Mauro Loreti

Mauro Loreti

 

 

Angelo Tartaglia di Lavello



Scrisse Secondiano Campanari : “Dei condottieri d’arme di che allora era piena l’Italia e nella guerra reputatissimi andava in voce Angelo di Lavello Tartaglia prode uomo e gagliardo, di animo vasto e rivolto a grandi ed animosi fatti … Sapeva costui come ispauriti e sbattuti i toscanesi dalla strage dell’Orsini, lontani da ogni nuovo sospetto di violenza, disarmati o inutili alla difesa, vivessero abbandonati con poca guardia; perché pensava che introdotto in un subito buon numero di gente eletta la quale opprimesse sprovvedutamente i capi del magistrato nelle proprie lor case, era agevole l’impadronirsi della terra.  …  levato l’esercito dalla vicina Toscana dove stavasi con sua gente e dello Sforza di Cotignola al servigio della repubblica ( di Siena ) e camminando con la gente in schiera tacitamente, avvicinossi di furto alle mura, e spenta la notte,  giù assaltò gagliardamente due porte della terra, che sfasciate e sturati i passi accolsero dentro il nuovo e feroce scherano. E per un pezzo s’affaticò per ritenerlo, nato un contrasto, il debole presidio ch’era alla difesa dell’entrate; ma, prevalendo gli assalitori in numero ed in  virtù, furono astretti (costretti) i difensori a sottrarsi. Avuto il Tartaglia per forza il paese, lo corse e rubò d’ogni sostanza, e di molta preda; le ruberie, le presure, le rapine di che visse sempre costui  ne’ tredici  lunghissimi anni  (1409-1421) che tenne la terra a malvagia ed iniquissima tirannia. … e aveva 2500 cavalli di buon apparire dentro la città dov’era despota e d’onde mandava suoi comandamenti alle terre soggette taglieggiando baroni, vassalli, cittadini e facendoli al bisogno impiccare, o tagliare a ghiado (con la spada) dal balio (balivo cioè dal giudice) e da sergenti che assai bene conformavansi alla maniera del signore.

 
E i giudizii suoi erano ingiusti, la taglia che poneva a’ cittadini grandi , popolani e nobili gravissima. Venuto il Tartaglia nella grazia del papa, concedevasi a lui in vicariato (nel 1410 e poi in contea  nel 1421) Toscanella colle usurpate castella, e spedivalo l’anno appresso il papa nel regno di Napoli a danni della regina Giovanna, amica prima, nemica allora al pontefice, per unirsi allo Sforza e a Lodovico d’Angiò che arrivato era al mezzo agosto di quell’anno con sue galee e forte ciurma e soldatesca per combattersi al pari con lei. Ma siccome fu vero sempre che se campa il ladro dalle forche una volta e non v’ha guari (molto) che v’è menato; era l’ora del tempo suonata che questo ghiotto (avido) da capestro (da impiccare) dovesse finalmente mal capitare; perché entrato lo Sforza in sospetto che costui, gettata via la fede promessagli,  portata a Braccio cercasse vituperarlo e fargli mal garbo (atto scortese), fattolo collare (con la corda al collo) e mettere al tormento, seppe cose sue per sua confessione che a lui ne seguì vergogna assai e assai pericolo, sicché, mozzatogli il capo, lo si levò dinanzi. Né mai furono i tuscanesi sì lieti quanto allora, sentita la novella ; e fuochi e baldorie e festa si fece per più dì ed allegrezza grandissima e solenne quanto mai in alcuna città per alcuna propria vittoria si facesse. E fecero popolo colla insegna a croce del Comune, a cui diedero la guardia della terra, e la sbirraglia del Tartaglia rimossa , elessero lor capitano, gonfaloniere e anziani del popolo che, al modo che anticamente adopravano, pigliassero lo stato e la signoria della città, riformato il consiglio senza deliberazione del quale nulla spesa o gran cose si potesse arrischiare ed imprendere.
 
 
E così fermato, nuovamente s’ordinò il corso del Comune e popolo di Toscanella dell’anno di Cristo 1421. E ancora si fermò che, distrutti gli antichi fii (balzelli) de’ tartaglieschi, per più fortezza de’ signori del nuovo magistrato tutte le torri che n’aveva nel paese gran quantità si tagliassero alla misura di cinquanta braccia, e prima quella del Tartaglia, non mica del podestà e della signoria che alle altre dovevano soperchiare (superare). Perché poi insigne rubatore era stato costui, sicché delle robe e ricchezze de’ toscanesi  erasi smisuratamente arricchito, il pubblico consiglio fece ordinamento che a tutti fosse data licenza le perdute e mal tolte cose in quel modo ch’ei potevano ricuperare, e ritornato in primo il Comune al possesso degli occupati castelli, il popolo entrato a furia nelle sue case, e ogni nobile ricco arnese e fornimento e masserizia le disertò (tolse). E come hanno infelice fine i tristi la ebbe il Tartaglia: esempio veramente grandissimo di fortuna (sorte) vedere un assai valoroso e potente capitano di guerra da tanto grado e balia (autorità) in tanta infelicità con tanta rovina e con tal vilipendio cadere.”   Nel 1415 Angelo Tartaglia  fortificò la sua torre facendo costruire una cinta,  ovvero calza intorno,  con il suo simbolo e quello della Comunità di Toscanella.
 
 
Vicino alla torre costruì il suo palazzo con gli stemmi e le iniziali del suo nome. Continuò  Teodosio Laurenti : “ Tartaglia in l’anno piovve di Toscana con quella furia con cui giù si stacca masso da cima di scoscesa frana a Tuscania nel sen che doma e fiacca era ancor dalla strage (dell’Orsini) e colorato in rosso Larte ( il fiume Marte) ed ogni tosca lacca (valletta). Quasi densa muraglia d’ogni lato dall’assassina e micidial masnada (schiera) di tutti i prodi suoi guerrier serrato rotando in atto la fulminea spada rompe della città l’armi e le mura e s’apre dentro per due porte strada. E incende e abbatte e ogni sostanza fura (ruba); solo del brando (spada) alla ragion s’affida e più ne strugge (uccide) e più la sete dura. Crollano e case e templi … a morte sfida il suon … col croscio (rumore) delle fiamme ardenti sol s’odon pianti e disperate grida. Piangon le spose i lor mariti spenti,  o li rattengon dalla pugna solo coll’ingegno de’ pianti e de’ lamenti coll’indicar de’ figli lor lo stuolo (il gran numero) . Il sol velato di tenèbre vaste par che accompagni di Tuscania il duolo (dolore).Ovunque scorgi lo spavento! Caste vergini o spose sono morte, o d’angue (serpente) da impuro morso violate e guaste … La madre abborre (ha in orrore) il non isteril letto e di baci ricopre il figlio intanto che le si strappa dal materno petto … canuto il veglio prostrasi e degli anni detesta il dono, e lacerato il manto (mantello) la morte invoca … Scaltro cresce in sua possa, e in ogni terra con morte scherza ed a ferir l’incita, guasta cittadi e cittadini inferra. E viene e vede e vince in ogni uscita : le vittorie, i trionfi e gli altri onori sol puoi contar co’ giorni di sua vita… O patria mia ancor ti vedo i cigli di pianto molli per cotanti eroi sul campo che pur t’eran figli. Piangi lo sparso sangue ond’empi a noi le vene tutte affettuosa madre solo a  salvarti dai nemici tuoi. Crudo! Strappa i figlioi dal sen del padre che son sostegno della vita stanca per aumentar le micidiali squadre … Qual crudeltade e qual barbarie! Invade col suo furor colti, palaggi, il vile tugurio, e invola le mature biade … Altri col fune che gli pende al collo vedesi penzolar da un’alta trave  sicché cadendo dà l’ultimo crollo … quei  in dolorosa carcere è serrato  questi rotti ne porta e polsi e vene quegli ha la gola e questi il cor segato. Despota infame d’ogni civil bene a chi vita dispensa ed ore liete a chi veleno e morte ed agri pene. Ahi : quando di vendetta e d’or la sete a tiranna e crudel possa s’aggiugne la vita umana come gran si miete. Pur Boccaccino ( di Brunoro , suo compare , il 13 agosto 1415 ) a trucidar ei giugne …”  egli “ Grida : se al sangue mio tua man si tinse … altri verran .. del diffidare (non fidandosi)  e il brando ritorce alfin la punta in chi lo strinse. Godi or del colpo e del mio eterno bando; ma tu che sei di tante stragi ordigno t’avrai tolta la vita ed il comando … Pera (muoia) il tiran che con ingorda ed empia mano diè al sangue ed all’aver di piglio … dice a Tuscania … Spiegò le penne drittamente al cielo l’umil preghiera, Iddio l’intese … Egli in Aversa rapido sen venne. .. Qui venne suscitar le ree scintille di ribellion Tartaglia, e qui gli diero l’acerba morte che egli diede  ai mille …  Dio il volle: è in ceppi chi con finto zelo coll’amicizia prodizion (tradimento) copriva … Fremé ruggì quell’alma disperata ambo le labbra per furor si morse all’affacciarsi delle sue peccata. Il vel squarciato del futuro torse pel carcer gli occhi, in Dio mirò lo sdegno e nelle cose il suo castigo scorse. … Il pensier di sua morte lo trabocca (riversa)in duol più grave che non trova freno, e stracciasi del crin più d’una ciocca. … E mani e piedi di catene avvinto qual di lumaccia (lumaca) s’era il passo lento, di gelido sudore il volto tinto. … Vede il palco feral  (funesto)de’ ladri letto l’alzato acciaro (spada) d’uman sangue caldo, de’ giustizier lo stuolo maledetto. … Come persona che al rumor si desta della mannaja il croscio (rumore) il sonno pria gli ruppe, e poscia gli troncò la testa ch’apriva il labbro a ringraziar Maria. … Tuscania ch’era già madre di studi or di ladri per te fatta spelonca di marte (guerra) scuola e di guerreschi ludi, di leggi cassa (priva) e de’ suoi saggi monca “.
 
 
 
Nel 1421 Muzio Attendolo Sforza d’accordo col pontefice Martino V si unì quindi con l’esercito di Ottino Caracciolo e marciarono su Napoli. Il 17 giugno erano ad Acerra e bloccarono Napoli occupando tutte le campagne circostanti. Arrivarono anche Alfonso d’Aragona, con la flotta ,e  Braccio da Montone in aiuto a Giovanna . Nell’estate del 1421 Angelo Tartaglia, dietro invito del papa,  andò in soccorso di Luigi d’Angiò con 8oo cavalli pontifici ed alcuni fanti contro la regina Giovanna d’Angiò ed Alfonso d’Aragona. Giunse ad Aversa dove si erano fortificati Muzio Attendolo Sforza ed  Ottino Caracciolo , che comandava  anche a Maddaloni,  insieme  furono  a Castellammare di Stabia con 12.000 soldati tra fanti e cavalieri per liberare la rocca dall’assedio dei  bracceschi.  Quindi si diressero  con lo Sforza nella zona di Sessa Aurunca e di nuovo ad Aversa . Tartaglia contattò  di nascosto Braccio da Montone ed allora lo Sforza lo accusò di tradimento e di infido comportamento per aver avuto rapporti con il re d’Aragona e lo stesso capitano di ventura.  Muzio Attendolo pertanto  alla fine del mese di dicembre si recò di notte ad Aversa, fece circondare l’abitazione del Tartaglia, lo catturò e lo consegnò al podestà ed al commissario pontificio Cola Quarto.  Per ordine del papa  il Tartaglia fu torturato e decapitato nella piazza del mercato nei primi di dicembre  e fu sepolto nella chiesa di Sant’Andrea. Il palazzo di Tuscania fu confiscato dallo Stato Pontificio ed utilizzato dalla Reverenda Camera Apostolica per l’amministrazione e la gestione della dogana dei pascoli. Nella chiesa di Santa Maria della Rosa in  Tuscania c’è un suo stemma nella facciata ed un altro  nella navata destra  in un bassorilievo di nenfro, la pietra vulcanica locale, dove era l’ingresso alla sua cappella  che fece costruire durante la sua signoria. Nel 1999 durante i lavori di ripulitura di un ambiente, vicino al campanile della chiesa, sono stati trovati alcuni resti della cappella gentilizia: una grande colonna con il capitello, alcuni affreschi,un altare, un pavimento ed una colonna tortile . Facevano parte della cappella che non fu completata per la repentina morte. La sua insegna presenta un leone rampante con due cordoni annodati. 
Loreti Mauro
 
 

Il Cardinale Consalvi

il Cardinal Ercole Brunacci Consalvi


 
 
Nei catasti del 1500 di Toscanella si legge che, all’epoca, risiedeva in città Ercole di Consalvo il quale possedeva dei terreni nella contrada del fosso Capecchio. Il nome Consalvo ha un’origine germanica e significa “colui che ha il coraggio di proteggere”; poi il cognome ha preso la vocale i finale. Probabilmente questa famiglia era di origini longobarde e la loro presenza nel Ducato di Benevento, estrema propaggine meridionale del dominio longobardo in Italia nelle attuali regioni Campania, Puglia, Basilicata, Calabria, Molise e Abruzzo, fece diffondere in quelle zone il loro cognome.
 
