Luoghi di Tuscania
La Torre del Bargello (di Remo Amici)
Torri rotonde, quadrate, esagonali, ottagonali; torri mezzo dirute lungo le mura merlate medioevali. Torri che hanno avuto una storia. Torri di un tempo lontano che, pezzo per pezzo, si sgretolano, cadono, perché nessuno a Tuscania ci tiene a tenere in piedi delle vestigia che potrebbero dire qualcosa al turista e allo studioso.
Se una casa, un chiostro, una chiesa, una torre non riescono più a stare in piedi, crollino pure! Per il tuscanese tutto quello che sa di storia, di arte, di antico è tutta roba inutile e mai spenderebbe un soldo per riattare, rafforzare mura, torri, chiese, chiostri, che in altri luoghi verrebbero considerati tesori inestimabili.
Come possono quelli di Tuscania salvaguardare lo storico patrimonio tramandato dagli avi se non hanno fatto nulla per una torre che era stata parte attiva della cittadinanza per centinaia di anni ed era per tutti tanto familiare da essere considerata indispensabile?
La campana del Bargello suonava per avvertire i ragazzi che era l’ora di andare a scuola. D’inverno, con le mani nelle tasche della giacca a contatto con le castagne lesse, ancora calde, i ragazzi ubbidivano e per vie traverse si affrettavano a raggiungere le loro classi. Sergio Testa, Biagiotti ed altri maestri di allora segnano una tappa nella vita di quelli del mio tempo. Sarebbe bastato il suono di quella campana per ricordarli e ricordare a noi la felice epoca della fanciullezza.
Per molte generazioni l’orologio, incastonato a metà della torre, che di notte si illuminava e sembrava una luna piena, ha segnato il tempo battendo col suo caratteristico suono i quarti, le mezzore e le ore. Era un suono che scendeva dall’alto, allegro, civettuolo e si spandeva nei campi, negli orti, nelle vigne e veniva accolto come una voce amica.
La torre quadrata si ergeva snella, al disopra del palazzo municipale. La voce della campana arrivava dovunque, in Piazza, in Poggio a San Pellegrino ed io qui a Milano ancora lo odo.
Spesso in alto, sul castelletto di ferro, veniva issato il tricolore.
Quelli del mio tempo hanno amato la torre civica. La guadavano ed essa era lì come un baluardo che dava sicurezza, un monumento vivo per i colombi che l’abitavano, per lo scandire del tempo, per lo sventolio del tricolore. Le notizie che Gorizia, Trento e Trieste erano ormai italiane i tuscanesi le hanno apprese dallo sventolio del tricolore al sommo di quella torre e dal suono a distesa del campanone.
Quella torre è caduta senza fare una vittima. Anche per questo avrebbe il diritto di risorgere. Se si pensa che alla sua base c’era la sede del teatro comunale, trasformato in sala cinematografica e da ballo, si può dire che quella caduta ha del miracoloso. Perfino i colombi, avvertiti dallo scricchiolio, poterono mettersi in salvo.
Oggi nei campi, nelle vigne, nelle strade si tende l’orecchio alla ricerca di quella voce che purtroppo non si può più udire. E quando lo sguardo si posa sulla città, al disopra dei tetti gialli di licheni, si cerca la torre amica, ma essa con la sua voce è sparita, è crollata, sepolta nel tempo. Di lei non rimane che il nostalgico ricordo.
E tutti i tuscanesi che l’hanno vista, che hanno udito la sua voce, la voce delle sue campane, che l’hanno amata, nulla hanno fatto, perché la torre risorgesse più forte più sicura; perché continuasse ad essere amica per gli occhi e per l’udito dei loro figli.
Quelli che attualmente reggono le sorti del Comune sanno benissimo che quanto ho scritto risponde a verità e non credo che sia tanto difficile alzare una torre, la loro la nostra torre.
Tuscania
(da “Benedetti Italiani” di Curzio Malaparte)
Tuscania è fuori di mano, e ancora nessuno, che non sia di quelle parti, conosce la bellissima strada che fra prati e boschi porta da Vetralla etrusca e papale alla etrusca e papale Tuscania.
Non molti anni or sono questa maremma era veramente maremma. Ricordo d’esserci venuto in autunno con Alberto Moravia, pochi anni prima della guerra, in una giornata fredda e ventosa: e l’aspetto dei luoghi, da Marta a Canino a Tuscania e di lì a Tarquinia era squallido e triste, simile ad una alto pascolo dell’Asia presso l’Amur Daria o alle alte praterie del Goggiam, in Etiopia. La luce stessa era povera e magra. Non che fosse debole, anzi fortemente dava risalto ad ogni oggetto, a ogni sasso, a ogni incrinatura del sasso, a ogni incidente della campagna intorno, valli, dirupi strette gole, precipizi e le svolte erranti del Marta fra i canneti febbrosi.
Ma era una luce verdognola, senza nessun calore di vita, lievissima e fredda, che si posava sulle pietre sugli alberi, sulle torri con la levità della luce di Giotto. Lo sguardo si perdeva lontano verso il mare e a monte verso glia azzurri monti oltre il lago di Bolsena, l’Amiata, il monte di Radicofani. Non era ancora il tramonto, ma già il sonno usciva dalla terra.
Lo stesso Moravia, che per queste cose non è vanto e non ha la sensibilità che per i fatti e le cose reali e non per nulla è romano, era inquieto e taceva. Eravamo nella piazzetta o corte, che è davanti al tempio di San Pietro e la luce del giorno in agonia, battendo contro la facciata della chiesa, ricadeva su noi illuminandoci in uno stranissimo modo. Non so perché, ma entrammo nel tempio. Io credo che avessimo paura di entrare, per quel soffio di morte o di sonno o di Dio sa che, che usciva dalla terra.
Ci rimettemmo in cammino verso Tarquinia e a un certo punto ci fermammo su un’altura, dalla quale lo sguardo abbracciava per immenso raggio intorno l’alta maremma di Tuscania, di Canino, d’Ischia di Castro. Correvano sulla terra lunghe ombre, le prime ombre della sera, correvano da occidente a oriente, simili a onde marine. E parevano uscir dalla terra, dalle tombe etrusche scavate nelle pareti di tufo a picco sul Marta, dalle valli strette e profonde, dalle vuote torri che si alzano qua e là, dirupate, sul verde dei pascoli. Eravamo nel cuore del paese etrusco, dell’antico paese toscano.
Qui non è la toscana di Siena, di Firenze, di Pisa, di Arezzo, ma la Toscana vera, l’antica, quella dei padri etruschi. La Toscana delle tombe, quella che sopravvive nelle tombe. Nulla in questo antico paese, che fu padre e padrone di Roma, nulla della gentilezza, della grazia, della chiara e magra eleganza dei toscani. Nulla delle maniere manierate dei Toscani. Nulla della loro crudeltà inutile, della loro cattiveria senza scopo. Nulla di quella vanità, che spinge gli uomini tutti, e anche i toscani, a costruire palazzi e chiese, e monumenti, a dipingere muri che tutti possono vedere, ad architettare facciate di chiese e di palazzi che son come visi umani, aperti, intelligenti, dove il gioco dei marmi, ora bianchi ora neri, ora bianchi ora di quel verde di prato che pare rubato a certa erba, al fogliame dell’alloro, ora di quel grigio azzurro della pietra serena, che par rifletta il cielo di seta pallida di Firenze e di Siena, imita i giochi d’ombre e di luci del viso umano. Nulla insomma di quella Toscana leggiadra e crudele che si è spesso tentati di credere uno specchio della vita e delle cose terrene.
Qui tutto è sotterraneo, qui la vita si è rifugiata nelle tombe. Le sole città rimaste da quegli antichissimi tempi sono le necropoli. Le sole città etrusche costruite di pietra, son le necropoli, le città eterne. Tutto quel che appariva sulla faccia della terra, che si muoveva sotto il sole, era caduco nel concetto degli etruschi; i quali amavano la vita sotterranea, adoravano gli dei degli inferi, la vita dei morti. Gli uomini stessi di questi paesi non han nulla del toscano moderno, di Firenze o di Siena, nulla dell’Italiano: sono toscani antichi, hanno il viso etrusco, la fronte, gli occhi, la bocca, la difficile piega del naso, la crudele sottigliezza delle labbra, la linea dura della fronte, il cupo sguardo. Sono di media statura, e tozzi, di spalle larghe, di polsi grossi, di piedi grandi. E taciturni, sospettosi, pieni d’ombra. Le donne son fatte della stessa materia degli uomini, ne hanno la misura e l’aspetto, ma son forse più lente nel camminare, meno sospettose, direi. E’ attraverso di loro che l’uomo vivo comunica col mondo dei morti, Per la loro fessura l’uomo entra come in una crepa del monte.
