ai miei tempi, il forno dove si cuoceva il pane e la fonte dove le donne si recavano a lavare i panni sporchi, erano Camere di Consiglio e Aule di Tribunale, dove le casalinghe discutevano tutte le cause di carattere morale che affliggevano il paese.
Quelle donne molto superstiziose forse avranno pensato che il fuoco del forno e l’acqua della fonte agissero come agenti purificatori.
I reati che venivano discussi in quelle sedi erano di natura varia: lettere anonime furti di vario genere, calunnie, malversazione, violenze carnali, modi di vestire, modi di parlare, corna di vario genere, invidie, gelosie, rancori e tante altre cose altamente istruttive.
E non si pensi che nei giudizi si fermassero alle persone incriminate.
Senza l’aiuto del casellario si ricostruivano i precedenti delle persone incriminate.
In questi casi i giudici, gli avvocati, i testi a carico e quelli a discarico si creavano da soli per affinità elettive.
E la fonte con la sua lunga vasca riparata da un tetto di tegole, era l’aula delle udienze. Poteva accadere che una causa iniziata nell’aula del forno finisse con un verdetto di assoluzione o di condanna nell’aula della fonte.
Le cause erano inappellabili. L’esito delle cause discusse in quei sacrari, che le donne avevano dedicato alla purezza dei costumi, in pochissimo tempo e senza affissione di manifesti, era conosciuto in tutto il paese.. Poteva accadere ancora che nella foga delle discussioni sfuggisse qualche pettegolezzo, provocato a bella posta o per vecchia ruggine esistente tra le parti, o affiorasse qualche elemento offensivo nei confronti di qualche persona presente, ed era questo l’inizio di una battaglia nella quale venivano sacrificati tutti i segreti morali o immorali delle parti contendenti.
In questi casi non era difficile vedere uno spettacolo edificante che si manifestava con il lancio di mutande bagnate, calzini, sottovesti o altri indumenti, se le contendenti erano divise dalla vasca; dai graffi e dalle prese per i capelli, se la vasca non le separava.
In conseguenza di ciò si formavano subito le parti pro o contro e la lotta assumeva un carattere generale.
Mentre alcuni uomini, attratti dal vociare irato, si fermavano a rispettosa distanza a godersi lo spettacolo, noi ragazzi approfittavamo di quei momenti per andare a togliere il tappo della vasca e osservare felici il grosso getto d’acqua sporca che fuoriusciva con violenza e sembrava che la stessa vasca fosse felice di liberarsi allegramente di tutte le maldicenze che quelle buone lingue vi avevano deposte.
Quelle buone lingue erano le nostre madri. Le madri del futuro. Erano le madri di tutto il mondo.
Remo Amici
LA FIERA
(le immagini sono indicative) Quanti Tuscanesi conoscono la storia della fiera di Tuscania? Pochi! Tanto più che oggi, per trovare un tuscanese autentico, che discenda dal ceppo ci vuole la lanterna di Diogene.
La prima notizia della fiera risale al 1420
Iniziava il primo di maggio e durava quindici giorni.
Nel 1582 Gregorio XIII riformò il calendario ed ordinò che il 6 di ottobre di quell’anno venisse considerato il 15 ottobre.
In tal modo la fiera veniva anticipata di dieci giorni e nel 1596 con bando per la prorogazione della fiera il Cardinale Gaetano, Camerlengo, la spostava al 10 maggio, perché “…molti anni accade che per essere la stagione fredda i pastori non han possuto al tempo della fiera tosar le pecore e per questo e perciò non possono portar le lane in detta fiera e goder la libertà e commodi di essa e per questo e per molti altri aspetti vien diminuito il concorso di detta fiera”.
La vigilia (9 maggio) i frati Minori del Convento del Riposo andavano in processione alla chiesa dei Santi Martiri; cantavano l’Ave Maris Stella, poi si recavano alla Rosa dove venivano benedetti tre Palii che si disputavano l’11, il 12 e il 13 maggio. Il primo si correva lungo la strada dell’Olivo (la strada che conduceva a Tarquinia) il secondo al Riposo e il terzo nell’odierna piazza del Duomo.