Nel 1599 Artibaie Consalvi era consigliere comunale e nel 1614 controllò i lavori per la costruzione della fontana nella piazza di Sant’Antonio, che ora si trova in piazza Italia a Tuscania. Nel 1590 Ercole era un sacerdote canonico della cattedrale di San Giacomo Apostolo Maggiore. Nel 1629 Paolo di Artibaie ottenne l’acqua della nuova conduttura per il servizio del suo austero palazzo, che presenta un prospetto rigido, che possiamo ammirare in via Cavour, ex strada maestra, sotto la cura di San Marco: fu costruito agli inizi del 1600 ed ampliato nel 1700; la facciata posteriore comunica con un’appendice avanzata, risalente alla fase dell’ampliamento, e termina in un terrazzamento pensile. In seguito fu acquistato dal marchese Alessandro Car- cano sposato con Maddalena Persiani, già affittuaria dell’immobile, e nel 1908 dal conte Enrico Pocci, il cui nipote Cesare oggi vi risiede.
 
Nel 1634 Ercole di Artibaie fece domanda per l’acqua e nel 1649 fu uno dei due Rettori della bandita della Riserva dèi bosco di Toscanella.
 
Nel 1638 Cristoforo di Artibaie, sposato con Livia Ragazzi, altra famiglia importante di Tuscania, acquistò le erbe comunali nella tenuta di San Lazzaro di Toscanella, per l’allevamento della sua masseria di ovini. Dal 1697 al 1710 tra le monache coriste nel monastero di San Paolo erano anche le due sorelle Maria Antonia e Rosa Geltrude Consalvi.
 
Nel 1713 era presente soltanto la seconda. Nel 1701 il tenente Artibaie di Cristoforo era consigliere comunale, seguì i lavori di costruzione del nuovo ponte sul fiume Marta e s’interessò anche per fare aggiustare la campana comunale e l’orologio sulla torre del Bargello; coltivava e raccoglieva il grano anche per l’esportazione.
 
Nel 1708 fu anche vice Governatore di polizia e presiedette le aste pubbliche a garanzia del rispetto della legge. Nel 1709 s’impegnò nel controllo dei lavori di ricostruzione delle mura cittadine; nel 1710 era il santese del monastero di Sem Paolo e sopraintendeva Eli lavori e alle necessità della chiesa e delle monache; nel 1720 fu uno dei caporioni al comando delle guardie a una delle tre porte della città per evitare la diffusione della peste.
Villa Pieri
 
Dal 1711 l’abate Giovanni Domenico di Girolamo fu gonfaloniere ed era anche uno degli imprenditori più importanti di Tuscania insieme al conte Francesco Galeotti, al conte Vincenzo Fani e al capitano Francesco Pocci nelle attività dei molini a grano, a olio e dei mattatoi. Era fratello di Ercole Pietro che nel 1734, non avendo figli, lasciò i suoi beni al nipote Giovanni Gregorio Brunacci, figlio della sorella Giulia Antonia e di Francesco Felice Brunacci, con l’obbligo di assumere e ritenere perpetuamente il cognome e l’arme di Casa Consalvi. Chiese tra l’altro che fosse aumentato il fondo della cappellata della loro famiglia nella chiesa di San Marco e che fosse elargito alla Compagnia di San Giuseppe un lascito, con cui distribuire le doti, di scudi trenta in moneta, alle povere zitelle nubili, native della città di Toscanella, da estrarre a sorte nel giorni della festa di San Giuseppe con l’intervento degli ufficiali.
 
Giuseppe Brunacci Consalvi, figlio di Giovanni Gregorio, si sposò con la nobile modenese Claudia Carandini ed ebbe i figli Ercole Giuseppe, il futuro cardinale, nel 1757, poi Giovanni Domenico, Carlo Antonio nel 1759 che visse solo un anno, Andrea Gregorio e Giulia nel 1762. Nel 1763 Giuseppe si ammalò gravemente a Roma per cui il nonno Giovanni Gregorio e la nonna Maria Angela Perti portarono i nipoti a Tuscania dove vissero per un po’ di tempo. Nel 1763 morì la piccola Giulia e fu sepolta nella chiesa di San Marco. Poco dopo morì anche il papà Giuseppe. 11 fratello Giovanni Domenico morì giovane in collegio a Urbino. La sorella di Claudia, la contessa Anna Carandini, nel 1758 a Pesaro si sposò con il nobile di Tolentino Domenico Parisani. Il loro figlio Francesco Saverio Parisani, generale delle milizie a Roma, cugino di Ercole, prestò il suo palazzo per la firma del Trattato di Tolentino nel 1797 tra Napoleone Bonaparte e il papa Pio VI, Giovanni Angelo Braschi: i francesi ripresero Avignone e il contado Ve- nassino e occuparono le legazioni di Bologna, Ravenna, Ferrara e Forlì. Il fratello di Saverio, Annibaie Parisani era il Direttore delle Dogane nella capitale. Dal 1711 al 1714 Ercole Pietro ebbe l’incarico di Tesoriere dell’appalto delle Dogane pontificie.
Lo stemma del Cardinal Consalvi
 
Nel 1715 fu scritta una lapide per Pietro Paolo canonico della cattedrale di San Giacomo Apostolo Maggiore, che in vita si era impegnato alacremente per il capitolo ed i parrocchiani. Nel 1721 i fratelli Ercole Pietro e Don Giovanni Domenico di Girolamo, insieme ad altri due consiglieri comunali, portarono gli auguri della Città di Toscanella a Roma, a Michelangelo Conti già vescovo di Tuscania e Viterbo, che era stato eletto papa con il nome di Innocenzo XIII. La tela del transito di San Giuseppe nell’omonima chiesa, fu commissionata da Ercole Pietro; lo si evince dallo stemma sul quadro che è solamente quello dei Consalvi.
 
Dal 1736 al 1758 diversi Consalvi ri-coprirono la carica di consiglieri comunali. Dal 1739 al 1743 Giovanni Gregorio Brunacci Consalvi fu il tesoriere dell’appalto delle Dogane: risiedeva nel palazzo di famiglia e ottenne l’acqua da condurre al suo podere, immediatamente a nord della città; nel 1793, come Gonfaloniere del popolo di Toscanella firmò gli atti notarili relativi al contratto con il capitolo della cattedrale per la gestione della cappella dei santi martiri protettori Secondiano, Veriano e Marcelliano. Dal 1761 per alcuni anni i fratelli Andrea ed Ercole Giuseppe Brunacci Consalvi presero in affitto una delle otto parti delle erbe dei terreni di proprietà del Comune di Tuscania. Nel 1768 Giovanni Gregorio prese in affitto la tenuta di Montebello dalla Reverenda Camera Apostolica. Nel 1770 i Consalvi, nelle riunioni degli allevatori di Toscanella, si facevano rappresentare dall’agente don Alberto Persiani, che era molto stimato dalla popolazione. Nel 1777 anche i Consalvi usufruirono delle erbe dei terreni comunali.
 
La residenza dei Conti Pocci
 
Dal 1782 don Alberto Persiani collaborò a mezzo con Giovanni Gregorio nella gestione di Montebello fino al 1804. Nel 1793 la tenuta di Montebello di rubbi 1.706 (ettari 3.153), di pieno dominio della Reverenda Camera Apostolica dello Stato pontificio, fu affittata a monsignor Ercole e al marchese Andrea suo fratello per rubbi 712 (ettari 1.316), al capitano Vincenzo Turriozzi per rubbi 254 (ettari 469), all’abate Fabrizio Turriozzi e al fratello Giuseppe per rubbi 375 (ettari 693) e ai fratelli Angelo Antonio e Giovanni Francesco Persiani per rubbi 365 (ettari 675). Nei 1806 il solo fratello Andrea prese in affitto la tenuta dal marchese Domenico Lavaggi, nuovo proprietario, per 12 anni; nel 1807, alla morte di Andrea, il contratto tornò al cardinale fino al 1818. Accusato di aver avuto parte nel doloroso episodio del dicembre 1797 in cui rimase ucciso a Roma il generale francese Mathurin Léonard Duphot (colpito da un colpo di archibugio sparato dal caporale Marinelli delle truppe pontificie guidate dal tenente conte Gerolamo Montani di Montefiore del- l’Aso di Ascoli Piceno), monsignor Ercole Giuseppe dovette, appena proclamata la Repubblica romana, recarsi in esilio nel Regno di Napoli, poi a Livorno e alla Certosa di Firenze dove incontrò il papa Pio VI che in agosto morì a Valenza in Francia. Consalvi partecipò con grande impegno al successivo conclave di Venezia dove fu eletto il cardinale Barnaba Chiaramonti di Cesena con il nome di Pio VII, che scelse il nostro come Segretario di Stato, ufficio che tenne fino al mese di agosto 1823, salvo un’interruzione nel periodo della lotta con Napoleone (1809-1814). Ebbe sempre un’impronta di moderazione e un tono di signorilità. Nel 1798 monsignor Ercole e suo fratello Andrea avevano in affitto una mandra e un mandriolo in località Pantalla nel comune di Tuscania di rubbi 20 (ettari 37), in cui costruirono una casa colonica e piantarono alberi da frutto. Possedevano un altro terreno a Castel d’Arunto di 21 rubbi (ettari 39), dove ancora c’è un’antica torre del castello costruita in tufo e in nenfro, le pietre vulcaniche di Toscanella.
 
Nel 1800 Ercole fu creato cardinale e ricoprì la carica di Segretario di Stato. La loro famiglia possedeva anche la villa immediatamente fuori Tuscania, lungo la strada per il lago di Bolsena, composta da quattro stanze al pian terreno ed altre tre stanze al piano superiore. Vi trascorrevano le vacanze. Nel medesimo terreno co-struirono anche un altro casale, composto di una stalla al pian terreno e una stanza al piano superiore per il custode. Accanto al detto casale un piccolo recinto di muro con una stan- ziola ad uso di gallinaro. Questi im mobili furono venduti intorno al 1850 alla famiglia Paoletti, originaria di Montefiascone; in seguito furono acquistati dall’avvocato Pieri Vincenzo: le sue pronipoti Patrizia e Claudia Sensi vi hanno posto la loro residenza.
 
Il 31 gennaio 1805 vi fu un’inondazione del Tevere e Consalvi riedificò Ponte Mollo, ora Milvio, la cui parte verso la città di Roma, che negli ultimi anni era stata rifatta in legno, era stata asportata dalle onde. Nel mese di maggio attese a Nepi il papa reduce dalla Francia e con lui rientrò in Roma. Nel 1808 il cardinale era intimorito dalla previsione del peggio e dal male che già vedeva nell’invasione francese. Era sicuro che le sue idee e la sua condotta lo avrebbero esposto alla persecuzione, come accadde. Il cardinale espresse poi la sua disapprovazione contro il divorzio di Napoleone e il suo secondo matrimonio, per cui nel 1810 fu esiliato a Reims. Appena partito dall’Italia i francesi ordinarono al vergaro Luigi Amantini e al fattore Lorenzo Pacini, i quelli lavoravano per i Consalvi e per i Persiani, di riunire tutto il bestiame per poter procedere alla conta. L’agrimensore Carlo Antonio Marcelliani completò l’elenco dei terreni e delle semine; poco dopo il Ricevitore Du Fontaine dichiarò loro che tutti i beni mobili e immobili, i bestiami e gli altri generi venivano sequestrati a nome di Sua Maestà Imperatore e Re Napoleone Bonaparte. Il cardinale possedeva anche il palazzo Maccabei in via della Cava, ora via Vincenzo Campanari, nella contrada Montascide, vicino alla chiesa della Rosa e al primo palazzo della famiglia Pocci, che veniva usato come granaio e come servizio dei pecorari che lavoravano nella sua masseria. Questo palazzo era stato di Terenzia Maccabei e di suo marito Costantino Brunacci e, per eredità, era arrivato alla famiglia del cardinale.
 
Durante l’esilio il nostro scrisse le Memorie sulla sua vita, sul suo ministero, sul conclave di Venezia e reiezione di papa Pio VII, sul concordato del 1801 e sull’imperatore. In quell’anno i terreni dei fratelli Consalvi erano amministrati da Giovanni Francesco Persiani. Nel 1812 Antonio Quaglia e Giuseppe Angelo Arrighi sottoscrissero un elenco del bestiame della tenuta di Montebello di 1.800 rubbi (ettari 3.327), che il cardinale aveva in affitto e che gestiva con Vincenzo Persiani: pecore 1.461, agnelle 242, becchi e capre 138, caprette 20, cavalle 47, tori 2, stacche, staccate dall’allattamento, 9, stalloni 3, puledri 17, castroni 10, vacche 28, manze 11, bovi aratori 27, giovenchi 18, somari 6, somare 3 e poltracci, somari piccoli, 3.
 
Nel 1813 visitò Pio VII a Fontaineblau e fu nuovamente relegato a Bézières. All’inizio del 1814, terminato finalmente il giogo di Napoleone, raggiunse a Imola il papa in viaggio per Roma e si recò a Parigi e a Londra per visitare i sovrani, quindi a Vienna per i lavori del famoso Congresso dove fu il plenipotenziario dello Stato Pontificio che difese in modo saggio e con grandi doti diplomatiche in situazioni veramente drammatiche. Fu il primo cardinale che nel 1814 visitò Londra dopo 300 anni. L’Inghilterra nel congresso appoggiò il Consalvi e le nuove leggi anglicane attuarono l’eguaglianza anche a favore dei cattolici. Incaricò Antonio Canova per riportare nelle città italiane le meravigliose opere d’arte che dal 1796 al 1814 erano state trasportate in Francia.
 