Dall’interno del loro grembo, come dall’interno di una grotta, l’uomo vede i mondi ignoti, gli incontri dei morti, ode e ascolta le loro parole. Nudi, quali vidi un giorno sulle rive del Marta, presso Tarquinia, al riparo di un verde e folto canneto, nudi, questi uomini e queste donne hanno il torace, le spalle, le braccia, i fianchi e i lunghi muscoli delle cosce, i muscoli delle gambe disegnati come quelli dei vasi etruschi. E tutti hanno quel sorriso strano, quella specie di ghigno crudele che ha l’Apollo di Veio, l’Apollo etrusco.
Son tornato oggi a Tuscania. E’ primavera, il primo giorno di caldo. Ma la terra è umida e fresca, il cielo è sparso di nuvole bianchissime, l’ombra delle nuvole corre sui prati nel vento che soffia dal lago di Bolsena. Entro nella piazzetta che è davanti a San Pietro, tagliata dalle ombre massicce, dense, quasi nere sul verde dell’erba chiaro, delle grandi torri che fan da guardia alla chiesa.
Ritrovo nella facciata i draghi con la bocca spalancata in corsa dietro ad agnelli spauriti, e il bue, il cavallo, il leone ,l’aquila, e l’uomo col serpente. E’ un uomo d’aspetto regale, dalla barba fiorita, incoronato d’oro, che ha un serpente immane avvolto intorno al braccio. La testa del Dio è di tre profili. E’ un antico etrusco, l’immagine di un Dio scolpita in un prezioso marmo bianco, opera egregia di qualche antico etrusco, murata nella facciata del tempio.
A sinistra v’è un altro bassorilievo etrusco. L’uomo che danza. “L’uomo” –
Ha lo stesso ufficio di contrasto che ha il Re dal serpente, nella parte destra della facciata. “Quelli sono i pagani” –
Le due croci sono storte, per vincere la difficoltà del precedente bassorilievo. Anche le colonne dell’alatre, e quelle della cripta sono certamente etrusche o tratte da colonne etrusche: lo scalpello romanico si affaticava visibilmente a trasformare un capitello etrusco in un capitello romanico, bizantino. Soltanto a Ravenna è dato di trovare chiese altrettanto antiche, forse tra le più antiche d’Italia. E nessuna chiesa in Italia, in Europa ha fondamenti più antiche di questa di Tuscania, che poggiano su mura etrusche, su sepolcreti etruschi di mille anni più antichi di Roma. E così è dalle chiesa di Santa Maria, e delle mura di Tuscania e delle case della città e delle stalle. Mi allontano dalla chiesa, spingo un bellissimo cancello di ferro alto forse quattro metri che immette in un orto.
Il verde grigio dei carciofi, dai riflessi di acciaio polveroso, fa una macchia chiara nel verde della campagna intorno, degli alti muri di nenfro, il tufo degli etruschi. Un’enorme alta massiccia torre di nenfro si alza in fondo all’orto e appoggiata alla base della torre c’è una stalla dove una mucca allatta il suo piccolo. Dal margine dell’orto, che occupa tutto il sommo del colle, si scopre all’occhio tutto il meraviglioso paese che dal Cimino ai monti della Tolfa va fino all’Argentario. E’ un classico paesaggio italiano, di quelli inventati dal Poussin e da Claudio Lorenese, sfumanti in toni azzurri, bianchi, verdi e neri, Un paesaggio immenso nel quale la valle del Marta scava una profonda ferita dove il nenfro giallo e rossastro è come carne viva. Di là dal Marta si stendono grandi boschi di lecci e di sugheri, verdi e rossi nella luce stanca del tramonto, Immensi campi di papaveri, di un vermiglio lucente, accendono l’alta pianura verde e gialla verso l’orizzonte laggiù dove si sollevano dolcemnete di una felice trasparenza azzurra i Monti della Tolfa si tinge di un soavissimo color viola che a poco poco finisce in un sottile labbro nero dove i monti azzurri e dove il cielo pallidissimo si alzano e fuggono a morire nel color perso della sera che scende….
…Dura gente questa della maremma di Tuscania, dura gente e io non la chiamerei né latina né etrusca, ma romanica che, secondo me, è il punto di fusione delle due razze antiche. Son gente dura e feroce e chiusa e sospettosa di tutto ciò che non è del loro borgo o popolo o strada o famiglia o clientela o parrocchia. Sono uomini di una testa massiccia quasi di pietra nella quale tutto abita fuorché l’intelligenza: ma virtù. Sono uomini virtuosi, come intendo io, sulla scorta degli antichi, la virtù cioè il coraggio, la sobrietà, la frugalità, la fedeltà e la nessuna paura della morte.
Soffrono quando son feriti senza lamentarsi poiché si vergognerebbero se dalle loro labbra uscisse anche un involontario lamento. Hanno la fonte piena di virtù e il cuore pieno di ferocia, poiché ammazzano con estrema facilità senza pensarci su tanto e per ragioni spesso futili, uomo o animale che sia. La loro arma è la doppietta caricata con la cartuccia a pallettoni per i cinghiali o il coltello che hanno, corto e largo, simile alla daga antica e portano infilato nella cinghia dei calzoni e serve loro per tagliar rami e tralci o per scuoiare gli agnelli.
Non tradiscono chi si affida alla loro lealtà. L’uomo fuggiasco o per delitti o per ragioni di guerra accolgono, nascondono e se necessario difendono contro la legge con la doppietta in pugno. Come vidi durante la guerra a poca distanza da Ischia dove un contadino di una sessantina d’anni già vecchio d’aspetto canuto e il volto pieno di rughe, difese a fucilate due feriti tedeschi che avevano cercato rifugio nella sua stalla contro un drappello di soldati inglesi che volevano portaglieli via.
E mi toccò sudare per convincerlo che non li avrebbero ammazzati, ma curati. Né alcuna vendetta fu fatta dagli inglesi contro di lui perché aveva agito con lealtà e coraggio e a lui non importava che fossero tedeschi, ma che fossero uomini e feriti e in casa sua.
La trinità di Pian di Mola
Nel 1108 Niccolò Adilario donava unum petium de terra per farvi costruire la chiesa vicino alla Badiuzza. Questa chiesa venne consacrata nel 1246 forse dal Vescovo Scambio, come diceva una lapide che il Giannotti, nei suoi manoscritti asserisce d’aver visto ancora ai suoi tempi. Distrutta l’Abbazia nemica la chiesa rovinò e solo nel 1589 come si legge nel Libro dei Consigli si trovarono i mezzi per poterla ricostruire. Il Comune incaricò un certo Messer Cornelio Ragazzi “acciò esigesse e tenesse li denari per spenderli come sarà ordinato dal Consiglio. La chiesa però non venne ricostruita e non sappiamo il perché.
Le terme
Il Campanari ne pubblicò la pianta e ne descrisse le parti affermando che i Tuscanesi fabbricarono le loro terme secondo le regole di Vitruvio nella parte bassa della città dove i circostanti edifici li difendevano dal freddo del vento di tramontana. Queste terme, i cui resti si trovano lungo la strada che porta alla chiesa di Santa Maria, furono portate alla luce da Vincenzo Campanari e dal card. Turriozzi.
Il Teatro comunale
Durante il XIII secolo, nel luogo oggi occupato dal teatro comunale, sorgeva il palazzo del nobile Paolo Romei; alla sua morte passò ai figli tra i quali la storia ricorda Angelo detto Voccacepolla. Costui fu condannato per eresia dall’inquisitore della provincia romana, Fra Bartolomeo da Amelia, e si vide confiscare tutti i suoi beni, palazzo compreso, che furono poi venduti.
Gli amministratori del Comune di Tuscania, che risiedevano nel Rivellino, destinarono il palazzo a residenza pro-
Ridotta ad un moncone di circa 8/10 metri a causa del terremoto, nella prima metà del 700 la torre fu ricostruita e con i suoi 45 metri di altezza era ben visibile da ogni angolo della città. Successivamente la residenza del podestà venne trasferita in altre sedi, fino a quella definitiva del palazzo Mansanti attuale liceo scientifico e l’ex palazzo Romei verso la metà del 700 venne trasformato in teatro comunale, seppur con la sola platea. Nella seduta consiliare del 5 febbraio del 1792 il gonfaloniere e i due anziani sottoposero all’attenzione dei consiglieri la realizzazione dei palchetti in legno nel teatro comunale.