La mattina del 10 maggio tutte le autorità si recavano in piazza del Comune per attendere il Governatore che veniva da Viterbo, che portava le nomine dei due Capitani della fiera. Questi avevano il compito di decidere tutte le cause e le liti che fossero accadute nei quindici giorni dal 10 al 25 maggio. Poi al suono delle campane e del campanone del Comune la fiera aveva inizio.
Quella che si svolge oggi è una pallidissima idea della grande fiera di un tempo.
Una folla immensa si riversava dal contado in quei giorni a Tuscania: brulicava nelle vie, bivaccava nelle piazze, vociava. gridava, urlava. Nelle piazze si allestivano anche bettole volanti, dove tra un bicchiere e l’altro si lanciava qualche insulto, partiva qualche schiaffo se non addirittura qualche coltellata.
E c’erano i soliti saltimbanchi, imbroglioni, truffatori, spacciatori di segreti. E c’erano senz’altro perché in una lettera della Sacra Congregazione si legge che “chi vuole esercitare giochi di qualunque specie o dispensare balsami e segreti deve pagare gabella ad arbitrio dei Capitani.”
Una cosa c’è da mettere in risalto: era proibito agli zingari l’ingresso in città per tutto il tempo della fiera (…non possono i capitani dare licenza alli zingari per non tener mano alle frodi).
Nel pomeriggio del primo giorno (10 maggio) si correva il Palio dell’Olivo. Il Governatore di Viterbo, i Capitani, le autorità o partecipanti al palio stesso ed il popolo tutto si recavano presso al chiesa della Rosa; prendevano il palio benedetto e poi in processione tutti si avviavano verso l’Olivo dove iniziava la corsa.
Una volta –
Ma durante la corsa, proprio davanti al sacello, cavallo e cavaliere stramazzarono a terra e morirono.
Oggi la fiera s’è ridotta a ben poco. Colpa del tempo? del progresso? Chissà! forse anche dall’apatia dei tuscanesi..
LA DIOSILLA
Volgarmente chiamata “Diosilla” era la sequenza usata nella Messa per i defunti; Da Dies irae, dies illa. Naturalmente la Diosilla, quella soprattutto recitata da Bardo era completamente diversa dalla sequenza, attribuita a Tommaso da Celano questo il testo della nostra Diosilla, che Bardo struppiava e recitava a modo suo:
Diosilla, Diosilla
Servi in secoli in favilla.
Scrisse David con Sibilla.
Gesù mio, con gran dolore
verrà ‘l giudice con furore
a giudicare ‘l peccatore.
Sonerà la ribbel tromba
tutti i corpi a suon di tromba
a giudizio con gran romba.
Sorgerà morte e natura,
sorgerà la creatura
dall’antica sepoltura.
Andaremo al tribunale
dove è scritto il bene e i male.
Avanti a un giudice seguente
pene e colpe Dio ci terrà presente.
Chi sarà da Cristo assente?
Chi sarà per noi procura?
Le bon’opere son giuste e son sicura.
O tremenda Maestà
salva l’omo per tua bontà.
Ricorriamo a Gesù pio,
uom ti facesti per conto mio;
non ci perdere in questo rio!
Ci creasti e ci salvasti
nel legno della Santa Croce ci comprasti,
ma fa che alfin ti abbasti.
Tribunal di contrizione
avanti a Dio si fa ragione
la nostra santa remissione.
Come reo balordisco,
le mie colpe non ardisco.
Maddalena l’assolvesti
al buon ladron pietà l’avesti.
Le mie preghe non son degne,
Voi, Signor, fatele degne,
che non vadano in basso regno
fra le dee separate.
Separate i maledetti
giù nel foco eterno stretti.
Anderemo in terra china
Pregheremo la Santa Bontà Divina
che abbia cura del lor fine,
che non vadano in terra danne
condannato a tante affanne.
Voi, Gesù, giusto e pietoso,
Diosilla lacrimosa
Dà pace e riposo
All’anima dei nostri poveri morti.
L’INVASIONE DELLE CAVALLETTE
Nel settembre del 1576 Tuscania e le zone limitrofe furono invase dalle cavallette. Non si trattò di una invasione improvvisa, perché già nei mesi precedenti le cavallette erano apparse qua e là a gruppi danneggiando e distruggendo in parte i raccolti; ma nel mese di settembre l’invasione fu totale, allarmante.