Il 22 giugno 1815 il Priore Giovanni Battista Tozzi e il conte Giuseppe Turriozzi scrissero al comune di Toscanella che non era difficile che il cardinale sarebbe ritornato a Roma tra giorni dalla sua legazione felicemente compiuta al Congresso delle alte Potenze Alleate e lo avrebbero omaggiato a nome del popolo tuscanese. L’accademico tiberino Paolo Maria Renazzi scrisse un’ode per il fausto ritorno in Roma del cardinale ministro della Santa Sede presso il Congresso delle alte potenze alleate in Vienna; inizia con questi versi: “Sorgi, o Tebro, dall’urna e la tua chioma di nuovi allori inghirlandando adorna; alle tue sponde l’Orator di Roma Ercol ritorna”. Poi chiama il cardinale come “saldo sostegno, grande nell’europeo senato”, e racconta che si rallegrarono con lui Felsina, antico nome di Bologna, la Romagna, Ferrara, le Marche con i fiumi Chienti, Tronto, Metauro.
 
Nel 1817 il cardinale affittò le case, i poderi, le Riserve, le piccole tenute, la mola a grano con due macine detta La Presutta sotto il poggio di San Pietro sopra il fiume Marta, i prati, i terreni vignati ed olivati alla famiglia Persiani. Aveva anche dei censi o prestiti versati a favore di Enti e privati a Tuscania, Narni, Roma, Vetralla, Perugia e Terni. Nel 1818 l’artista Vincenzo Ferreri da Perugia dipinse il quadro con il ritratto del cardinale che si trova nella concattedrale di San Giacomo Apostolo Maggiore. Il pittore studiò all’Accademia di San Luca a Roma. Nel 1821 il cardinale redasse dei legati con i quali lasciò oggetti preziosi a tante persone tra le quali anche al Brigadiere conte Parisani suo cugino, alla contessa Claudia Aluffi in Carandini sua cugina e Felice Aluffi suo marito, al marchese Giuseppe Carandini altro suo cugino, al marchese Paolo Carandini altro suo cugino e alle famiglie Persiani di Toscanella. Il nuovo papa Leone XIII, Vincenzo Pecci, nominò infine il nostro cardinale prefetto della Sacra Congregazione di Propaganda Fide.
 
Il 24 gennaio 1824 morì nel palazzo della Consulta: “Ercole Consalvi, Diacono Cardinale della Santa Romana Chiesa, a 66 anni circa, munito con tutti i sacramenti, il 24 gennaio in comunione con la Santa Madre Chiesa è morto cristianamente ed il suo corpo è stato trasportato nella chiesa di San Marcello e lì, solennemente esposto, giace nel sepolcro dei grandi. ”Così fu scritto nel libro dei morti della parrocchia apostolica del Quirinale presso la chiesa dei santi Vincenzo ed Anastasio nel rione Trevi. Lo scultore danese neoclassico Bertel Thorwaldsen realizzò un monumento a lui dedicato nel Pantheon, la basilica cristiana di Santa Maria ad Martyres. A Pesaro il 25 giugno Luigi Cardinali pubblicò un elogio alla sua memoria: “Nei fatti di governo la fama del cardinale si allargò in tutta Italia e, vinte le barriere delle Alpi e dell’oceano, riempì del suo nome molta parte di Europa, si esercitò rapidissimamente nelle varie magistrature e nei vari tribunali, nel governo generale delle armi, nella segreterìa del concilio di Venezia, nel ministero del governo statale, nella rifioritura dello stato, nella sicurezza interna, nella pace, nell’esilio sessennale, nel congresso di Vienna dove furono rese al Pontefice le Marche, il Ducato di Camerino, l’alta e la bassa Romagna, il Bolognese, Ferrara ed il ducato Beneventano, nella facilità nell’ascoltare, nella volontà nell’ottenere il bene, ne II’operare il giusto, nel procurare la felicità pubblica e quella privata di ogni cittadino, nel chiamare alla partecipazione del governo i secolari, nei trattati con gli stati e nella propagazione della fede cristiana”.
 
Nel 1840 i consiglieri comunali di Tuscania, quando era Gonfaloniere del Popolo Filippo Anseimi, fecero erigere allo scultore Vincenzo Bondoni il busto di marmo del cardinale, a perpetua gloria della città e a memoria dell’immortale nostro cittadino celebre in Europa, che si può oggi vedere nella stanza della Giunta comunale. Inoltre gli amministratori e il popolo tuscanese, con il consenso di Girolamo D’Andrea, prefetto della provincia di Viterbo, posero una lapide nella basilica di san Pietro in Toscanella per ricordare la pietà e la munificenza dei cardinali tu- scanesi Ercole Consalvi e Fabrizio Turriozzi nel restauro che era stato ultimato. Nel 1844 la famiglia Consalvi, anche a ricordo del nonno del cardinale, Giovanni Gregorio Liberato, fece dipingere ad Antonio Bianchi il quadro Martirio di San Liberato con lo stemma delle famiglie Brunacci e Consalvi. Il santo fu trascinato a Cartagine per ordine del re vandalo Unnerico, ariano, dove subì il martirio. Probabilmente anche per ricordare i parenti morti, sepolti nella chiesa, lo fecero porre appunto in San Marco dove ancora possiamo ammirarlo. Antonio Bianchi era nato a Foliina di Treviso nel 1812 aveva studiato scultura e pittura all’Accademia di Venezia.
 
Nel 1924, centenario della sua morte, nella casa che fu sua, il Comune e il Popolo di Tuscania posero una lapide ricordando che, nei turbinosi tempi napoleonici, fu Segretario di Stato del pontefice Pio VII ed affermò validamente i diritti della Chiesa e della Patria. Lo stemma delle due famiglie Io troviamo ancora oggi in molti monumenti di Tuscania è formato dalle bande orizzontali dei Brunacci e dalla nave al largo dei Consalvi. Il 24 gennaio 2024 ricordiamo questo grande figlio della Tuscia a duecento anni dalla sua morte.
 
fonte: “La Loggetta” – rivista trimestrale
Loreti Mauro

 

I Gesuiti a Toscanella



Tra la fine del 1600 e l’inizio del 1700 nella chiesa di San Giuseppe fu costruito l’altare maggiore con il quadro che raffigura il transito del Santo mentre è assistito da Gesù e dalla Madonna, con lo stemma del committente Ercole Pietro Consalvi ed anche altri due di Giovanni Gregorio Brunacci Consalvi, il nonno del grande cardinale Ercole.
In alto col colore rosso fu posto l’emblema dei Gesuiti, i religiosi appartenenti alla Compagnia di Gesù, fondata nel 1534 da Sant’Ignazio di Loyola, originario dei Paesi Baschi, ed approvata dal papa Paolo III nel 1540, con il compito di difendere e propagare il cattolicesimo soprattutto attraverso l’insegnamento e la predicazione, i quali vivevano il loro apostolato a Tuscania: il monogramma IHS, Iesus Hominum Salvator, i tre chiodi della Passione in punta ed in alto la croce.
Nella parete a destra, nella chiesa, fu eretto anche il loro altare intitolato al gesuita San Francesco Saverio, con un suo quadro e gli emblemi dell’Ordine sia nello stesso quadro come nella parte più alta dell’altare.
 
Stemma Gesuiti
 
Nella missione svolta a Toscanella i Gesuiti istituirono la Congregazione degli Artisti i quali avevano pagato i lavori per la costruzione dell’altare ed ogni domenica si radunavano nella chiesa, con la direzione di un sacerdote, per pregare e partecipare alle celebrazioni eucaristiche.
 
L’8 settembre veniva celebrata la festa della natività della vergine Maria dagli artigiani: sarti, fornai, falegnami, fabbri, calzolai, i quali, come opera di pietà, davano da mangiare ai poveri.
 
 
 
Aiutavano anche le famiglie di ogni fratello defunto.
I Gesuiti fondarono anche un oratorio serale per i giovani che rimase aperto fino al 1860.
Presso lo stesso altare pregavano anche le donne che avevano una loro compagnia per le pratiche religiose.
Ogni anno durante la novena, nei giorni precedenti la festa di San Francesco Saverio, che fu proclamato santo nel 1622, tutto il popolo cristiano pregava ed innalzava inni.
Questo santo diffuse il cristianesimo in Asia: in India, a Formosa, nelle Filippine, in Malesia e nel Giappone.
 
San Francesco Saverio
 
Nel 1861 il vescovo di Tuscania, il cardinale Gaetano Bedini, dette l’incarico di maestro di retorica ad un padre gesuita che poi fu il rettore del seminario tuscanese.
Altri professori gesuiti insegnarono filosofia e teologia e nel 1863 istituirono un loro convitto che durò fino al 1868.
Nel 1927 San Francesco Saverio fu proclamato Patrono delle missioni.
 
Tuscania- Chiesa di S. Giuseppe
 
Loreti Mauro
 
 

Lidia Montesi educatrice, Angelo di conforto e anima eletta



 
Nacque a Tuscania il 19 settembre 1915. Fu buona e caritatevole verso i poveri ed i malati. Ebbe come Direttore spirituale il nostro concittadino Monsignor Domenico Brizi, vescovo della diocesi di Osimo e Cingoli. Si impegnò molto anche nella parrocchia di San Lorenzo e di Santa Maria Maggiore. La sua casa si trova tra il palazzo comunale con l’alta torre civica del Bargello e le mura medioevali del Rivellino, sulla piazza del teatro, circondata da viti, fiori ed alberi da frutta, di fronte alla chiesa di San Leonardo. Era figlia di Filippo Montesi e di Amalia Cardarelli.
 
 
I Montesi giunsero a Toscanella da Gualdo di Castelsantangelo sul Nera vicino a Visso e i Cardarelli da Monte San Martino, in quanto a Tuscania c’era tanta terra da coltivare. La loro famiglia, profondamente cristiana, aiutò e confortò sempre i poveri. Lidia aveva una sorella maggiore Rosa, nata nel 1912, che nel 1936 si sposò con il possidente Aldo Peruzzi. Questi ebbero i figli Pierluigi e Brigida, tutte persone molto apprezzate a Tuscania. I Peruzzi provenivano da Arezzo.
 
Lidia aveva un carattere forte, energico ed indipendente e frequentava le scuole delle Maestre Pie che Santa Rosa Venerini da Viterbo aveva fondato a Toscanella nel 1701.  In uno stato delle anime dei primi anni del 1800 leggiamo presenti a Toscanella due suore maestre con tre ragazze inservienti e tante bambine iscritte. Queste educatrici istruirono con intelligenza e con amore tante ragazze che divennero ottime madri di famiglia e brave cristiane. Molto intelligente ed estroversa seguiva il modo di vivere delle sue coetanee frequentando la piazza e la strada. Poi imparò il ricamo, i merletti, i pizzi e tanti altri lavori e sentì il valore del messaggio cristiano.  
 
Quando fece la Prima Comunione nel 1927, fu preparata dalla maestra suor Annunziata Casani che le fece apprezzare la religione e ricevette il sacramento nella chiesa cattedrale di San Giacomo Apostolo Maggiore insieme ad Amelia Salvatori, Fedra Testa e Luigia Gambi con le note della Schola Cantorum delle Figlie di Maria. Da quel giorno Lidia si sentì attratta dalla fede e dalla carità. Lasciò da parte le frivolezze delle ragazze, i vestiti alla moda e vestì modestamente. La mattina si alzava presto, pregava e meditava, partecipava alla Messa e si comunicava. Mangiava frugalmente, lavorava a casa e poi visitava i poveri portando, in accordo con la generosa madre Amalia, lardo, uova, strutto, formaggio, pane, dolciumi, frutta secca, effetti di biancheria, cioccolato, marmellata e denaro.
 
 
 
Rifuggiva dalle chiacchiere, non mormorava, non giudicava, sempre cortese e sorridente ispirandosi a San Francesco d’Assisi e facendo del bene. Per quanto le fu possibile distribuì generosamente il suo ai poveri. Nella sua lunga malattia stava calma e tranquilla senza alcun lamento. Andava a pregare anche nelle chiese di San Giovanni Battista, di San Marco e della cattedrale. La domenica spiegava il catechismo alle bambine a lei affidate e si impegnava nell’organizzazione dell’Azione Cattolica delle giovani, nella pia unione delle Terziarie Francescane e nelle Opere Missionarie Cattoliche. Era presente a tutti i funerali della parrocchia fino al cimitero. Fu sempre una festa per lei contribuire alla realizzazione del Presepio insieme alla mamma ed alla sorella, come anche negli omaggi floreali della processione del Corpus Domini.  Venerò profondamente la Vergine Immacolata di Lourdes nella chiesa di San Lorenzo e dei Santi Martiri Secondiano, Veriano e Marcelliano, protettori di Tuscania e fu devota della Madonna Addolorata nella chiesa di San Giovanni Battista, della Vergine del Rosario di Pompei nella Chiesa cattedrale e della Madonna Liberatrice nella chiesa della Rosa.  
 