I Palchetti sono troppo necessari – recita il secondo punto all’ordine del giorno. Quando i tre del magistrato (gonfaloniere e due anziani) nonché gli altri dell’Ordine nobile civico, si recano a teatro non riescono a trovarsi a loro agio perché in platea devono stare tutti intruppati con la gente anche più vile, che parla sfacciatamente e senza riguardi.
I 9 scudi e i 60 baiocchi necessari vennero stornati dal denaro accantonato per le feste popolari dei Santi Martiri; il Consiglio decise all’unanimità di sopprimere la corsa agli anelli. In questo modo gli illustrissimi domini annullarono per sempre una corsa di cavalli (Il cursus ad anulos documentato fin dal XV secolo) che tanto affascinava il popolo tuscanese e che tante liti provocava tra i concorrenti in lizza.
I palchetti vennero rifatti o ristrutturati nella seconda metà dell’800. Erano in legno di colore avorio con decorazioni floreali in oro simili a quelli del teatro dell’Unione di Viterbo. In molte delibere di fine ottocento si possono leggere i nomi dei cittadini che contribuirono alla realizzazione divenendone titolari.
Numerose opere liriche e teatrali di successo furono rappresentate da compagnie locali e nazionali dalla fine dell’800 alla seconda guerra mondiale.
Nella primavera del 1944 la torre del Bargello subì i cannoneggiamenti degli alleati che incalzavano i tedeschi in ritirata. Dopo la fine del conflitto il teatro continuò a funzionare prevalentemente come cinematografo, affidato alla famiglia Vigna, proveniente da Nichelino (TO). Le cannonate alleate, l’innesto male attuato sul moncone settecentesco le infiltrazioni di acqua sono da vedere come le concause che, il 19 agosto del 1954 provocarono il crollo della torre. Il giorno prima qualcuno notò che i numerosissimi piccioni insediati da sempre nelle buche pontaie della torre erano completamente spariti ma non dette importanza al fenomeno. Il giorno successivo un giovane verso le 14 mentre passava sotto la torre vide cadere alcuni conci di tufo.
Avvisato il signor Severo, messo comunale, questi ne dette comunicazione alle autorità. L’ingegner Centolani, insieme ad altri tecnici ed amministratori eseguì un sopralluogo a seguito del quale venne ordinato l’immediato sgombero delle case circostanti.
Alle 17 la torre crollava con un cupo boato in una nuvola di polvere distruggendo completamente il teatro.
Trascorsero diversi anni prima che l’incarico di progettare il nuovo teatro venisse assegnato all’ing.Franco Bartocchi. Il progetto venne realizzato. L’inaugurazione fu programmata per il 6 febbraio del 1971, ma in quella stessa sera alle 19,09 la scossa sismica trasformò il teatro in un luogo di desolazione destinato ad accogliere le salme dei primi morti scavati dalla macerie.
Negli anni successivi anche il teatro fu restaurato e cominciò a funzionare. Per iniziativa del maresciallo della resistenza Gino Rossi, il comune decise di dedicarlo ad un martire delle fosse Ardeatine, romano ma operante nella banda di Tuscania, Armando Ottaviano. Il teatro venne inaugurato con la Medea di Euripide, per la regia di Franco Enriquez e protagoniste le attrice Valeria Moriconi e Maria Carta.
Compagnie note e meno note si sono susseguite fin dall’inizio degli anni 80 quando una nuova legge sulle norme di sicurezza da attuare nei locali pubblici rese praticamente inutilizzabile il teatro. Finalmente riaperto il nome del nuovo teatro intende rievocare l’antico palazzo Comunale del Rivellino, come espressione della continuità dei cittadini tra passato e presente, ieri raccolti nella casa comune del Rivellino per la difesa delle libertà comunali oggi per intraprendere insieme la strada che conduce all’Europa.
S.Stefano
Nella Bolla di Leone IV leggiamo: Infra lacum qui vocatur Bulsinius, insulam quae cognominatur Marta cum Monasterium S. Stephani et cum eorum pertinentiis” Un’altra notizia l’abbiamo nel 1199 quando Rainerio, eletto vescovo, conferma una locazione del Priore dei Monaci di Santo stefano dell’Isola Martana, fatta al Priore dei Santa Maria Maggiore di Tuscania. “…Totuim tenimentum, quod habemus apud Quintignanum et Carcarelleum et terram poisitam in territorio Ancarano pdser unum modium ordei de Tuscan.” I ruderi di questo cenobio rimangono ancora oggi ben visibili
L’organo di S.Giovanni Decollato
a cura del M° Mario Nardi
L’Organo della Chiesa di S. Giovanni Decollato è posto in cantoria sopra la porta principale.
Racchiuso in una cassa armonica finemente lavorata abbassata in centro con due “torri” laterali chiudibile con 2 ante snodabili; le 25 canne principali di facciata sono disposte a piccola cuspide con ali laterali, avanti ad esse sono piazzate piccole canne del registro delle “ance” formanti un disegno ricalcante quello di organi più grandi, mentre all’interno sono disposte altre canne anche di legno per le voci gravi.
I registri composti da voci principali, ottave, di mutazione, di ripieno, sono a pomello tirante con trasmissione meccanica ubicati alla destra della tastiera con tiratutti a manovella ed a pedaletto.
La tastiera è di 4 ottave di cui la prima corta (scavezza) mentre la pedaliera di 2 ottave e mezzo è disposta a raggiera anch’essa con prima ottava corta, unione costante pedale-I due mantici sono stati elettrificati verso il 1962/63, per eliminare l’azionamento a corde, in occasione del primo restauro voluto dal parroco don Dario Nardi.
In seguito ai gravi danni subiti con il sisma che colpì Tuscanica il 6 febbraio 1971, fu restaurato dalla Famiglia Artigiana Fratelli Ruffatti di Padova ed inaugurato il 30 marzo 1980 con un interessantissimo Concerto per Organo, Flauto e Chitarra.
Di incomparabile bellezza timbrica ed espressiva fu costruito nel 1863 da Camillo Del Chiaro di Fabriano, come riportato alla base della canna centrale di facciata, e fatto installare nella Chiesa dal Canonico don Luigi Sartori della Confraternita della Misericordia; è uno dei pochi Organi di questo costruttore sparsi nella provincia di Viterbo.
Il bar di Piazza S.Marco
In Piazza San Marco, circondato da vasi di palme, con sopra una scritta rosso-
Luogo di ritrovo della Intellghentia locale, non è raro scorgervi, sul far della sera, quando cessa l’opera del salariato, Massimo D’Azeglio, Agostino Depretis, Giolitti, Eishnawer, Wilson, Fanfani i quali tra una scopetta e l’altra, tra un tresette e un ramino cercano, amichevolmente, di dare una buona rabberciata a questo povero mondo.
Quante volte, ricordo, il Consiglio dei Ministri era stato fatto prima qui che a Montecitorio; quante volte era stato indicato, con una precisione medianica, il nome dell’eligendo presidente della repubblica italiana; quante volte è stata chiusa e riaperta la crisi vietnamita!
Non parliamo poi dei campionati mondiali di calcio!
Era matematicamente assodato che l’Italia avrebbe vinto e se è accaduto l’irreparabile è stato per causa di quegli impertinenti giochi del destino che gabbano anche i più scaltriti maghi del secolo.
La domenica, quando tutte le personalità sono schierate in pompa magna, come la foto ricordo dell’incontro di Yalta, dico le verità, se vado a prendere un gelato, sono preso da un religioso terrore.
Misera rotoletta di un ingranaggio immenso, oso con le cinquanta lire in mano, tanto costa un cono di gelato, profanare la biblica seduta di quel consesso di grandi
Eppure, bando alle sciocchezze, il bar di Fausto con tutti i suoi professori e i suoi maghi e i suoi sproloqui ci vuole.
E’ come in quadro l’ultimo tocco di pennello che illumina e puntualizza un peculiare aspetto della nostra cara Tuscania
S.Savino
Da un documento esistente a Cluny si rileva che tale monastero passò ai Cistercensi nel 969. Ne abbiamo notizia da una pergamena amiatina del 1148: “Abbas S.Savini in comitatu Tuscano dat et donat Episcopo S.Petri de Tuscan nonnulla bona in contrata Vallis Dianae.