Bisognava ricorrere ai ripari: fu deciso di cominciare “a cavare l’ova” con quanti uomini fosse stato possibile, dando a ciascuno come ricompensa un “giulio” al giorno. Spesa non indifferente cui veniva incontro il Comune le cui finanze erano più che traballanti. Nel memoriale, infatti, inviato dal sindaco Benedetto Benedetti al conte Mario Fani “concive et oratore in Roma” perché intervenisse presso il Pontefice e presso il Cardinale Alessandro Farnese per ottenere aiuti, si legge:
–
Era necessario quindi che in una simile situazione “Sua Santità si degnasse di abbracciare et agiustare questa comunità di tutte le altre più povera ma fedelissima a Sua Beatitudine et a Santa Chiesa et si degnasse ancora supplire a quella spesa che meio per lei sia stata necessaria”
Le ova furono cavate, ma non tutte, perché le cavallette aumentarono di numero smisuratamente distruggendo e devastando tutto. Fu ordinata allora una vera mobilitazione.
Tutte le famiglie di Toscanella dovevano allora raccogliere almeno “quattro mazzarelle di semi di grillo” e consegnarli al Governatore il quale rilasciava una ricevuta attestante la consegna.
Verso il mese di maggio del 1577, in seguito al suddetto provvedimento si poteva credere che le uova fossero state completamente distrutte. Adesso bisognava passare alle cavallette. Bisognava distruggerle prima che covassero di nuovo le uova. E furono usati porci e lenzuola.
Tutti i porci del nostro territorio furono radunati e divisi poi in sei branchi guidati dai sei uomini a cavallo che li conducevano in quelle zone più fortemente colpite. Per quanto riguarda le lenzuola tutti i cittadini più facoltosi furono obbligati a versare al Comune due paia di lenzuola ciascuno. Con le lenzuola venivano fatti grossi teloni e ogni telone veniva dato in dotazione a cinque uomini: si trattava di un metodo un po’ empirico eppure dobbiamo credere che sortì l’effetto sperato. Sul far della sera i cinque uomini col telone venivano nella zona che era stata indicata da dieci “ricognitori” e poi, giunti sul luogo, quattro uomini tenevano per le cocche il telone mentre il quinto a suon di “curiato” cercava di accopparne quante più ne poteva.
Nel mese di giugno il Pontefice pubblicava l’elenco delle città e delle terre che erano state tassate con diverse somme in rimborso delle spese sostenute dalla Curia per l’estirpazione dei grilli. Toscanella fu tassata per 6.000 scudi. Somma questa che il Comune non avrebbe mai potuto pagare per le sue disastrate finanze, e furono spedite perciò varie delegazioni al cardinale Farnese, al cardinale Guastavillano, ma il Pontefice fu irremovibile: bisognava pagare per evitare rappresaglie se non addirittura l’interdetto e il Comune si trovò ad ingoiare una pillola molto amara: la vendita di Poggio Martino, ma a trattare l’acquisto di questa bandita non si presentò nessuno e gli imbarazzi del Comune per il pagamento della tassa dei grilli aumentavano di giorno in giorno.
Fu bandita alla fine un’asta e allora si presentarono Francesco Giannotti, che offerse tremila scudi e Cristoforo Ciotti che ne offese tremilacinquecento. Non essendosi presentato nessun altro la bandita fu aggiudicata a Cristoforo Ciotti, il quale pregato dal Sindaco e da tutti i consiglieri elevò l’offerta a quattromila scudi.
Il Comune, che pochi anni prima aveva tenacemente lottato per non privarsi di Poggio Martino, fu ora, a causa dei grilli, costretto a disfarsene.
Dal patrimonio di Toscanella se ne va Poggio Martino, ma non se ne vanno le cavallette e siamo nel marzo del 1578. Anzi c’è di più, viene invaso Montebello, la Carcarella e allora il Comune con un atto di forza ordina a tutti i cittadini di spandersi per le campagne e distruggere con ogni mezzo tutte le cavallette previa la multa di due giulii per ogni rifiuto.
Questa impennata del Comune portò i suoi frutti perché di grilli nei libri contabili del Comune dopo quell’anno non se ne fa più menzione: anche se questi rimasero, e parecchi, nel cervello di molti tuscanesi.