Si concesse qualche piccola vacanza a Nettuno dalla zia Serafina, sorella della sua mamma, a Gualdo e a Cura di Vetralla con la sorella.  Quando Lidia si ammalò gravemente il dottor Donato Di Donato affermò che stava ormai per morire. Era dimagrita e smunta ma sempre gentile e benigna con le tante persone che l’andavano a trovare. Un giorno si sentì guarita per opera della Madonna Addolorata e riprese a mangiare; andò quindi a Roma per conoscere la regola e la vita delle Carmelitane di Santa Teresa ma si rese conto che la vita austera non era adatta alle sue forze. Allora provò ad entrare nel Monastero delle Clarisse di San Paolo a Tuscania ma, infine, decise di continuare a vivere nella sua famiglia aiutando i malati.  Ebbe sempre uno scambio epistolare con la Madre Badessa suor Maria Chiara Pieri. Fu anche profondamente devota a San Pietro. Si ammalò una seconda volta, le fu dato il Sacramento dell’estrema unzione e morì il 4 ottobre 1943 . Entrò nella sua camera il dottore Francesco Emanuelli per costatarne la morte e ,dopo, due suore di Carità Teresina Palombi ed un’altra consorella   ne custodirono il cadavere. Si sparse per tutta Tuscania la notizia della sua morte e fino a tarda sera vi fu un continuo andare a trovarla per l’ultimo saluto.
 
Ai funerali la chiesa era gremita di popolo e fu portata al cimitero con uno straordinario concorso di uomini e donne in preghiera. Arrivati al cimitero Alessandro Onofri pronunciò un elogio funebre. Ricordò il lutto delle due famiglie Montesi e Peruzzi e di tutta Tuscania per Lidia, una delle migliori ragazze per la bontà, l’affetto, le virtù e l’ammirazione di tutti. Animo delicato, cuore sensibile, carattere forte nelle sue opere filantropiche e sante, con squisita carità.  L’oratore aggiunse che l’anima elettissima di Lidia andava verso Dio con gioia e con spirito gentile. Terminò con queste parole:”Ave o vergine pudica e santa: riposa in pace!” Dopo la sua morte la sua zia Giulia Cardarelli, sorella della sua mamma Amalia, benché allettata per una grave malattia, continuò ad aiutare i poveri ed i malati organizzando la Società di San Vincenzo dei Paoli.  Dopo la morte di Lidia avvennero dei prodigi per la sua intercessione!
 
Oggi a Tuscania è ricordata con affetto dalla signora Brigida Peruzzi, sua nipote e dai pronipoti Melchiorri discendenti di sua sorella Rosa e dai pronipoti Cardarelli discendenti degli zii di Lidia: Luigi, Angelo e Paolo, fratelli della sua mamma Amalia. Un’altra discendente, che si chiama proprio Lidia Montesi, gentilmente mi ha fatto leggere il libro dedicato a Lidia: “Quasi Lilium” Come un Giglio, scritto nel 1947 da Don Giuseppe Cupelli che fu Priore della Collegiata di Santa Maria Maggiore e Parroco di San Lorenzo in Tuscania dal 1908 al 1949. Nel 1899 da chierico faceva già parte del capitolo dei Canonici della cattedrale di San Giacomo. La famiglia Cupelli proveniva da Penna San Giovanni.
Loreti Mauro
 

 

 

I servi di S.Maria e la Chiesa rinascimentale dell’Olivo a Toscanella (Tuscania)




Questo Ordine fu promosso a Firenze dai sette santi fondatori, penitenti laici fiorentini, sul monte Senario tra il 1245 e il 1256.  O. S. M. Ordo Servorum Beatae Virginis Mariae.
 
 
Erano impegnati nella ritiratezza, nella preghiera e nel servizio dei più poveri ed emarginati. Gli elementi essenziali della loro spiritualità furono il servizio e la devozione alla Madonna, la vita fraterna, l’invito alla conversione. Accoglievano i fratelli bisognosi e si impegnavano dell’apostolato missionario nella pace, nella misericordia e nella giustizia.
 
Nel 1536 fu loro concesso un luogo nella Comunità di Toscanella: Santa Maria dell’Olivo vicino alla via pubblica per Corneto. Il cardinale Alessandro Farnese iuniore, Legato pontificio di Viterbo, nipote del papa Paolo III e figlio di Pier Luigi Duca di Parma e Piacenza e di Gerolama Orsini Duchessa di Castro, chiese di ricostruire la chiesa per un migliore culto dei frati.
 
La Comunità di Toscanella finanziò l’opera nel 1544 e furono nominati santesi per la fabbrica Antonio Francesco Vincenzi, il presbitero Giuliano e Giovanbattista Loddi. In quell’anno vi viveva l’eremita Domiziano Aromatario.
Nel consiglio comunale del 19 aprile, sentita la proposta del consigliere Sebastiano Fani, fu dato incarico a Giovanni Camillo Maccabei, Federico de Monti, Alberico di mastro Gabriele e Giovanni Paolo Filippi di stipulare il contratto della costruzione della chiesa e del convento insieme all’architetto che stava per arrivare dalla città di Castro. Si ritiene che fosse il fiorentino Antonio da Sangallo il giovane.
 
 
Il 24 aprile fu stipulato l’appalto con Soldato Latomi e mastro Ambrogio che ebbero come collaboratori dei bravi scalpellini. La facciata fu costruita in nenfro, la pietra vulcanica locale di cui vi erano le cave alla Nenfrara ed alla Petrara, poco distanti.  Davide Bordo, Mattia Galli e Michele Tirico hanno scritto:”
La facciata della chiesa si presenta elegante, proporzionata, omogenea e curata nella realizzazione. E’ suddivisa orizzontalmente in due parti da una trabeazione classica, la porzione inferiore ha una forma quasi perfettamente quadrata, mentre quella superiore corrisponde ad un rettangolo pari a circa la metà della precedente. Vi sono due capitelli tuscanici.
 
 
L’elegante portale d’ingresso è lunettato e riccamente decorato. … Le tre cappelle ospitano pregevoli altari in stucco policromo databili alla metà del Seicento. Particolarmente apprezzabile è la fattura del grande altare maggiore, dedicata alla Madonna, incorniciato da quattro colonne con capitelli compositi.
Questo infatti denota proporzioni armoniose e decorazioni accurate con la cornice in stucco color legno raffigurante la Madonna con il Bambin Gesù, affiancato dall’Agnello e da San Giovanni Battista, gli altri altari sono dedicati a San Carlo Borromeo ed al Santissimo Crocifisso. … Dietro al progetto rinascimentale della Madonna dell’Olivo vi è uno studio accurato dei rapporti proporzionali tra i vari elementi architettonici della fabbrica, tanto in pianta quanto in alzato.  
 
Dall’analisi dello schema compositivo della fabbrica è emerso che il progetto della facciata e della pianta della chiesa si basa su un disegno ben studiato ed elaborato, basato su canoni di proporzionamento classici e su precise costruzioni geometriche. L’adozione di un simile procedimento compositivo per la progettazione dell’opera è sicuramente in linea con gli stilemi sangalleschi e ciò conferma quanto dedotto dai documenti d’archivio.
 
Questo dà la misura dell’importanza della chiesa dell’Olivo, non solo a livello di architettura locale, ma anche nell’ambito della storia dell’arte rinascimentale italiana.”
 
Nello stesso periodo Giovanni Camillo Maccabei restaurò la strada della Madonna dell’Olivo. Nel 1565, ultimati i lavori, il frate priore dei Servi di Maria Giovanbattista Scotto da Pesaro chiese che, oltre al convento ed alla chiesa, potesse avere un po’ di terreno confinante per farci  “vigna et arboreti”.
 
Le sue richieste furono accolte e nel 1567 la Comunità di Toscanella donò ai frati 6 salme di terreno agricolo (10 ettari e mezzo) nella contrada Piano di San Lazzaro, con la metà per la semina del grano, confinante con i beni dell’erede di Augusto Mattuzzi, delle monache dell’ordine di Santa Elisabetta di Toscanella e del signor Mario Fani.
 
Un tempo erano confinanti i beni di Maurizio di Giacomo, di Augusto Mattuzzi, di Antonio Marcucci, di Giovanni Paolo Filippi.
All’atto furono presenti il Consigliere comunale Francesco di Giovanni Battista, gli Anziani Crisostomo Rubei e Paolo di Cesare, i testimoni Bartolomeo Ragazzi e Pacifico Pacifici.
 
I Servi di Maria entrarono nel convento il 9 maggio 1565.  Ogni giorno officiavano due messe e recitavano le lodi. Fu ingrandita la campana con un moschettone di bronzo che era nel palazzo comunale, in modo che si potesse sentire anche in lontananza.
 
Il tuscanese Gentile Capogallo aveva lasciato una donazione a questa chiesa. Nel 1590 fu priore frate Stefano da Milano.
 
 
Il 25 aprile 1592 i Consiglieri comunali decisero di levare la chiesa della Madonna dell’oliva alla Religione dei Servi e di farla officiare da un cappellano o di darla ad un’altra Religione e di mandare a Roma Camillo Cavetani il quale, dopo aver ricevuto il mandato dal comune, andò dal cardinale protettore dei Serviti, Giulio Antonio Santori, e gli consegnò la nota consiliare relativa alla tolta della chiesa e del convento.
 
 
I Serviti allora si stabilirono nella zona a destra della porta di Poggio. Ancora oggi nella piazza già della Rocca, ora intitolata alla Professoressa Maria Moretti Vignoli, su due portali vi sono le due lettere S che formano la lettera M di Maria, particolare evidenziato e disegnato dal professore Piero Lanzetta.
 
 
 
Loreti Mauro
 

 

 

Mastro Giovanni Sartori da Pistoia, restauratore delle piazze e delle strade di Toscanella ed i suoi discendenti



 
L’otto aprile del 1764 il Governatore Generale della provincia del Patrimonio di San Pietro Americo Bolognini inviò una lettera con la quale invitava a convocare il pubblico Consiglio di Tuscania per il restauro occorrente nella Strada Maestra e, subito dopo l’approvazione, si doveva affidare la perizia e su questa si sarebbe poi accesa la candela, per deliberare quel lavoro molto importante al miglior offerente.
 
Lo stesso giorno gli assessori Gerolamo Giannotti e Pietro Paolo Brunacci con   i consiglieri comunali Pietro Paolo Giannotti, Giuseppe Ricci, Domenico Marcelliani, il capitano Pietro Antonio Bassi, il capitano  Ignazio Brunacci, Francesco Antonio Miniati, Domenico Pagliaricci, Lorenzo Bassi ed il capitano  Carlo Brunacci deliberarono  che i concittadini Domenico Marcelliani e Marcelliano Vasconi fossero deputati ad assistere alla custodia delle porte, nel doverle chiudere e serrare la notte, acciocché non fosse estratto dalla città il grano , il pane ed altro in un anno molto scarso di questi generi necessari. Poi si passò a discutere circa la strada Maestra rovinata e dirupata da restaurarsi. Atteso il dilavamento di fronte alle case dei Sarnani e dei Mansanti , lungo la via che conduce alla Porta di Montascide, che rovinò anche i condotti della fonte di San Marco,  fu necessario procedere ai lavori e si intimò ai padroni laterali delle case distrutte affinché dichiarassero se volevano o no riedificare le suddette loro abitazioni. Essendo un argomento molto importante si radunò il Consiglio Generale ed entrarono anche : Sebastiano Attanasi, Silvestro Silvestrelli, Benedetto Turriozzi, Marcelliano Vasconi, Lorenzo Miniati, Angelo Turriozzi e Vincenzo Turiozzi, i deputati ecclesiastici : il priore Giacomo Felice Sarnani, il canonico Bernardino Turriozzi ed i consiglieri popolari: Silvestro Cerasa, Francesco Fiori, Giuseppe Settimi, Antonio Cicoli, Paolo Rosati, Giovanni Vincenzo Paoletti, Vincenzo Campanari, Filippo Catarci e Domenico Dottarelli;  anch’ essi deliberarono, come nel precedente consiglio segreto, aggiungendo che, non potendosi passare per quella strada rovinata, restava pregiudicato l’uso dell’acqua per i cittadini. Il 3 giugno presenti il conte Tommaso Fani Gonfaloniere e, oltre agli altri , anche Giovanni Battista Pettirossi, si disse che era ben noto a tutti lo stato in cui si trovava la strada Maestra che era impraticabile con danno per tutta la Città, sia per  l’impedimento dei traffici, come per la chiusura della fontana, e,  pertanto,  decisero di effettuare i lavori e di  intimare formalmente e costringere i proprietari adiacenti , Bitossi , il conte Giuseppe  Brugiotti nipote ed erede di  Artemisia Mansanti e di Alessandro Brugiotti viterbese, il marchese romano Ortensio Ceva Buzi  erede di Cecilia Mansanti , Paolo Sarnani,  Maria Maddalena Rimbaldesi  erede di Caterina Mansanti e di Giulio Rimbaldesi fiorentino,  affinché facessero presente  se avessero voluto dichiarare di riedificare  od assoggettarsi al rimborso della spesa occorsa.
 