S.Saturnino
Di questya Abbazia ci parla una carta amiatina del 736 nella quale si affitta una casa dei Monaci di San Saturnino ai figli di Bennato, già aldino del monastero. “In nomini Domini Dei Salvatoris nostri Iesu Cristi…Anno regni eorum, Domno Liutprando, anno vicesimo quarto et Domno Hilprando anno primo mensis Martio…feliciter…convenit inter Franchisi seu Paschale frates germani filii q.Bennato qui fuit aldio nostrum S.Saturnini nec non et Mauru venerabilis presbiter et Abbas Monastyerii…
Un altro documento è del 739 in cui viene citato un certo Opportuno che con Gesualdo e Perideo fu conditorem del monastero
S.Salvatore
Questa abbazia si trovava sulla riva del fiume Marta. Spesso venne confusa con l’altra abbazia omonima del Monte Amiata “cui immediate subiecta ertat ecclesiae S.Donati Tuscanae.”
Nel 768 Ussone e Maurone quali testimoni, erano presenti alla nomina che faceva “Ulmo habitator Castri Viterbii” del cappellano di S.Salvatore presso il fiume Marta. Nel 775 Aimone dona tutte le sue sostanze all’abbazia di S. Salvatore. “Nos Aimo voltarius habitator castri Viterbii offerimus et donamus omne pecunias orda, nec non quaecumque de Oratorio S.Salvatoris teritorii Tuscanensis.
Nel 1086 Riccardus Tuscanensis Episcopus da a Signoretto e Rollando “habitaturi in civitate Tuscana e ai loro eredi “una petia de terra cum casa et hortu in monte Ermetis prope ecclesiam S. Salvatoris
S.Biagio
La chiesa di San Biagio, nel quartiere della Rocca, una volta era officiata ed era centro di attività penitenziali; poi fu trasformata in magazzino e successivamente in falegnameria. Vi si svolgevano cerimonie care ai tuscanesi e che rimangono solo nei ricordi di qualche vecchio.
Per la festa di San Biagio, il 2 febbraio, i fedeli si recavano a farsi ungere la gola, mentre i membri della confraternita vi si radunavano per fare penitenza. In determinate sere della settimana si potevano vedere uomini provenienti dai vicoli poco illuminati, isolati o a piccoli gruppi, recarsi nella chiesa. Vi si venerava un grande Cristo crocifisso su lunga e pesante croce, che la sera del Venerdì Santo, ancora oggi, viene portata a spalla da penitenti incappucciati con tuniche rosse. Alle pareti della chiesa erano appesi delle discipline di cuoio, le quali servivano ai membri della confraternita per fustigarsi.
Quando tutti erano convenuti si chiudeva la porta, la luce era illuminata dalle candele accese sull’altare maggiore. Il cappellano esponeva ai presenti argomenti appropriati ed al termine di ognuno di questi si smorzava una candela. I fedeli in precedenza si erano armati di disciplina e quando si smorzava l’ultima candela, per penitenza, con la medesima si battevano il corpo. Usanza che oggi porta a sorridere con sufficienza che non è né compresa né condivisa a causa di una fede superficiale, la quale si va sempre più affievolendo.
Anche allora c’era gente che mischiava il sacro e il profano che entrava nella confraternita con fini vendicativi o per regolare conti in sospeso. Un tale non sapendo come vendicarsi di angherie vere o supposte subite da un appartenente della confraternita si scrisse alla medesima onde avere la possibilità di entrare nella chiesa a fare con gli altri penitenza. Si recò dagli stagnini con una disciplina fatta con cordicelle tutte annodate ed alla estremità vi fece annodare una piccola palla di piombo. Si recò alla veglia penitenziale di San Biagio con la sua disciplina nascosta nei calzoni, prese posto dietro l’individuo con il quale doveva regolare i conti e dopo che il cappellano ebbe tenuto i suoi devoti pensieri, quando l’ultima candela venne smorzata il nostro estrasse la disciplina tenuta nascosta e con questa incominciò a picchiare di santa ragione il suo avversario.
Alte si levarono le grida del flagellato mentre una voce andava ripetendo: “A sconto delle tue angherie!”. Quando nel tempio ritornò la luce, il flagellato andavasi accarezzando le parti posteriori del corpo mentre gli occhi erano colmi di lacrime. Dietro di lui il flagellatore inginocchiato con lo sguardo rivolto al grande crocifisso stava compunto con le labbra atteggiate ad un angelico sorriso. All’uscita ebbe l’ardire di rivolgersi al suo addolorato nemico con queste parole: “Ma che hae ammazzato quarcuno?. Te menave come un disperato!” Non ottenne risposta solamente uno sguardo pieno di odio .
Come abbiamo detto la lunga pesante croce di San Biagio il Venerdì Santo viene portata in processione da tre penitenti dei quali nessuno conosce il nome e restano sconosciuti. Un anno Gnanone prenotò i tre baveri rossi perché con altri due amici voleva effettuare il trasporto del crocione. La sera stabilita i tre già vestiti ed incappucciati si presentarono nella chiesa di San Giovanni mentre avevano preso ad uscire i portatori delle croci luminose, quelli con i simboli della passione e quelli che trainavano le catene. Quando toccò al crocione di san Biagio Gnano invitò uno dei due suoi compagni a prendere la croce e dalla chiesa trasportarla fino a San Giuseppe. Quando i tre furono sulla piazzetta di San Giuseppe, quello che trasportava la croce si rivolse a Gnanone: “Gnano, sotto a chi tocca!”. Questi imperterrito con le mani incrociate sul petto proseguì il cammnino senza badargli. Davanti alla stradina il Cireneo con voce fioca tornò ad implorare Gnanone: “Gnano, io crepo. Nun ne posso più!” E allora Gnano si degnò di abbassare il capo verso di lui per chiedergli se pesava proprio tanto. “E nun ce lo sae?” –
(Da Tuscania non c’è più! –
S. Giuliano
La prima notizia di questo monastero risale al 1244. In questo anno Innocenzo IV donava il monastero, per suo sostentamento, a Scambio, Tuscanensis et Vierbiensis Episcopus con l’obbligo, però, di mantenere i monaci. Quattro anni più tardi Alessandro IV lo donava alle monache di Santa Maria in Cavaglione: Nos vestris supplicationibus inclinati, Monasterium Sancti Iuliani Tuscanen. Dioeces. Propter malitiam personarum in eo degentium in spiritualibus et temporalibus iam collapsum, quod ordinis S.Benedicri esse consueverat in qwuo unus abbas et unus tantum monachus marabantur cum omnibus ecclesiis…concedimus statuentes ut illud habeatis et possideatis.
Le monache dovevano dare in cambio, per la festa della Beata Clara, una libbra di cera. Le monache in seguito lo dettero a livello a Ranuccio Pagani per Xl librarum denar. Min. in florenis aureis aquilinis et pro censu unius librae cere omni anno festivitate S.Iuliani monasterio.”
I figli di Ranuccio, il 25 aprile 1274, rinunciarono a quell’enfiteusi ed il monastero venne ripreso in possesso dalle Monache. In seguito i beni del Monastero furono usurpati da un certo Bonfiglio di Gerardo. Urbano IV allora nel 1263 scriveva una amara lettera al Podestà, al Capitano, al Consiglio e Comune di Tuscania, come aveva fatto tre anni prima Alessandro IV, perché forzassero il Bonfiglio a restituire i beni maltolti.
S. Giusto
Questa abbazia sorge presso il fiume Marta, a circa sei chilometri sull’antica strada che conduceva a Corneto (oggi Tarquinia). La posizione doveva essere strategica, nell’umida conca percorsa dal fiume per sorevgliare le vie di accesso dal mare all’Alto Lazio. V enne identificata dal Janauschek in abse alle notizie fornite dal Turriozzi. La sua origine benedettina si desume da un documento del 962. In questo anno l’abate di Farfa acquistò una prepositura ab abate monasterii sancti iusti de Tuscana e la istituì nella cella di santa maria del Minione.
Nel 1255 da una lettera di Alessandro IV sappiamo che i monaci non erano più benedettini, ma cistercensi. Ma senza dubbio molto tempo rpima l’abbazia passò ai cistercensi; infatti da un documento esistente a Cluny il Convento di San Savino (vedi) passò al nuovo ordine dei Cistercensi nel 969 e questa data potrebbe avere anche per san Giusto. Nel 1146 si ha notizia dell’adozione da parte dellìabbazia di Fontevivo della abbazia di san Giusto rimasta abbandonata per le calamità della guyerra. Ad essa venne inviato, il 26 luglio del 1146, un gruppo di monaci. Nel 1226 vernne edificata la nuova chiesa sopra all’antica. Anche oggi si possono scorgere alcune pitture deteriorate dal tempo di quel secolo. In questo anno fu costruita la torre quadrata, campanaria e venne ampliato il monastero.
Una lapide in marmo ricorda:
RAINERIUS LEVITA ET MONACHUS
HOC OPUS FIERI IUSSIT TEMPORIBUS
R.P.D. ALBERICI HUMILIS ABBATIS
I Monaci in seguito ottenevano con un adecretale di Onoriuo III che fossero trascritti da pubblici notai i documenti delle donazioni, dei possedimenti ecc. “ne depereant nimia vetustate consumpta”
Le copie furono consegnate al Priore di santa maria e al Prete severiono, canonico di San Pietro “Priori S.Mariae et Presbytero Severino canonico S. Petri Tuscan.” Dopo l’ampliamento la vita del monastero non fu molto flortida se 29 anni dopo , nel 1255 era “ita graviter in spiritualibus et tgemporalibus deformatum, ac in bonis adeo deminutum et ibidem nonnisi V vel VI monachi residerent”.
Il Pontefice ordinò allora che l’abate di S. Anastasio di Roma dopo aver pagato una pensione annua al vescovo di Tuscania prendesse lui la direzione del monastero. La risoluzione del papa ad ogni modo non diede buoni frutti e solo quattro anni dopo, nel 1259 Alessandro IV lo donava alle monache del Convento di Cavaglione “cum omnibus ecclesiis iuribus et pertinentiis suis” rimanendo sempre economo l’Abate di S, Anastasio. La causa della decadenza spirituale e materiale di questo monastero ci sfugge. Alessandro IV ci parla di “malitia personarum in eo degentium” certo è che anche dopo la donazione alle Monache le cose andarono ancora peggio se nel 1314 l’abbate di s. Anastasio “ut procurator et economus monasterii S.Iusti…causa satisfaciendi honera et debita ad quae erat obbligatum et obnnoxium monasterium S.Iusti” doveva vendere due case a ser caio site “in civitate Tuscana: una quarum posita est in contrata montis (il Rivellino) altera in contrata S.Andraee, iuxta domum ecclesiae S. Petri” Nerl 1460 dopo due secoli di vita stentata venne soppresso.
S. Massimiliano
Si trovava nei pressi di un ponte sul fiume Fiora. Fu Abbazia di Cistercensi e venne chiamata anche Abbatia ad Pontem. Nel XIII secolo venne trasformata in Castello dai Signori di Musignano.
Le pitture che rimangono in questa vecchia chiesa chiaramente dimostrano che qui i Monaci ebbero un tempo chiesa e convento
La Chiesa ed il convento di S.Agostino a Tuscania
di Giuseppe Giontella

La notizia più antica che attesta la presenza a Tuscania dei frati dell’Ordine degli Eremitani di S. Agostino nell’omonimo convento è del 1275. I frati dovevano essere abbastanza numerosi ed erano diretti da un Padre Priore. Conosciamo il nome di un Padre Priore soltanto nel gennaio del 1393: si tratta di Frate Egidio da Corneto, che difese in tribunale alcune prerogative usurpate ai frati del suo convento.
Dalla lettura dei documenti d’Archivio, risulta che gli Agostiniani furono sempre benvoluti dalla popolazione di Tuscania: fin dal 1313 troviamo una devota tuscanese, donna Guidetta vedova di Gezzo Falchi, che, per la salvezza dell’anima, istituisce un legato testamentario destinato a finanziare alcuni lavori di ristrutturazione della chiesa di S. Agostino non specificati nei dettagli. Un altro legato testamentario, del 1348, è devoluto alla Cappella della Confraternita dei Disciplinati di S. Agostino, che, nel 1523, venne trasferita da S. Agostino nella Chiesa di S. Maria della Rosa, dove cambiò divenendo la Confraternita del Gonfalone.
I fedeli vollero ricostituire altre due Confraternite: quella dei “Centuriati di Santa Monica” (in onore della madre di S. Agostino) e quella della “Madonna del Carmine”, che furono attive per diverso tempo. Troviamo i “fratelli” di queste due Confraternite andare in processione ancora nel 1704.
Nonostante le proprietà immobiliari, spesso le entrate non riuscivano a fronteggiare le spese per i lavori straordinari di manutenzione della chiesa e del convento. Gli archivi tuscanesi conservano testimonianze della generosità sia del Comune che di privati cittadini: numerosissimi sono (oltre a quelli citati) i legati testamentari istituiti a favore degli Agostiniani lungo il corso dei secoli, fino alla fine del Settecento, soprattutto da parte di quei cittadini che desideravano essere sepolti a S. Agostino.
Anche nelle deliberazioni del Consiglio comunale si trovano molte notizie di sovvenzioni in denaro o in beni (legna, carne, pane, ecc.) concessi dal Comune per lavori di consolidamento e di restauro.
Gli Agostiniani hanno abitato il Convento e officiato la chiesa per oltre cinquecento anni, dal XIII secolo al 1798, quando vennero espulsi dall’invasione francese che dette vita alla Prima Repubblica Romana.
LA CHIESA
Gli elementi architettonici della primitiva chiesa romanica a navata unica sono ridotti a poca cosa, come le cappelle laterali a nicchione, ricavate nello spessore del muro e le finestre a strombo con arco a tutto sesto, che scandivano le pareti; così pure sono testimoni di questa prima costruzione la parte absidale esterna, dove restano masselli di tufo a fil di muro, e buona parte delle murature perimetrali, in conci quadrati di tufo.
Alle forme romaniche si sovrappose la ristrutturazione nel XIV secolo, in cui dominano gli elementi gotici, come lo snello finestrone a sesto acuto, che si affaccia su Piazza Italia, dal quale si irradia la luce nel presbiterio (originariamente era una bifora di cui rimane solo un frammento della colonnina centrale), le mensole laterali dalle quali spiccavano gli arconi della volta, poi completamente trasformata e l’arco trionfale a sesto acuto slanciato, squisitamente gotico.
Il volume della chiesa, poi, era scandito da arconi ogivali di sostegno (rimangono solo alcune tracce), simili a quelli che si possono ancora ammirare nelle locali Chiese trecentesche di S. Silvestro, S. Biagio e S. Marco.
Qualche traccia di affresco tre-
Sotto il primo altare di sinistra di gusto barocco, dopo il terremoto è emerso un affresco rinascimentale che ornava il precedente altare: si nota la figura di un santo agostiniano su cui si legge la scritta: IN TRIBULATIONE EXUDIAM EUM.
La chiesa ricevette una qualificazione stilistica nella seconda metà del Quattrocento, quando venne aperta la cosiddetta “loggia” nella parete di destra, forse una cappella, di cui resta un soprarco di monofora laterale con decorazione trilobata e circolo centrale.
Ma la ristrutturazione più notevole di questo periodo si deve all’iniziativa di un noto esponente della nobiltà tuscanese, il prelato Paolo Ludovisi, avvocato presso la Sacra Rota, che volle aprire, sempre sulla parete destra, una sontuosa cappella.
L’ apertura della “loggia” e della cappella sconvolsero un po’ tutta la parete destra: alcune finestre a strombo vennero chiuse, come pure due altari a nicchione vennero demoliti. Paolo Ludovisi volle dedicare a S. Giobbe la sua nuova cappella, lasciandone testimonianza con un’epigrafe scolpita sull’architrave d’ingresso:
REVERENDUS PATER DOMINUS PAULUS DE LUDOVISIS DE TUSCANELLA IURIS UTRIUSQUE DOCTOR SACRI APOSTOLICI PALATI CAUSARUM AVOCATUS HOC SACELLUM DIVI IOBI DICATUM FIERI IUSSIT MCCCCLXXXVI.
Il 1486 è, quindi, la data di inizio della costruzione della cappella di S. Giobbe, i cui elementi caratterizzanti sono diversi. Si nota anzitutto il solenne grande arco di nenfro a tutto sesto e terminazione orizzontale: è interamente scolpito con bassorilievi raffiguranti candelabri, festoni e putti, oltre all’iscrizione citata: certamente lo scultore doveva conoscere molto bene gli stucchi delle “grottesche” della Domus Aurea romana venuti alla luce e ripresi, proprio in quegli anni, ad opera del Ghirlandaio e del Pinturicchio.