Il 17 giugno  si venne all’accensione delle candele, ad effetto di rinvenire gli oblatori che attendessero al restauro, in conformità della perizia preparata da Mastro Domenico Coccia, capo muratore da Viterbo, ma non vi furono offerte; il giorno otto luglio in una nuova accensione per ritrovare i piombi rimasti sotto le rovine , per spianare e battere il terreno, per la selciata da farsi con la calce ed i selci e per la nuova chiavica del condotto, vi furono le offerte di Domenico Coccia e di Giovanni Sartori e fu a quest’ultimo deliberata come migliore oblatore. Il 18 luglio la vigesima fu presentata da Mastro Giovanni Sartori ed il 29 luglio  per il restauro in mezzo alle case distrutte dei Mansanti e dei Sarnani   Paolo ed il fratello  Giacomo Felice priore e  vicario, deliberarono per Coccia che il 7 agosto promise e si obbligò ad assumere il peso di tutti i lavori ad uso d’arte. Poi, nel mese di settembre, durante i lavori accadde che con il nuovo terrapieno per colmare la “slamatura” venne racchiusa e serrata la cantina dei Rimbaldesi e dei Mansanti. I tempi erano stretti anche perché la strada era troppo importante e serviva anche l’acqua alla popolazione per la vendemmia. Nel frattempo Coccia continuò i lavori, ma nel mese di ottobre gli amministratori comunali scrissero che erano poco valevoli e malfatti e chiesero di far venire un architetto ben pratico. Furono molti e continui i mormorii, le strida, i clamori, le lagnanze, le seccature, le vessazioni ed i rimbrotti   dei cittadini e dei passeggeri per il ritardo della costruzione e della riedificazione e perché non potevano nemmeno transitare i calessi. Il popolo biasimava, ad una voce, l’indolenza di tale affare, i forestieri restavano grandemente meravigliati   come in una città si permetteva il tener devastate le due migliori strade urbane. A dicembre si aspettava ancora l’arrivo dell’architetto Orlandi.
 
 
Il 15 gennaio 1765 davanti al Gonfaloniere Pietro Paolo Giannotti ed ai Consiglieri comunali  fu presente anche Clemente Orlandi l’Architetto per vedere e considerare e riferire alla Sacra Congregazione del Buon Governo, lo stato della strada dirupata e profondata, per le rovine  delle  case , per cui s’impediva il transito sia ai cittadini come ai forestieri ed anche il transito delle acque che si  conducevano alla Fonte, detta di San Marco, in grave danno dei cittadini e si stimava bene di acquistare il sito della casa dei fratelli Sarnani e pagare il prezzo giusto  e ,così, portare la fontana più indietro  e del sito farne piazza . Si chiese il parere dell’architetto che disse:” Per rendere la strada con la debita stabilità e riparare i maggiori pregiudizi che potessero accadere, a motivo dell’insussistenza del fondo in quella parte non solo della strada ma ancora di quelle ove era fabbricata la casa dei fratelli Sarnani, secondo il mio debole parere sarebbe il partito più vantaggioso quello di lasciar scoperta tutta quella parte, riducendo a piazza pubblica tutto quello che era occupato dalla casa medesima. Il principale motivo per cui mi sembra più vantaggioso partito è l’osservazione fatta dei cavi ad uso di grotte sotto il piano delle strade e case adiacenti, con irregolarità e con ampiezza straordinaria nel masso incapace di sostentarsi e di reggere all’inzuppamento dell’acqua.  In questo stato non vi è miglior rimedio  meno dispendioso di quello di riempire ed acquistare, con le riempiture, il fondo perduto poiché, con l’assestarsi  e più non appesantirlo  di fabbriche, riuscirebbe di gran giovamento alle fabbriche contigue e, formandoci tutto un continuato masso , restituirebbe alla strada dirupata quel fondo che le è mancato e che le è necessario per il transito dei passeggeri ed ancora dei condotti   che sotto vi passano,  per condurre l’acqua alla fontana pubblica ad ai particolari cittadini.   Riempito il sito e fatto assestare e stringere a dovere, si potrebbe poi coprirlo con la selciata, colla quale fosse difesa dall’inzuppamento in tempo di piogge.
 
Ma siccome presso la casa diroccata   esiste la pubblica Fonte  detta di San Marco ed ancor questa si trova in pericolo , a motivo dello stesso inconveniente  dei profondi e larghi cavi di grotte  che sono al di sotto,  si dovrà anche provvedere alla di lei sussistenza, il che porterebbe anche la spesa ragguardevole non solo per il masso che si dovrebbe fare  di sotto, ma ancora per rinnovare i condotti perduti   dal “dirupamento” della strada, e si potrebbe trasportare la medesima fonte più addietro,  accosto alle case che rimarranno dopo finita di distruggere la casa dei Sarnani, risparmiando così quella porzione di tubi  di piombo che sarebbe necessaria per render l’acqua mancata , dopo la rovina , e ,per minor dispendio , servirsi dell’ornamento di altra fonte abbandonato . Tolta poi la detta fonte di San Marco dal sito dove ora si trova, potrà con facilità farsi riempire la grotta che è sotto di essa e render così egualmente ripiena tutta quella parte, che dovrà rimanere pubblica piazza.” Nel mese di febbraio si portò di nuovo a Toscanella l’architetto Clemente Orlandi, con un geometra, per ulteriori controlli.  Il 14 aprile ancora si aspettava la sua perizia.  Il 24 aprile il gonfaloniere Pietro Paolo Giannotti ricevette per il mezzo della posta la pianta colla relazione dell’Orlandi delle rovine e delle strade devastate, la lesse e la trovò uniforme al sentimento.
 
Il 19 maggio fu all’ordine del giorno del consiglio comunale la perizia dell’architetto Orlandi sulla strada slamata ed anche sullo stato delle altre strade urbane.  Il priore della collegiata di Santa Maria Maggiore Giacomo Felice Sarnani, nel frattempo, aveva esibito e lasciato in foglio una protesta. Essendo stato interpellato a comparire nel consiglio, per discorrere del riattamento da farsi nella strada Maestra già rovinata, e dovendo esporre tutte le ragioni, che di diritto gli spettavano, fece presente che il danno era stato causato dai sotterranei fatti fuori dai loro confini dai Bitossi, Ceva e Brugiotti prima che accadesse la rovina e fu loro detto di munire e fortificare la volta della loro cantina; con tutto ciò avevano sempre “negligentato” con suo maggior danno. Pertanto chiese che i medesimi fossero tenuti all’emenda di tutti i danni e pregiudizi accaduti e che fossero costretti a rifare il muro, da ambo le parti laterali, per sostenere la strada e chiedeva anche i danni. Fu letta quindi la perizia dell’architetto che prevedeva dei lavori anche su altre strade urbane, con fare di nuovo tutte le selciate in quanto impraticabili: fu approvata con 21 voti favorevoli ed 8 contrari. Si propose poi ai proprietari delle case distrutte di fare il muro almeno fino alla sommità della casa o di venderle al Comune.  Nel mese di maggio i fratelli Sarnani decisero di non riedificare la casa slamata e di vendere al comune il sito della loro abitazione   distrutta, per non soccombere ad ulteriori spese e per vari insorti motivi.
 
Nei mesi di luglio ed agosto furono fatte alcune accensioni di candele e finalmente in quelle dell’11 e 22 agosto furono aggiudicati i lavori a Giovanni Sartori sia per la Strada Maestra come per il bottino ed il chiusino dell’acqua della Porta di Poggio Fiorentino. Il 28 agosto , davanti al gonfaloniere ed all’assessore Marcelliano Vasconi , si presentò mastro Giovanni Sartori figlio del fu Clemente da Pistoia, abitante continuo domiciliato  in questa città, il quale spontaneamente, inerendo alla di lui offerta data ai suddetti lavori da farsi alla pubblica strada Maestra, come appariva negli atti della Segreteria comunale,  ed in filo  all’oblazione in di lui favore deliberata il 22 agosto nell’accensione,  promise e si obbligò a fare i lavori ad uso  di Muratore nella suddetta strada con l’obbligo di pensare a tutti i materiali “abbisognevoli” al riattamento, a rendere libera da tutte le macerie e sterri la detta dirupata strada e renderla praticabile, come era nel passato, con terrapieni ben battuti e calcati,  a riempire di terrapieni con andarla  a batterla bene e renderla un’ampia piazza nel sito comprato dai Sarnani, dove restava la loro casa, levando tutti i materiali ivi esistenti ed a riaggiustare anche il chiusino dell’acqua fuori della Porta di Poggio Fiorentino. Inoltre la fontana di San Marco fu da Giovanni Sartori tirata indietro nel luogo più proprio e collocata nel luogo più stabile e sicuro e  nella muraglia, che restava di rimpetto ed in faccia alla strada Maestra , costruì un piccolo cornicione  ben fatto e ad uso d’arte, intonacato ed imbiancato ed  i condotti di piombo per portare l’acqua alla fontana.  A Giovanni Sartori si associò anche Domenico Coccia ed eseguirono i lavori secondo il progetto dell’architetto Orlandi e la perizia del capomastro Geraldini. Fece la sicurtà Luca Ugolini del fu Giovanni abitante a Tuscania.
 
Il 3 agosto 1766 arrivò un ordine dal Governatore Generale provinciale che si restaurasse il palazzo Bitossi e dei condomini, vista la perizia dell’architetto Orlandi, e di fare, senza ritardo, quelle riparazioni necessarie in quel palazzo onde evitare ogni danno maggiore che avrebbe potuto recare tanto alla strada quanto alla fontana, ripartendo la spesa sui condomini del palazzo. Il 30 dicembre, sempre a seguito della migliore offerta, fu deliberato di aggiudicare ai mastri muratori Giovanni Sartori e Domenico Coccia i lavori di restauro alle case dei condomini Brugiotti, Ceva e Bitossi.
 
Il giorno 8 luglio 1767 alla presenza del Gonfaloniere,  il capitano Pietro Antonio Bassi, e dell’assessore Domenico Marcelliani  entrò  Mastro Giovanni Sartori fu Clemente da Pistoia abitante continuo e domiciliato a Toscanella, il quale spontaneamente in riferimento alla sua offerta dei lavori da farsi ad uso di muratore alla casa suddetta già Mansanti a spese della Comunità, da rimborsarsi dai Condomini , prese ed  assunse i lavori per riportare le case a perfezione ad uso d’arte e gli fece sicurtà Luca Ugolini fu Giovanni .  Il 22 novembre altri lavori da muratore furono affidati sempre a Giovanni Sartori. Il 13 dicembre Giuseppe Torregiani si aggiudicò i lavori di falegnameria.
Il 14 febbraio 1768 il lavori di fabbro furono dati a Mastro Vincenzo Belli. Il 4 dicembre l’architetto Orlandi calcolò il riparto della spesa fatta dalla Comunità di Tuscania per il riattamento del palazzo, affinché restasse reintegrata degli scudi 448 erogati per il restauro del palazzo Mansanti: il marchese Ceva 101 scudi, il conte Brugiotti 117 ed i fratelli Bitossi scudi 229. I proprietari del palazzo, già della ricca famiglia tuscanese Mansanti, non pagarono quanto dovevano per cui il Comune espropriò il palazzo, entrò nel possesso e lo destinò come palazzo del Governatore e del Commissario di Polizia. In seguito fu sede della Pretura, dei Notai di Toscanella, della Pro Loco di Tuscania, del Banco di Santo Spirito ed attualmente del Liceo Scientifico statale.
 
Il 25 agosto 1769, in relazione ai lavori delle altre strade urbane, la gara fu vinta in solido dai mastri muratori Giovanni Sartori, Domenico Coccia di Giuseppe da Viterbo, Sebastiano Maffei di Giuseppe da Viterbo, Giovanni Battista Ciotti fu Tommaso da Borgo San Sepolcro e Vincenzo Mancini fu Sante da Viterbo. Fecero la sicurtà Paolo Rosa fu Antonio, Luca Ugolini fu Giovanni e Marcelliano Lucchetti fu Giovanni Battista. Il primo settembre, ricordando la grande esperienza dimostrata nel lavoro delle strade sotto il palazzo di Lorenzo Bassi nel terziere di Poggio Fiorentino, alla presenza del gonfaloniere del popolo Giuseppe Ricci e dell’assessore Silvestro Silvestrelli, firmarono il capitolato d’appalto con i patti, le condizioni ed i capitoli da osservare esattamente ed inviolabilmente. Le selciate furono costruite formando le livellazioni, i “disbassi” ed i rialzamenti, con calce grassa, con buona pozzolana e col porre i selci in piedi in modo che uno connettesse all’altro ad uso d’arte.  Furono presi alla cava della Piastrella ed il filo centrale o riga di mezzo si costruì con lastre di nenfro.  I pozzetti e le chiaviche furono rinnovati. Ad effetto che tutte le strade fossero rese comode ed agiate, ben fatte e pulite i muratori sgombrarono i cementi, gli sterri, le immondizie e quant’altro. I pagamenti dei vari stati di avanzamento dei lavori furono effettuati dal Depositario comunale Angelo Turriozzi.  Fecero sicurtà in solido Paolo Rosa fu Antonio, Luca Ugolini fu Giovanni e Marcelliano Lucchetti fu Giovanni. I testimoni furono Alessandro Vasconi fu Antonio e Benedetto Bottoni fu Giuseppe. Segretario l’orvietano Luigi Danielli Notaio pubblico Segretario rogante.
Il 27 marzo 1771 il Gonfaloniere Pietro Paolo Giannotti e l’assessore Alessandro Vasconi affidarono l’appalto del riattamento delle due porte urbane di San Leonardo e di Montascide al muratore migliore oblatore Sebastiano Maffei, da farsi secondo l’arte e con materiali perfetti per rimettere in piedi le due porte di legno con i gangheri. Per rendere ragionevolmente cauta e sicura la Comunità di Tuscania depositarono e gli fecero sicurtà i colleghi muratori Giovanni Sartori, Pietro Alisi di Giovanni da Fiesole, Domenico Coccia e Luca Ugolini fu Giovanni da Ronciglione.
 