All’interno della cappella si apre il catino absidale, anch’esso incorniciato da un arco di nenfro ornato. Nel vano del catino c’era l’altare con il tabernacolo (oggi scomparsi), sopra al quale si può ancora ammirare il pregevole affresco della Crocifissione, attribuita alla scuola viterbese della fine del Quattrocento: il pittore ha rappresentato al centro il Cristo crocifisso ormai morto, con tre angeli che raccolgono in tre calici il suo sangue zampillante dalle mani e dal costato; sotto la croce, oltre alla Madonna (a sinistra) e a S. Giovanni Evangelista (a destra), assistono alla scena anche i membri della committenza: i nobili Ludovisi, sia maschi che femmine. il cartiglio sottostante l’affresco è redatto in volgare: ADI’ 7 DE MAGIO .M.CCCC.LXXXXII, ma è di fattura posteriore. Al centro della volta è collocato, a rilievo in stucco colorato, lo stemma di una famiglia seicentesca che ebbe il giuspatronato successivamente alla famiglia Ludovisi.
Sulle pareti laterali della cappella si aprivano due finestroni a strombo con arco a tutto sesto: quello di destra fu poi chiuso; quello di sinistra venne ridotto a finestra quadrata. Nella parete di destra è incastonato un tabernacolo cinquecentesco in nenfro, in prossimità del quale si trova un confessionale settecentesco in noce.
La chiesa fu nuovamente consacrata l’8 ottobre 1566, come si leggeva in una tavoletta “appesa dietro l’altare maggiore”, riportata nella visita pastorale del 1881 effettuata dal vescovo Paolucci: “Anno Domini MDLXVI die VIII octobris consecrata fuit haec ecclesia S. Agustini”.
Nei secoli successivi ebbe il patronato famiglia dei Conti Pocci, i cui membri, in particolare i due fratelli, il Conte Cesare (1810-
Tra la fine del Seicento e gli inizi del Settecento era Priore del convento il Padre baccelliere Fulgenzio Pocci “Patrizio Tuscanese” (n. 1653 –
Questi restauri settecenteschi voluti da Padre Fulgenzio Pocci furono radicali: erano già precedentemente scomparsi i finestroni a strombo che si aprivano sulla parete di sinistra già al tempo della costruzione del convento. Venivano tamponate tutte le cappelle a nicchione per far posto ai sei altari (tre a destra e tre a sinistra) di gusto barocco, in pietra e stucco. Così pure scomparivano gli arconi ogivali gotici, mentre il tetto veniva realizzato a capriate. Fu certamente Padre Fulgenzio a far riprodurre gli stemmi della sua famiglia in cinque dei sei altari. Suo fratello Francesco Pocci (1654-
L’altare maggiore venne spostato in avanti, sotto l’arco trionfale gotico, e ricreato con un nuovo scenario barocco incastonato in un nuova cornice, terminante in un arco a tutto sesto, mentre l’abside divenne la sacrestia. Nelle pareti laterali si vedono ancora le due porte: a sinistra si ha l’accesso al chiostro, a destra si va nella “loggia”, di cui restano oggi solo alcune tracce evidenti in pietra e qualche residuo di affresco.
All’ingresso della chiesa, sulla destra, esisteva una Madonna in terracotta di buona fattura, donata nel 1708 dal canonico Bartolomeo Bonsignori: rappresentava la “Maternità di Maria Santissima”. Oggi rimane solo la preghiera, che il Bonsignori vi fece apporre in forma epigrafica (la Madonna è stata rubata diversi anni fa):
(SN) NOS CUM PROLE PIA (SN)
BENEDICAT ET LIBERET A PECCATIS, IMPROVISA MORTE,
FULGURE, TEMPESTATE, TERRAEMOTU, PESTE, FAME, BELLO,
IRA, ODIO, MORTE PERPETUA ET OMNI MALO
FILIA SPONSA MATER VIRGO MARIA
IMPLORAT HUMILLIME
CANONICUS BARTHOLOMAEUS BONSIGNORIUS *
1708
Anche la facciata della chiesa venne completamente rifatta: ora si presenta austera e semplice, con portale e finestra a cornici in pietra modanate, e con pinnacoli e basi superiori per statue, oggi scomparse (o mai collocate). Un semplice e tardo campanile a vela con due campane, venne collocato sul lato destro del tetto, sopra la cappella Ludovisi.
Nella citata visita pastorale del 1881 (vescovo Paolucci) si legge che nella chiesa vi sono sette altari:
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“In tutti gli altari vi sono quadri in tela, ad eccezione dell’altare maggiore in tavola di antica e stimata pittura et il Crocifisso in muro di pittura antica e di qualche pregio creduta”.
Allo stato attuale la chiesa, riparata e restaurata negli anni ’70 del Novecento, in seguito ai danni provocati dal sisma del 1971, si presenta come un vasto ambiente, spoglio di molti dei suoi elementi decorativi (in buona parte trasferiti altrove), ma ancora ricca di decorazioni e arredi, altari e cappelle, che ne restituiscono bene la storia e l’integrità, nonché la possibile funzionalità, mantenendo tutta l’importanza di luogo sacro e monumento pubblico di Tuscania, dove i diversi stili che si sono succeduti, il romanico, il gotico, il rinascimentale ed il barocco, sono stati armoniosamente evidenziati in modo da rendere più agevole la lettura dello sviluppo del tessuto architettonico lungo il corso dei secoli.
Dal 1903 al 1970 questa chiesa è stata sempre considerata come la chiesa dei giovani, perché in essa i ragazzi ricevevano la Prima Comunione, dopo tre giorni di ritiro spirituale, organizzato e diretto dal benemerito Conte Enrico Avv. Pocci, poi dai suoi due figli, di buona memoria: l’Ingegnere Fabrizio Pocci e Mons. Filippo Pocci, vescovo titolare di Gerico ed ausiliare per la diocesi di Roma.
Attualmente la chiesa è inagibile e chiusa al pubblico: dopo il terremoto, ciò che aveva di artistico è stato trasportato in altra sede, come la pregevole tavola dell’Altare Maggiore, rappresentate la “Madonna dei Raccomandati” conosciuto anticamente con il nome di “Madonna del Carmine”, come abbiamo già vistto, o come “Madonna del Popolo” , unica opera del pittore viterbese Valentino Pica, realizzata poco dopo il 1466. E’ una tavola dipinta su due lati: in quello posteriore (verso la sacrestia) è raffigutrato S. Nicola da Tolentino, mentre in quello anteriore “…si rimira – scriveva l’arciprete don Giuseppe Di Lorenzo – quella vivacità d’immagini che non si riscontra nelle opere delle epoche che furono innanzi. E’ quivi dipinta Nostra Signora che, con ambe le braccia, stende l’ampio suo manto sotto del quale è ricoverato il popolo cristiano, riparato dai roventi fulmini che scaglia dall’alto l’eterno padre, terribile nell’aspetto. Parte di essi si arresta sul manto di Nostra Signora, gli altri colpiscono a morte coloro cui non toccò la ventura di cessare il castigo sotto l’usbergo del patrocinio di Maria. E’ assai ben espresso il popolo cristiano nelle figure che si vedono sotto il manto della Vergine, distinte in gerarchie, gradi e condizioni, perché vi sono papi, cardinali, vescovi, religiosi e religiose, magistrati, nobili e plebei, ciascuno coll’abito proprio della sua condizione e nel vero costume del tempo nel quale fu condotta tal pittura”.
Nella sacrestia si conservava un quadro con il volto del Redentore, che “nella tecnica e nell’espressione si rivela dell’epoca bizantina, tranne la fascia inferiore”.
Per motivi di sicurezza la tavola è stata trasferita altrove, mentre il quadro con il volto del Redentore si trova presso il palazzo vescovile di Viterbo.
La cantoria, posta sopra l’ingesso principale è stata utilizata fino al terremoto, ma subito dopo l’organo settecentesco è stato portato nella chiesa parrocchiale di S. Marco.
IL CONVENTO
Poco tempo dopo la fine dell’Impero Napoleonico, nel 1816, il vescovo di Viterbo e Tuscania, Card. Severoli, d’accordo con la Santa Sede e l’Ordine degli Agostiniani, istituì il seminario nei locali dell’ex-
Durante la Prima Guerra Mondiale, alcuni locali del seminario di S. Agostino furono utilizzati anche come laboratorio per la manifattura di fasce, passamontagna e guanti di lana destinati ai soldati che combattevano al fronte: dirigeva il laboratorio un’inviata dagli Stati Uniti d’America, Miss Ada Martin, coadiuvata da numerose operaie ragazze di Tuscania.
Finita la Grande Guerra, oltre al seminario continuarono a convivere insieme anche alcune classi delle elementari: la prima e la quarta maschili al piano superiore (in una stanza dentro l’altra!), mentre la classe terza era ospitata al primo terreno. Anche le aule scolastiche dei seminaristi, la cucina ed il refettorio erano al piano terreno, mentre i loro dormitori si trovavano al primo piano.
Nel seminario vennero, poi, predisposte due nuove aule per le classi settima ed ottava elementare, che non entrarono mai in funzione.
Il seminario fu chiuso definitivamente nel 1928 (i seminaristi furono trasferiti a Viterbo), ma dopo appena qualche anno l’ex convento degli Agostiniani divenne il ricovero provvisorio degli sfollati della Seconda Guerra Mondiale. Da provvisorio, il ricovero divenne definitivo, fino a quando gli sfollati non furono trasferito in seguito al terremoto del 1971.
Non sappiano quale aspetto avesse il convento con le sue celle nel suo interno. Nel 1818 fu completamente ristrutturato, quando venne trasformato in seminario. Nemmeno questa nuova struttura oggi è possibile leggere, a causa delle trasformazioni subite ad opera degli sfollati, ma, soprattutto, del terremoto.
Soltanto il chiostro conserva aspetti originari.
Di stile rinascimentale, esso è ancora in grado di invitare il visitatore al silenzio ed alla meditazione.
Ciascun lato dell’ampio quadrato è delimitato da cinque arcate a tutto sesto, sorrette da tozze colonne poggianti su uno spesso muro, ma l’insieme non è per nulla appesantito; anzi, la teoria delle venti colonne si snoda agilmente lungo tutto il perimetro.
Su ciascun prospetto di tre delle quattro pareti si aprono quattro severe finestre rettangolari con cornice in nenfro per dar luce agli ambienti del primo piano: si interrompe così la monotonia dei muri; e lo sguardo d’insieme è reso ancor più suggestivo dalla parete nord, sulle cui cinque arcate, in luogo delle finestre, si apre un’elegante loggetta con balaustra, scandita da colonnine quadrate collegate da archetti a sesto ribassato: in tal modo l’architetto è riuscito a rendere molto più snelli i diversi volumi con l’alternarsi di pieni e vuoti dell’ambiente claustrale.
Sia al centro della parete nord che in quella sud era dipinta una meridiana, con lo gnomone in ferro, ma ambedue le meridiane sono scomparse in seguito all’eliminazione dell’intonaco, avvenuta con i restauri successivi al terremoto. Così pure sono andate perdute le epigrafi dipinte in nero sull’intonaco delle pareti del chiostro: esse ricordavano la trasformazione del convento in seminario. E’ certamente possibile il loro rifacimento sia perché vi sono numerose fotografie, scattate lungo il corso del XX secolo, sia perché sono state tutte pubblicate da Celestino Masetti, Sulla vita e sulle opere del card. Antonio Gabriele Severoli – Commentario storico, in “l’Album”, vol. XX (Roma 1853), p. 3:
PIO VII P. M.
PATRONO LITERARUM AUCTORI SUO
SEMINARIUM THUSCANIENSE
A. MDCCCXVI IV. EID. NOV.
QUO DIE DEDICATUM EST
***
ANTONIO GABRIELI SEVEROLIO
CARD. PONT. THUSCANIENSIUM ET VITERBIENSIUM
QUOD PER EUM
AEDES CUM TEMPLO
FF. AUGUSTINIENSIUM
IN NOVISSIMA ORBIS TURBATIONE PUBLICATAE
D. N. PII VII RESCRIPTO
IN PATRIMONIUM THUSCANICAE PUBIS
BONIS ARTIBUS ERUDIENDAE
SUNT REDACTAE
S. P. Q. T. A. MDCCCXVI
***
FRANCISCO ANTONIO TURRIOZZI
ANTIST. THUSCANIEN. XXIV. PER ANNOS
VICARIO
QUEM OMNES BONI CONSENTIUNT
AMANTISSIMUM PATRIAE SUAE FUISSE VIRUM
EIQUE PRAESTITISSE PLURIMA
EDITIS LIBRIS CONSILIO OPE GRATIA
CURA PRAESERTIM SEMINARII
INSTITUENDI ORNANDI PERFICIUNDI
S. P. Q. T. VIV. P.
A. MDCCCXVI
***
QUOD III. VIRI MUN. THUSCANIEN.
S. P. Q. T. ROGARUNT
VELLENT IUBERENT UTI EX AERARIO
NUMM. ARG. CCCCL QUOTANNIS PENDANTUR
REI LITERARIAE SUBSIDIO
QUODQ. S. P. Q. T. JURE SCIVIT
UTI III. VIRI ROGARUNT
VI. VIRI SEMINARII CURATORES
M. P.
QUO MAGIS INTELLIGANT STUDIOSI ADOLESCENTES
QUANTUM PRAESTARE DEBEANT CIVIBUS UNIVERSIS
FIDE IN PATRIAM ET CHARITATE
A. MDCCCXVI
[1] Ecco il testo dell’epigrafe:
D. O. M.
PETROIOHANNI ET FABRICIO DE POCCIS
NOBILIBUS TUSCANENSIBUS
QUI
AB EXIMIO STRENUOQUE VIRO
MARCO POCCIO
ROMAE A. D. MCCCCXXII DEGENTE
COMITE PALATINO ROMANOQUE CIVE
ORIUNDI
OMNEM LAUDEM NON IN GENERIS NOBILITATE
SED IN MAGNIFICENTIA ERGA PAUPERES IN CHRISTIANA
HUMILITATE ATQUE IN UNA DEMUM VIRTUTE
CONSTITUERE
QUORUM MORTALES EXUVIAE
HIC CENSORIUM EXPECTANT DIEM
FRANCISCUS POCCIUS
FRATRI ET FILIO DULCISSIMIS
SIBIQUE VIVENS ET SUIS
POSUIT
ANNO REPARATAE SALUTIS MDCCXXV
S. Maria del Riposo
La chiesa fu edificata nel ‘200. Il complesso, comprendente la chiesa e il convento, sorge fuori le mura di Tuscania; il suo aspetto attuale è dovuto alla ricostruzione del 1495, quando era occupato dai padri carmelitani, sui resti di una precedente chiesa benedettina e rimaneggiato più volte nel corso dei secoli, in particolar modo n…el ‘700.
La chiesa presenta una facciata sostenuta da tre contrafforti, con portale cinquecentesco in nenfro (una varietà di tufo) sormontato da una lunetta.
L’interno è a tre navate divise da colonne e conserva opere cinquecentesche, tra le quali un dipinto di Girolamo Siciolante raffigurante la Presentazione al Tempio, tre pale d’altare di Giovan Battista Volponi da Pistoia, detto Scalabrino.La maggior parte delle opere è stata danneggiata durante il terremoto che ha colpito Tuscania nel 1971. Accanto alla chiesa sorge il convento, risalente nella sua forma attuale al XVI secolo, che presenta un chiostro riccamente decorato da 48 lunette con affreschi seicenteschi che illustrano storie di San Francesco d’Assisi.
I frati che si trovavano a Tuscania, nel 1457, per alcuni contrasti che si erano creati in seno all’Ordine, se ne andarono dal paese. Ma i tuscanesi, che li avevano sempre amati con sincerità, con insistenza chiesero loro che ritornassero con la promessa di offrire loro un’altra chiesa e un altro convento.
E nell’anno 1514 il papa Leone X con il suo breve Nuper communitas concesse ai frati la chiesa e il convento di Santa Maria del Riposo, due anni prima abbandonata dai carmelitani. I frati però non vi dimorarono più di 64 anni, perché furono costretti ad abbandonare il convento perché in decadenza e anche perché l’aria non era buona e continuamente giacevano infermi. Nel 1579, il 26 gennaio, comunicarono al Comune la decisione e partirono dalla città. Il 19 febbraio, però, dello stesso anno, la chiesa e il convento fu presa in possesso dai frati agostiniani.
Ma anche costoro non poterono dimorarvi a lungo e se ne partirono il 1° giugno del 1599. I tuscanesi addolorati nel veder abbandonata la chiesa del Riposo tornarono di nuovo a scongiurare caldamente i religiosi di ritornare e promisero loro di restaurare il convento, di sostenerli con ab-
E il 14 agosto 1599 i frati francescani accettarono di nuovo di tornare nel convento.