Giovanni Sartori si sposò con Caterina Vincenti e poi, da vedovo, con Teresa: ebbe otto figli: Giacomo, Maddalena, Francesco, Luigi, Clemente che riprese il nome del nonno pistoiese, Tommaso, Caterina e Vigula.
 
Nel 1777 egli era sottopriore della Confraternita di San Giovanni Decollato detta della Misericordia ed insieme a Don Pietro Guerrini, camerlengo rinnovarono con un istrumento la ricognizione in dominum, a favore della Mensa vescovile di Viterbo e Toscanella, di due botteghe situate a destra ed a sinistra della facciata della chiesa del santo Battista nella piazza pubblica, livellate a favore della stessa Confraternita a canone perpetuo.
Negli stati delle anime del 1815 Giovanni fu iscritto sempre con la qualifica di muratore.
 
Tra i discendenti ricordiamo:
 
  • Francesco “caldararo”, figlio di Giovanni da Pistoia e di Caterina Vincenti tuscanese; fece i primi lavori della costruzione della cappella dei santi Martiri Secondiano, Veriano e Marcelliano nella cattedrale di San Giacomo Apostolo Maggiore intorno al 1780.
 
  • Don Luigi Giovanni F. del 1829  che fu canonico della cattedrale e professore di lettere.  Nel 1862 era cancelliere vescovile ed accompagnò il cardinale Gaetano Bedini, vescovo di Tuscania e Viterbo, nella visita pastorale diocesana. Nel 1863, in quanto guida spirituale della Confraternita della Misericordia, fece installare nella chiesa di San Giovani Battista un organo di incomparabile bellezza ed espressione, costruito da Camillo Del Chiaro di Fabriano. Ancora oggi vien utilizzato dai cori che cantano nel Santuario della Madonna Addolorata.
 
Don Giuseppe del 1838 canonico, professore, consigliere ed assessore comunale alla pubblica istruzione “lodevolmente” dal 1895 al 1905: realizzò molte opere pubbliche insieme agli altri amministratori comunali di Toscanella, tra le quali il giardino pubblico.
Benedetto del 1840, consigliere comunale dal 1880 al 1898.
 
Nel 1855 Giovanni di Francesco in località Pantacciano coltivava e produceva grano e lupini.
Francesco di Agostino del 1875, proprietario terriero, geometra, agronomo, pubblicista, patrocinatore della Pretura, Giudice Conciliatore, amministratore dei terreni dei conti Tommaso e Laura Fani Ciotti, Presidente della Congregazione di Carità con l’amministrazione dell’Ospedale di Santa Croce, consigliere ed assessore comunale dal 1907 al 1923, poi dal 1946 al 1948, sindaco dal 1948 al 1951, ancora consigliere comunale dal 1951 al   1956. Realizzò, tra l’altro, la piscina natatoria ed i bagni pubblici.
Don Luigi di Benedetto del 1884, canonico penitenziere e primicerio della cattedrale, insegnante nelle scuole elementari, professore di matematica nel Seminario e parroco di San Marco e San Silvestro. Dal 1943 al 1945 fu l’assistente ecclesiastico dell’Associazione “Cuore immacolato di Maria”, sodalizio religioso fondato e diretto dal clero locale, frequentato da 45 uomini di Azione Cattolica. Fu stimato come sacerdote e come studioso.
 
Nel 1894 Felicetta moglie di Agostino ebbe una concessione di acqua potabile dal Comune di Toscanella.
 
Rolando di Costantino del 1908, segretario delle Scuole Elementari e consigliere comunale dal 1960 al 1964. Aude del 1914 era la sua sorella.
Giuliana di Carlo del   1913, maestra elementare.
 
Piergiorgio di Rolando del 1942, ingegnere meccanico a Milano, fu uno dei fondatori del Circolo Universitario tuscanese nel 1966.
Ezio di Agostino del 1950, pediatra presso l’Ospedale San Camillo di Roma.
 
Anna Maria di Rolando del 1953, Presidente dell’ACTAS Associazione Cultura Turismo Arte Spettacolo di Tuscania.
 
 

 

 

Le Chiesuole di Toscanella



 
 
LA CHIESA DI SANTA MARIA DELL’EDERA
La chiesuola è della fine del 1400 e fu costruita in sostituzione di un’edicola, attorniata dalla Pianta rampicante sempre verde, affossata alle antiche mura urbane che presentava una figura della Madonna lì posta per allontanare il male, presso la basilica di Santa Maria Maggiore. Fu fabbricata assai piccola in onore della devota ed antichissima immagine di Maria Vergine dipinta nella parte interiore di una porta antica della Città detta la Porta della Valle, uno dei quartieri dell’antica città.
 
LA CHIESA DELLA MADONNA DELLA NEVE. Questa chiesuola è una piccola dipendenza della concattedrale di San Giacomo Apostolo il Maggiore. Ha la facciata a capanna, il portale in nenfro con le cornici sagomate e le piccole finestre quadrangolari. L’immagine della santa Vergine Maria è miracolosa e per questo motivo fu eretto questo piccolo tempio. Si trova nel terziere di Poggio Fiorentino e poggia sulle mura castellane. Si festeggia il cinque di agosto. E’ addossata ad una torre delle mura che crollò nel secolo scorso. Ha un piccolo campanile ed un affresco della Madonna che allatta il Bambino Gesù. Vi si venera Nostra Signora della Neve, titolo legato alla basilica di Santa Maria ad Nives sul colle Esquilino di Roma che è il più antico santuario mariano dell’occidente. I festeggiamenti coincidono con la memoria della dedicazione di Santa Maria Maggiore in Roma, ricordando il leggendario miracolo della nevicata che ispirò papa Liberio a fondare il sacro edificio nell’anno 364.
 
LA CHIESA DI SANTA MARIA DELLA PACE. Questa piccola chiesa si trova in uno di luoghi più sacri di Tuscania tra il Monastero di San Paolo ed il convento di San Francesco. Fu costruita sulle mura della città intorno al 1450 e fu dedicata alla pace trovandosi tra i frati francescani e le monache clarisse.  Il dipinto della Madonna in trono con il Bambino è ora nella concattedrale. Si festeggia il giorno 11 di agosto. Ora vi si ammira un bel quadro del professore Piero Lanzetta ed una bella acquasantiera. La tradizione  tramanda che fu eretta per i miracoli operati da nostro Signore per intercessione della gloriosissima Vergine Maria.
 
 
Loreti Mauro

 

 

L’artista Antonio Arieti e la sua famiglia



 
 
Negli stati delle anime di Toscanella dell’inizio del 1800 i componenti della famiglia Arieti erano campagnoli, fattoretti ed operai. Provenivano da Penna San Giovanni.  Nel 1801 Domenico Antonio trapiantò olivi, piante da frutta e filagne di vigna nella mandra di Camillo Marcelliani nella Tenuta di Pantalla.   Avevano dei terreni lungo la strada delle Carceri.
 
 
 
Nel 1815 la famiglia era formata da Margherita   madre di Pietro Antonio servitore, Secondiano   campagnolo, Don Andrea  chierico ecclesiastico e Natale servitore. Angelo in seguito fece parte del consiglio comunale e nel 1822 gli furono chiesti lumi in riferimento alle richieste di liberare dalla servitù di pascolo alcuni terreni a campo Villano, alle Palazzole ed a San Lazzaro.  Nel 1830 Natale viveva con la moglie Chiara da Marta, le figlie Margherita, Agata e Marianna. Nella stessa abitazione abitavano anche i collaboratori Marianna Ambrogi da Visso, Filippo Braccio da Visso e Domenico Capponi da Penna San Giovanni. Nello stesso anno nella via di Sant’Agostino risiedevano Secondiano con la moglie Anna Caterina da Montefiascone, ed i figli Antonio, Angelo, Giuseppe, Maria e Anna.
 
 
 
Nel 1840 il giovane concittadino Antonio Arieti, come altri studenti tuscanesi meritevoli, propose l’istanza al consiglio comunale di Tuscania per un annuo assegno per finire i suoi studi di pittura a Roma. Nel 1841 i consiglieri comunali di Toscanella, valutando il saggio che egli aveva dato di onorevole profitto nella pittura, gli conservarono il generoso sussidio di 72 scudi annuali, corrispondente ad un mensile di 6 scudi, per mantenersi negli studi e nell’arte della pittura a Roma; 13 i voti favorevoli e 5 contrari; non votò ovviamente suo padre Secondiano assessore, essendo uscito dalla sala. I consiglieri considerarono saggiamente l’utile che alla città poteva derivare dall’arte della sua pittura. Anche in seguito egli ottenne dei sussidi e, nel quarto ed ultimo anno di studio e pittura, presentò gli attestati dei suoi progressi ed il terzo saggio in un ritratto ben lavorato del Pontefice Gregorio XVI che fu posto a pubblica vista. Nel 1843 Secondiano era il Pro Gonfaloniere della città di Tuscania.  Nel 1846 Raffaele, Pietro Antonio e Secondiano erano possessori di fondi rustici, Vincenzo, Don Andrea, Pietro Antonio, Secondiano e Natale di fondi urbani.   Nel 1850 Pietro Antonio viveva con la moglie Apollonia di Civitavecchia ed i figli Aloisa, Raffaele, Fabrizio, Marcantonio, Vincenzo, Attilia, ed i collaboratori Giovanni Leoni con la moglie Anna Caterina ed i loro figli Giuseppe e Rosa Maria.  Nel 1853 Pietro Antonio ebbe l’affrancazione dei suoi terreni dalla servitù di pascolo.  
 
 
 
Nel 1858 Angelo fece parte di una commissione, insieme a Federico Pasquali e Vincenzo Marcelliani, come persone esperte per trovare un sistema di vendita delle erbe comunali della tenuta di Pantalla.  Inoltre fece parte di un’altra commissione per redigere il regolamento per il miglioramento ed il riordinamento del pascolo della macchia comunale, lo smacchio e la coltivazione.
 
Nel 1862 Antonio Arieti donò al comune alcuni suoi disegni e quadri ad olio: l’Adorazione, la Concezione e l’Incoronazione della Vergine, in gratitudine degli scudi che ebbe per mantenersi agli studi in Roma.  Il Comune gli commissionò anche il quadro del re d’Italia Vittorio Emanuele II di Savoia. Egli   dipinse molti quadri a Roma e a Napoli: nel catalogo della galleria Carlo Virgilio in Roma sono presenti due suoi studi per le decorazioni in stile pompeiano, a matita ed acquarello su carta pesante.
 
Nel libro sulla storia di Toscanella di Secondiano Campanari è stampato il suo disegno del pergamo della basilica di Santa Maria Maggiore di Tuscania.  Intorno al 1862 dipinse ad olio, nella cattedrale di San Giacomo Apostolo Maggiore in Toscanella: San Girolamo con il mantello rosso, il teschio, la croce ed il cappello cardinalizio in terra ed il Crocifisso con la scritta “Gesù Nazzareno re dei Giudei” in ebraico, in greco ed in latino. Nella chiesa di San Marco possiamo ammirare due quadri: la   Madonna delle Grazie con una  veste rossa ed un manto blu, seduta su un nembo  con il bambino Gesù tra le braccia; sullo sfondo vi è un disco dorato circondato da angeli e   San Marco con il leone  ed una tavola in mano in cui si legge: ”Propterea   dico vobis omnia quaecumque orantes petitis, credite quia accipietis” l’importante frase nel vangelo di San Marco che Cristo disse agli Apostoli: :”Perciò  vi dico che tutto ciò che pregando chiederete credete che lo riceverete”.
 
Nella chiesa di San Giuseppe si ammira la sua Madonna del terremoto che protegge la città con la veste rossa, il manto blu e verde e che tiene il bambino Gesù benedicente in braccio. Egli si ispirò ai modi raffaelleschi secondo un gusto tipico del 1.800. Inoltre dipinse nel 1865 anche lo stendardo processionale della confraternita del Gonfalone, che aveva la sede nella chiesa di Santa Maria della Rosa, con i tre santi martiri: Secondiano con il gonfalone della città, Veriano e Marcelliano con le palme del martirio: i tre sono dipinti in forma statuaria; lo sfondo è di colore azzurro con le montagne e lo stemma del Cardinale Bedini vescovo di Tuscania e Viterbo. Attualmente si trova in un magazzino attiguo alla chiesa di San Marco. A Montefiascone nella chiesa di san Francesco vicino all’ospedale, dipinse la pala d’altare della confraternita dei fabbri e maniscalchi con i loro santi protettori: Rocco, Eligio, Lucia e Pancrazio.
 
Nel 1863 Angelo, sposato con Rosanna aveva i figli Maria, Geltrude, Augusta, Secondiano, Alessandro, Giuseope, poi nacquero anche Bonaventura e Teresa.  Nel 1870 Angelo era consigliere comunale ed affrontò il problema delle servitù di transito del bestiame per arrivare ai guadi ed agli abbeveratoi e nel 1871 fece nuovamente parte di una commissione per il regolamento per la conservazione del bosco comunale della Riserva tutelando le giovani piante contro il dente del bestiame. Ottenne un’oncia di acqua potabile a pagamento per la sua abitazione dal consiglio comunale di Toscanella. Nel 1894 anche Secondiano poté riceverla nella sua casa. Tra l’altro essi avevano anche contribuito ai lavori di restauro dell’acquedotto comunale.
 
 
 
Nek 1902 divenne sacerdote Don Leonardo di Secondiano dopo aver studiato teologia alla Pontificia Università Gregoriana insieme ad Eugenio Pacelli, futuro Pio XII. Egli professore alle scuole medie, pittore e guida per molti giovani nel Ricreatorio di San Luigi del Conte Enrico Pocci, dove insegnò anche musica, pittura ed artigianato.
 
Nel 1917 Angelo di Eusebio morì nelle battaglie della prima guerra mondiale come soldato del 213° Reggimento di fanteria. Nel 1940 Don Leonardo fu l’arciprete di San Giacomo Apostolo Maggiore e faceva parte del Capitolo della Cattedrale.
 
 
 
Nel 1920 morì Secondiano di Angelo valente impiegato comunale per più di quaranta anni e tutti i colleghi gli porsero il saluto commosso, pieno ed affettuoso. Ebbe sempre parenti premurosi: da vecchio la figlia ed il genero lo portarono con loro a Roma vicino alla chiesa di Santa Maria sopra Minerva.  Scrisse Giuseppe Cerasa che Secondiano compì interamente il suo dovere di cittadino, di padre e di funzionario.
 
Nel secolo scorso Alcide di Eusebio fu funzionario del Comune ed Ufficiale di stato civile.
 
Italo di Evandro, medico pediatra e studioso delle tradizioni della Tuscia nella storia dell’alimentazione, confluite nell’enciclopedia gastronomica in tre volumi. Fu assessore al comune di Viterbo, presidente dell’Ente Provinciale del Turismo e dell’Istituto Autonomo delle Case Popolari.
 
 
Angelo di Alcide commercialista, giornalista, primo segretario della Pro Tuscania e della Pro Loco e consigliere comunale.
Alberto Eusebio di Alcide geometra, commercialista, collaboratore dell’Ingegnere Otello Testaguzza nell’opera della ricostruzione di Tuscania dopo il terremoti del 1971, Revisore dei conti della Pro Loco, attuale cultore dell’archivio storico comunale, pubblica articoli sulla storia di Tuscania.
Loreti Mauro

 

 

Padre Giuseppe Camillo Capati di Maria Ausiliatrice




Nei primi anni del 1900 Giulio Capati da Vallebona di Grotte Santo Stefano, paese della zona dell’antica città di Ferento, si trasferì a Toscanella, dove si sposò con Paolina Sebastiani ed ebbero i figli Giuseppe ed Ugo.
 
 
 
Il primo, nato a Tuscania nel 1912, è conosciuto con il nome di Camillo, in quanto fece la scelta vocazionale a tredici anni nel 1925 e chiese di essere ammesso nel seminario minore passionista di Nettuno dove rimase fino al 1927, quando andò al noviziato di san Giuseppe sul monte Telegrafo nel comune di Monte Argentario, che fu costruito da San Paolo della Croce, il fondatore dei Passionisti, nel 1761.
 
Il carisma dei Passionisti è condurre una vita conforme a quella degli apostoli essendo testimoni dell’amore di Dio.  Giuseppe prese il nuovo nome di Camillo e rimase lì fino al 1936, poi studiò nel convento dell’Angelo di Tramonte a Lucca.
 
Fu ordinato sacerdote nel 1936 a Roma dall’arcivescovo di Lucca Antonio Torrini.  Proseguì gli studi di pastorale e di sacra eloquenza fino al 1938 a Roma. Si legge nel ricordo dei suoi confratelli che fu un religioso buono e con la tendenza alla pietà. Fu poi inviato a Sant’Angelo di Vetralla ed aiutò le parrocchie di Cura e di La Botte. E’ là ricordato da molti per la sua amicizia ed il suo apostolato.
 
Dal 1946 al 1948 visse  nel convento di Carbognano ed il resto della vita lo trascorse  nel servizio ai santuari soprattutto con le confessioni alla Scala Santa di Roma, che secondo la tradizione fu salita da Gesù per raggiungere l’aula dove subì l’interrogatorio di Ponzio Pilato prima della crocifissione e che  fu trasportata a Roma dall’imperatrice Elena , madre di Costantino nel 326,    al santuario di Nostra Signora delle Grazie e di Santa Maria Goretti a Nettuno ed alla direzione spirituale di persone che si confidavano con lui. A Roma visse dal 1974 al 1994, anno della sua morte.
 
Aveva conversazioni con religiosi colti tra i quali Padre Enrico Zoffoli di Marino, filosofo e confessore, scrittore di apologetica, spiritualità, teologia, agiografia e storia, per accrescere la sua cultura teologica e spirituale. Padre Camillo è ricordato come un religiose esemplare e fedele. Fu un degno passionista e seguì gli insegnamenti di San Paolo della Croce, che dimorò al santuario della Madonna del Cerro a Toscanella e del Beato Cesare Bernardo Silvestrelli, figlio del tuscanese Giovanni Tommaso. Nella sua foto spicca sulla veste nera il crocifisso e la scritta “Passione di Gesù Cristo”.
 
Il fratello Ugo fu carabiniere durante la seconda guerra mondiale. Il giorno 8 giugno 1944 gli Alleati inglesi e ed americani giunsero nei pressi di Tuscania e, nella località “Pali di ferro”, un loro avamposto incontrò Ugo Capati e Luigi Fiorani che furono condotti dai comandanti il località” San Potente”, vicino all’antica chiesetta longobarda di San Michele Arcangelo, sopra il fiume Marta.
 
Era presente anche il soldato americano Stromb che riconobbe Ugo, avendolo conosciuto a Bolzano, dove entrambi avevano prestato servizio prima dell’armistizio del giorno 8 settembre 1943.
 
Ugo informò che in città non c’era nessuno in quanto tutti si erano rifugiati nelle campagne, ed i tedeschi si trovavano in quattro postazioni. Inoltre indicò ai soldati alleati il luogo dove si poteva guadare il fiume Marta con i carri armati e così entrare a Tuscania per liberarla dall’oppressione tedesca.
Vivono oggi a Tuscania i figli di Ugo : Giulio già funzionario del comune di Tuscania, Paola affermata chef  ed i loro figli e nipoti.
Loreti Mauro
 

 

 

La cappella Sparapane



 
GIOVANNI E ANTONIO SPARAPANE DA NORCIA A TOSCANELLA
 
 
NEL 1466 a Toscanella c’erano molti pastori transumanti e mastro Giacomo figlio di Agostino Petti era un grande pellaio che lavorava e conciava le pelli ed usava l’allume che da poco era stato scoperto nei monti del nuovo borgo di Allumiere.  
 
Giacomo si era arricchito con gli allevatori e, essendo molto devoto, commissionò agli Sparapane (norcini come tanti pastori umbri) la pittura della cappella della crocifissione nella parete a sinistra della chiesa di San Francesco d’Assisi in Tuscania ed anche quella di un’altra cappella nella parete a destra della stessa chiesa.
 
“Nella pittura a fresco” scrisse Giuseppe Di Lorenzo nel 1883 “ nella parete principale è ritratta la crocifissione e morte di nostro Signore, dove oltre i due ladroni in croce, è una moltitudine di figure di tutte età, differenti di aria, di forme, a piedi a cavallo; nella quale pittura tutte le cose vedonsi fatte assai ingegnosamente con bella invenzione, giudizio, discrezione e grazia. Essa occupa tutto lo spazio semicircolare formato dall’arco della volta, il quale si sviluppa sopra un diametro di metri sei di larghezza. S’innalza in mezzo sublime la croce ove è confitto Gesù. Chinato amorosamente il capo, è già morto; tre angeli fermati in aria sulle ali, disciolti in amarissimo pianto, raccolgono nei calici il sangue che distilla ancora dalle ferite delle mani e del costato.
 
Al lato destro di Gesù sono due soldati a cavallo, l’un dei quali impugnata una poderosa mazza, ne arresta d’improvviso il colpo, mentre a lui d’appresso tre soldati a piedi si fanno avvertiti essere Gesù già morto né a lui doversi rompere le gambe: vicino ad essi un giovinetto con la destra mano tiene in alto una canna con una spugna, e nella sinistra sorregge il vasetto dell’amara bevanda presentata all’assetato Signore.
 
 
Genuflessa presso la Croce la Maddalena scarmigliata le chiome, disfoga l’immenso suo dolore con largo pianto, stretta con impetuoso slancio di amore ai piedi di Gesù: a sinistra è il diletto discepolo che, fisso lo sguardo sull’estinto maestro, strette le mani al sen conserte, in atto dolcissimo ed affettuoso ne piange la morte con tanta amaritudine che nell’aria del viso tutto si pare l’aspro dolore onde è trafitto. Al sinistro lato della croce è Longino, dritto su bianco destriere, atteggiato a sorpresa ed a pentimento: ha già trafitto il costato di Gesù rosseggiante ancora di sangue.
 
   
 
 
Presso a lui Giuseppe d’Arimatea, Nicodemo ed altri chiusi in ampi mantelli e raccolti in dolorosi pensieri son presti a deporre di croce l’estinto Signore. All’angolo sinistro dell’arco tre Marie piangenti sorreggono nelle braccia nostra Signora svenuta per la morte del figlio. … A destra di Cristo è il buon ladrone crocifisso anche egli; chinato amorosamente verso il Redentore, ha reso l’ultimo respiro colla serenità del giusto che accoglie la morte con la certezza del promesso paradiso. Sotto la di lui croce sono due soldati a cavallo con ricche bardature, l’uno tiene in resta una bandiera nella quale è dipinto uno Scorpione, l’altro è in atto di scaricare il colpo di una mazza sulle di lui gambe che, dilacerate e peste, colano sangue rosso scuro quale suole uscire dalle ferite di corpo morto.
 
Ma terribile nell’aspetto a sinistra della croce di nostro Signore è il cattivo ladro: avviticchiate alla croce con disperate contrazioni braccia e piedi con amaro dispetto volge il tergo a Gesù: irti i capelli con gli occhi di bragia è spirato, vomitando ancora bianca bava.
 
Sotto la di lui croce sono due soldati a cavallo, uno dei quali sostiene una bandiera col motto S. P. Q. R., l’altro impugna una mazza e ne scaglia il colpo sulle di lui gambe. Qua e là vedonsi dischi bianchi a guisa di piccole bandiere col numero romano II, forse a denotare la legione incaricata della esecuzione della sacrilega sentenza di morte. Ai lati estremi dell’arco sono due soldati con le lunghe trombe romane al di cui lugubre suono solevano precedere il corteo dei condannati.
 
Chiudono l’angolo destro della pittura quattro soldati che si giuocano la veste di nostro Signore, nel viso dei quali si scorge la speranza ed il timore nel trarre dei dadi; tre di essi, fatto un piano della veste sulla terra, vi stanno attorno a disagio; colla bocca, cogli occhi aperti, colle ciglia inarcate guardano i dadi per sospetto di frode; sovrasta ad essi minaccioso il quarto soldato colla spada sguainata, aspettando la sua volta. Questa grandiosa pittura ha tutti i caratteri per essere considerata fra le belle pitture della seconda età … si scorge in essa l’arte assai migliorata nell’invenzione, nel condurre delle figure a rilievo proprio e naturale, nella varietà e finezza dei caratteri, nell’aggiustamento dei panni e verità delle pieghe. …
 
Nei quattro vani della volta sono effigiati i quattro principali dottori della chiesa (Gerolamo, Agostino, Gregorio, Ambrogio); … Sotto la pittura della crocifissione è ritratta nostra Donna col bambino dritto sulle di lei ginocchia, a destra è S. Giovanni Battista, i tre Santi protettori della Città Secondiano, Veriano e Marcelliano in abito di Senatori romani, e nelle altre pareti molte immagini di santi e sante … vi è anche la storia del giudizio dipinta nella parete destra della cappella … Cristo seduto in trono con terribile aspetto ai dannati si volge per maledirli: a destra è nostra Signora e molti Santi altri in ginocchioni, altri levati in piè. I dannati partiti per bolge … i superbi e gli avari, sui quali, nudi e stipati fra loro si scarica un rovescio di sacchetti pieni e pesanti con fiamme e fumo, e tutti a precipizio sono spinti dentro la gran bocca d’un dragone in mezzo ad un lago di fuoco.
 
Dannati a simil croce hanno scritta questa sentenza: “Quando superbi forno e assai arroganti per questo giacciono in gola del dragone.” Due iscrizioni in caratteri gotici che leggonsi all’ingresso della cappella ci danno contezza dell’autore della pittura, del committente e della sua epoca: “MCCCCLXVI QUESTA CHAPELLA A FACTA MURARE ET DEPENGNERE MASTRU GIACOBU DE AUSTINO DE PETTO PELL’ANIMA SUA ET DELLI MORTI SOI” a rimpetto di questa si legge: ”QUESTA CHAPELLA SI E’ DEPENTA PER LE MANO DE IOHANNI DESPARAPANE ET ANTONIU SUO FIGLIOLU DE NORSCIA A DI DODICI DE MAGIO FO FORNITA”. In una nicchia della parete destra della stessa chiesa si ammira un altro affresco della crocifissione con S. Giovanni evangelista con le mani allargate che dimostrano il dolore per la morte di Gesù, la Maddalena inginocchiata e la Vergine Addolorata.
 
Verso la fine del secolo l’importante famiglia tuscanese Toscanelli Ludovisi ed in particolar modo Paolo auditore, ovvero giudice istruttore delle cause del Palazzo apostolico di Roma ed avvocato concistoriale che patrocinava e difendeva in giudizio una delle parti in causa presso la Santa Sede, fece costruire la cappella gentilizia nella chiesa di S. Agostino in Tuscania e la dedicò a S. Giobbe, protettore contro la peste.
 
Dettero l’incarico agli stessi Sparapane per la parte pittorica che fu terminata il 5 maggio 1492. Lì vediamo tutti i ritratti dei componenti della nobile famiglia. Il loro primo cognome era Toscanelli, poi aggiunsero anche Ludovisi “forse per ragione di ereditaggio” scrisse Secondiano Campanari.
 
Leggiamo ancora nel libro di Di Lorenzo: ”Tre Angeli librati sulle ali raccolgono nei calici il sangue delle ferite delle mani e del costato di Cristo levato in croce, sotto di cui sono ritratti in costume e abbigliati all’usanza dei tempi uomini e donne di quella famiglia.“
 
Nel 1494 il fratello Ludovico, dottore in legge, era gonfaloniere del popolo a Toscanella.
 
 
Le foto sono di Gabriele Loreti.
 
Loreti Mauro

 

 

Il capitano dei carabinieri Giuseppe Braconi




La sua famiglia da Morrovalle si portò a Toscanella, con il suo bisnonno Nazzareno, nel periodo della transumanza del bestiame ed il suo nonno Pietro, il suo babbo Gino e suo zio Mario lavorarono alacremente soprattutto nella tenuta della Carcarella a Tuscania.
 
 
Pino nato nel 1952, che noi tutti conoscevamo ed apprezzavamo per il carattere cordiale, l’operosità, la tenacia e la volontà, a 26 anni, nel 1978, era già tenente dei carabinieri e, purtroppo, la sua vita fu stroncata nei cieli di Palazzago Valle San Martino, in provincia di Bergamo, durante l’adempimento del suo dovere in un’operazione antirapina, nel tentativo di sventare un grave atto di teppismo: una rapina ai danni della Banca provinciale lombarda.
Avrebbe fatto sicuramente una brillantissima carriera.
 
Giuseppe da un mese aveva ricevuto l’incarico di comandante del Nucleo di elicotteri di Orio al Serio, in appoggio alle forze di terra.
L’elicottero dei carabinieri urtò con la coda un cavo dell’alta tensione precipitando al suolo in un campo di granoturco, s’incendiò   e provocò la morte istantanea dei componenti dell’equipaggio.
 
Nell’impatto oltre a Pino, persero la vita anche i brigadieri Adriano Proietti e Giacinto Sarti.  
 
 
Era sposato con Oriana Asdrubali, incinta della figlia Alessandra, che nacque alcuni mesi dopo. Un profondo dolore si diffuse in tutta la cittadinanza di Tuscania con quello molto più grande dei suoi familiari e della giovane sposa.
 
I familiari ed i parenti con alcuni suoi amici si recarono sul luogo del disastro per poter vedere per l’ultima volta le spoglie di Pino che, dopo i solenni funerali di Bergamo, furono trasportate a Tuscania dove furono celebrate le esequie.
 
 
Il suo fu un destino crudele dovuto alla delinquenza operante in Italia: il 10 ottobre, pochi giorni dopo la sua morte, vi fu un’adunanza del consiglio comunale di Tuscania ed il sindaco Angelo Marcoaldi ritenne doveroso ricordare l’attività del concittadino tenente Giuseppe Braconi, tragicamente deceduto.
Invitò tutti a rivolgere un commosso pensiero alla sua memoria.
Fu l’ennesima volta con la quale la Benemerita Arma dei Carabinieri pagò il suo attaccamento al dovere, nella lotta contro la criminalità che inquinava ed inquina la nostra società di oggi.
 
 
In quella lotta senza soste e senza esclusione di colpi, innumerevoli furono le vittime, in massima parte giovani, che lasciarono nel lutto e nel pianto famiglie e città intere.
Anche Tuscania pagò purtroppo il suo contributo di sangue a questa lotta in difesa della società perdendo uno dei sui giovani più stimati ed amati.
Chi conobbe Giuseppe rimase conquistato dalla sua spontaneità e dalla carica di simpatia umana che sapeva mettere in ogni sua manifestazione.
Disse Angelo Marcoaldi che non c’erano parole umane che avessero potuto recare un adeguato conforto alla moglie Oriana, ai genitori Gino ed Erige Ciccioli ed ai familiari tutti.
Espresse poi loro ed alla Benemerita Arma dei Carabinieri, anche perché ne restasse traccia negli atti della civica amministrazione, i sentimenti del più sincero e commosso cordoglio dell’Amministrazione e della Cittadinanza, volendo che la memoria del giovane Giuseppe non fosse dimenticata.  
Quando, a nome dell’Amministrazione, il sindaco porse le condoglianze alla madre, essa fra le lacrime e nella disperazione supplicò di non dimenticare mai il suo Pino: quella richiesta fu raccolta.
 
Furono invitati i giovani a ricordarlo così come era, uno di loro, allegro, spensierato, morto per una società tranquilla, sana ed onesta.  
Fu proposto di intitolare una piazza a Giuseppe ed i consiglieri comunali, all’unanimità di voti, approvarono la proposta.
L’assessore Franco Fiorini e tutti gli altri si commossero per le parole del sindaco.
Nel 1989 il Comune di Tuscania intese quindi intitolare a suo nome una piazza con al centro un artistico monumento commemorativo al Carabiniere, progettato dall’architetto Mauro De Luca.
 
Alla cerimonia della scoperta della lapide parteciparono una grande folla commossa e moltissime autorità civili: il prefetto di Viterbo Mario Moscatelli, il Sindaco Antonio Marconi e gli assessori; militari: il generale Giovanni Marrocco, il colonnello Calatà e la comandante dei vigili urbani Patrizia Brachetti, e religiose: Fiorino Tagliaferri vescovo della diocesi di Viterbo e Tuscania.
 
Anche a Palazzago, nel 2021, il Tenente Colonnello Claudio Proietti, comandante del 2° elicotteri Carabinieri di Orio al Serio, andò in visita per rendere omaggio ai tre carabinieri caduti in servizio, prima al cippo a loro dedicato e quindi al monumento in ricordo di tutti i caduti dell’Arma.
Loreti Mauro
 

 

 

La Chiesa di S.Croce di Gerusalemme a Tuscania 

(gia’ di San Giovanni Battista)



La Chiesa romanica è databile intorno al 1190 e possedeva delle rendite da terreni e fabbricati che venivano utilizzate per l’ospedale di Santa Croce,  che era a fianco e che occupava   gli attuali locali della biblioteca, dell’archivio storico e degli uffici finanziari. Il toscanese Francesco Giannotti scrisse che “nel 1415 la chiesa ovvero hospidale di San Giovanni  era contiguo al Palazzo dei Priori.”  Nel 1492 si legge in alcuni atti: “altare maius ecclesie seu hospitalis Sancte Crucis”.  
 
In seguito, nella prima metà del 1500 gli amministratori ed i santesi della chiesa e dell’ospedale vendettero alcuni locali al comune di Toscanella che vi realizzò il palazzo municipale, in sostituzione di quello “diruto” del Rivellino, con l’aggiunta del palazzo del Podestà che fu unito per mezzo dell’attuale arco. L’Ospedale curava i cittadini ed i pellegrini infermi.  In questa chiesa il vescovo tuscanese Raniero, profondamente religioso, preparò i crociati della diocesi per l’impegnativa quinta crociata del 1217. I crociati tuscanesi poi si unirono ai Frisoni tedeschi e olandesi, ai cornetani, ai vetrallesi, ai viterbesi, ai senesi, ai montaltesi, ai montefiasconesi e partirono con le navi per la Terra Santa il 25 marzo, giorno dell’Annunciazione.
 
Leggiamo nel libro di Antonio Barbacci del 1704 che una delle chiese di Tuscania era quella di Santa Croce con l’ospedale la di cui Cura era raccomandata al Primicerio della Cattedrale di San Giacomo e questo ospedale serviva solamente per gli infermi.
 
 
La struttura muraria della chiesa è a conci quadrati di tufo. La facciata presenta   un rosone ed un portale il cui l’architrave, ridotto, si trova ai piedi della scalinata. L’interno è ad una nave ed il tetto è a capriate. Negli angoli della controfacciata vi sono due mensole di cui una a forma di volto del demonio e l’altra con motivi geometrici. Il presbiterio con la cripta ed il coro è elevato con sette gradini.  Nella parete di sinistra si ammira l’affresco di San Giovanni Battista benedicente, al quale era intitolata la chiesa, ed un affresco goticizzante del 1432 con la Salita al Calvario di Gesù Cristo, opera di Francesco Zacchi da Viterbo detto il Balletta.
 
 
Sono ben visibili i volti di Gesù, della Madonna e di San Giovanni. Nella parete di destra ci sono i resti dell’affresco dell’Apocalisse di Spinello di Luca Spinelli detto l’Aretino del 1400. Si tratta della battaglia tra gli angeli fedeli a Dio e quelli orgogliosi ribelli e sotto Lucifero.  In questa chiesa, in una cappella, fin dal 1348 si riunivano anche i disciplinati e le disciplinate della venerabile Arciconfraternita di San Giovanni Decollato, nominata anche della Misericordia, che avevano un oratorio e seppellivano gratis tutti i cadaveri dei poveri e distribuivano sussidi dotali alle giovani.  
 
 
Nel 1561 questa confraternita, che era aggregata all’omonima compagnia   della Nazione Fiorentina dell’Alma Città di Roma, cedette all’ospedale la cappella di San Giovanni ed altri immobili e si spostò nella chiesa di Santa Maria Nuova.  Quest’ultimo tempio alla fine del 1600 cambiò il nome in San Giovanni Decollato proprio per la grande presenza e venerazione dei componenti della Confraternita ed ora   è anche il santuario dell’Addolorata. L’ospedale è rimasto in funzione fino al 1971, anno del disastroso terremoto che colpì Tuscania.
 
Loreti Mauro

 

 

S.Antonio di Padova – protettore di Toscanella



 
Nel 1677 i tuscanesi aggiunsero come protettore della città Sant’Antonio di Padova, il santo francescano dei miracoli ; anche i frati francescani avevano dedicato una cappella al santo nel transetto di destra della chiesa di San Francesco.
Nella stessa chiesa fin dal 1400 nella cappella del Crocifisso dipinta dagli Sparapane, si pregava il santo raffigurato con il saio francescano bruno con in mano il libro, simbolo della sua scienza , della sua dottrina, della sua predicazione e del suo insegnamento sempre ispirato al Libro per eccellenza: la Bibbia.
 
Era aumentata la venerazione ed i conventuali, il giorno 11 luglio 1677, chiesero a nome del popolo agli amministratori comunali di proclamare Sant’Antonio quarto protettore di Toscanella dopo i tre Santi Secondiano, Veriano e Marcelliano.
 
Il gonfaloniere , gli anziani cioè gli assessori ed i consiglieri accolsero favorevolmente  la proposta, visto che il popolo cristiano di Toscanella lo venerava profondamente
 
 
 
 
 
 
Da allora ogni 13 giugno per molti anni si fece una grande festa con la processione con una nuova statua del santo.
 
Nel 1782 , in occasione della festa del glorioso taumaturgo , con solenne pompa celebrata nella chiesa dei padri minori conventuali, dai signori Fabrizio Lucchetti e Giovanni Francesco Tosaroni  fu composto un sonetto , dedicato al reverendissimo Capitolo dell’insigne cattedrale di San Giacomo Apostolo Maggiore della città, formato allora dall’arciprete Francesco Antonio Turriozzi, dal primicerio Francesco Dolci, dal canonico teologo Bernardino Turriozzi, dal canonico penitenziere Marcelliano Citurini, dal canonico sacrista Giovanni Battista Salvi e dagli altri canonici Marco Antonio Bennoni, Secondiano Lucchetti, Veriano Briganti, Francesco Cicoli, Isidoro Eusepi e Giovanni Quirino Rusci.
 
Cessi ormai lo stupor, la meraviglia,
 
Quell’eroe nel mirar mento, e forte,
 
Che col suo braccio ogn’ombra rea di morte,
 
E le tartaree frodi ognor scompiglia;
 
Poiché quel DIO, cui verun mai somiglia,
 
Con Esso il conversar par ch’abbia in sorte,
 
Quel DIO , che ha in suo poter l’aspre ritorte
 
Del cieco Averno, il lui piacer si piglia.
 
Dunque perché stupir, se il Mare, e l’onda
 
Pronta ubidire a’ cenni suoi si vede
 
E l’Uom già estinto al suo parlar risponda?
 
Oh Antonio! Oh Antonio! Da quest’Alta sede
 
Ove l’eterno vostro ben si fonda,
 
Porgete aita a chi pietà vi chiede.
 
 
Fu stampato in  Montefiascone, nella stamperia del seminario, con licenza dei superiori.
Nella chiesa di San Paolo, nel monastero , c’è una bella statua lignea del santo con il giglio nella mano destra , simbolo della sua purezza e della sua lotta contro il male , ed il bambino Gesù in braccio nella  sinistra, in ricordo dell’apparizione.
Il santo fu un pacificatore , convertì i peccatori, fece restituire ciò che era stato rapito con l’usura e la violenza, liberò le prostitute dal turpe mercato.4
 
 Il culto del santo terminò nella chiesa di San Francesco quando, nel 1798, i francesi obbligarono i frati ad abbandonare il convento di Toscanella, continuò però nelle altre chiese dove era raffigurato: Santa Maria del Riposo, Santa Maria Maggiore, San Silvestro e San Giovanni Battista.
Loreti Mauro