S. Donato
Nel 768 i suoi possedimenti venivano presi in affitto da un certo Ulmone habitatore castello Viterbio nec non et Gampertu presbiter il quale doveva resedere, laborare et ospicio iuxta suo sapere in ipsa ecclesia singulis dies facere. Actu in Civitate Tuscana. Fidemanzo di raniero nel 1283 titulo donationis inter vivos in obsequium meritorum, quae grata me recolo suscepisse a ven. P. Petro de Tuscana, abbate Abbatiae ecclesiae S.Saòvatpris…pro ecclesia S.Donati de Tuscana dava il suo ortopositum extra muros Communis Tuscanae iuxta rem dictae ecclesiae a duobus partibus iuxta palatium dictae ecclesiae. A questo Monastero in questo anno una certa Benvenuta vendeva il suo viridarium seu ortum positum iuxta muros Cammunis Tuscanae post dictam ecclesiam S. Donati et iuxta turrem dicti Communis sub qua est porta vocatur Donati (detta poi Montascide). Actum Tuscanae in Ecclesia S.Laurentii. Nel 1284 Fara uxor q.Petri Ganzani et Angelus filius eius…diderunt…F.Petro Abbate pro ecclesia S.Donati quemdam eorum ortum positum prope muros civitatis Tuscanae et ecclesiae S.Donati. Actum in Claustro ecclesiae S.Donati. Nello stesso anno Angelus Caglianensis et Capellus filius d.Angeli vendiderunt P.Petro Abbate quemdam eorum ortum extra positum civitatem Tuscanam eztra muros dictae Civitatis et loci S.Donati et iuzta fossum civitatis eiusdem. Actum in Palatio S.Donati.
La Chiesa di S.Maria della Rosa
Le numerose chiese e i vari conventi dei diversi ordini che punteggiano il tessuto urbanistico di Tuscania, dentro e fuori le mura urbiche, documentano la rilevanza politica e sociale della città che cerca di resistere all’affermazione della vicina Viterbo con la quale dalla fine del XII secolo condivideva la dignità di sede di diocesi.
Tra queste fondazioni subito dopo le basiliche di S. Pietro e S. Maria Maggiore, riveste un ruolo di grande rilevanza il complesso ecclesiale di S. Maria della Rosa. Questa con la definitiva decadenza del quartiere di S. Pietro che, già escluso dal perimetro delle mura urbiche, era andato progressivamente spopolandosi finendo definitivamente deserto dopo il sacco operato dalle truppe di Carlo VIII nel 1495 (il Comune esentava dalle tasse quei cittadini che accettavano di vivere nel quartiere, l’offerta rimase però pressoché priva di riscontro e così la città si articolerà nei secoli a venire in terzieri), venne eretta alla dignità di chiesa cattedrale.
Esterno: L’attuale edificio si presenta come il frutto di una serie di rifacimenti e ampliamenti successivi che si evidenziano nelle dissemetrie della pianta, nelle cesure tra i diversi corpi visibili nella facciata e nel sincretismo stilistico che vede elementi gotici inserirsi su un lessico ancora romanico.
Peculiare è la terminazione rettilinea della facciata che conosce una notevole diffusione a Tuscania nel XIV secolo (S. Silvestro, S. Marco. Madonna dell’Olivo, S. Francesco) articolazione rispettata per omogeneità anche nei due corpi laterali eretti in corrispondenza delle navate laterali che furono aggiunti in momenti diversi.
Essa è realizzata in conci di pietra vulcanica locale (nenfro) e trova concorde la critica specialistica nella individuazione di elementi topologici che la accomunano a modelli umbri e abruzzesi; una cornice a dentelli la corona in alto mentre due cornici marcapiano suddividono la facciata in tre diversi campi: quello superiore è aperto da un elegante rosone raggiato –
Il campo della lunetta presenta ancora un affresco seicentesco dove è appena leggibile l’immagine della Vergine tra santi. Sul lato destro della facciata si erge il campanile che si presenta eccessivamente tozzo per la troncatura in altezza di almeno due piani, il piano che sormonta la chiesa è aperto da bifore sui quattro lati (secondo il modello ricorrente i piani superiori dovevano essere alleggeriti con l’apertura di una serie di trifore e, al piano più alto, di quadrifore.
Interno: Le dissemetrie icnografiche evidenziate nella articolazione dei muri esterni si ripetono anche nella organizzazione degli spazi interni. La chiesa è suddivisa in tre navate da due file di quattro colonne che ricevono la ricaduta di archi a tutto sesto con il profilo ornato da dentelli.
La mancanza di studi specifici rende molto difficile proporre una datazione precisa che la tipologia dei capitelli e resti di affreschi collocano nel XIV secolo.
I radicali restauri seguiti al sisma del 1971, improntati ad un malinteso purismo medievista, hanno in gran parte cancellato le sovrapposizioni barocche –
Tali avanzi consistono in un ambiente absidato limitato anteriormente da resti emergenti che alcune fonti interpretano come una antica porta urbica cui fu addossato un edificio sacro; gli elementi a disposizione permettono solo di riconoscere i resti di un edificio sacro ornato da resti di affreschi tra cui una Madonna in trono col Bambino –
Nello stesso ambiente, ad un livello superiore, si trovava anche la Madonna col Bambino tra s. Pietro e s. Secondiano conosciuta sotto il titolo di Madonna Liberatrice in seguito al miracolo dello scampato pericolo del 1495; tale affresco staccato, restaurato e ricollocato in situ risponde ad una mano totalmente diversa ai precedenti ma, nonostante l’evidente arcaismo formale, è anch’esso databile ai primi anni del trecento grazie alla analisi delle scritte con i nomi dei santi realizzati in una perfetta onciale gotica che conosce il suo sviluppo proprio sullo scorcio del XIII secolo e nei primi anni del secolo seguente.
La estemporaneità formale della zona presbiteriale è accentuata anche dalla grande cappella sul lato sinistro che si propone quasi come un corpo separato: questo ambiente fu realizzato nella seconda metà del XV secolo per volontà del Comune che intendeva utilizzarla come cappella per conservare le reliquie dei santi martiri protettori conservati nella chiesa di S. Pietro, ormai eccentrica alla cerchia urbana e in un quartiere totalmente disabitato; la cappella fu realizzata ma il trasferimento delle reliquie avvenne solo nel 1612 e a favore della collegiata di S. Lorenzo.
In origine le pareti e le colonne della chiesa erano completamente rivestite di pitture, dopo il succitato terremoto alcuni frammenti superstiti sono ritornati alla luce: una frammentaria immagine di S. Giovanni Battista e dell’Arcangelo Michele sulla seconda colonna di sinistra, databile al pieno Trecento, e i resti di un affresco votivo sulla parete destra dove è ancora perfettamente leggibile l’arme araldica di Angelo da Lavello, detto Il Tartaglia, potestà di Tuscania nella prima metà del Quattrocento.
L’arredo decorativo della chiesa si compone anche di una acquasantiera realizzata con un capitello romanico; una edicola sulla parete sinistra di raffinata fattura antiquariale databile ai primi anni del Cinquecento e, sempre su questa parete, il fastigio di arco, anch’esso nello stile classico antiquariale con decorazioni a candelabre e a motivi floreali così di moda tra il Quattrocento e i primi decenni del Cinquecento, il manufatto funzionale alla apertura di una cappella dedicata a s. Rocco –
Attualmente sul campo definito dal suddetto arcone è collocata una pala d’altare di buona fattura con la Madonna del Rosario e i quindici misteri, in basso compare una lunga iscrizione in cui è possibile leggere la data ANNO D(omi)NI MDLXIX.
Nel transetto oltre ai mediocrissimi affreschi seicenteschi con la Madonna e santi che ornano l’absidiola di sinistra, rimane sulla parete sinistra il grande altare barocco commissionato dalla famiglia Mansanti con la pregevolissima tela con la Trinità, la Vergine, le anime purganti e santi, nel sordino dell’altare è dipinta una scena con la celebrazione eucaristica, tale complesso decorativo è databile ai primi anni del Settecento.
L’arredo decorativo interno è completato dalla bellissima tela seicentesca con il Martirio di s. Lucia, pertinente all’antico altare di S. Lucia collocato sulla parete sinistra; e dal grande polittico posto nella cappella sulla destra del transetto, opera realizzata nel 1580/81 da Giulio Perino d’Amelia; il polittico si presenta attualmente gravemente menomato dall’asportazione furtiva delle tavole principali, si conserva solo la sua monumentale carpenteria lignea (cm. 320×300) e le scenette della predella con storie della Vergine: Incontro di s. Anna e Gioacchino, Nascita della Vergine, Sogno di s. Giuseppe, Sposalizio della Vergine, Nascita di Gesù, Adorazione dei magi e fuga in Egitto, Disputa con i dottori.
Il Duomo
Nella elezione del quartiere di Poggio a luogo dell’aristocrazia tuscanese del sec.XVI, non poteva mancare una chiesa ad esaudirne le istanze religiose. Così la vecchia chiesa San Giacomo, piccola e vecchia, fu negli anni tra il 1566 e il 1572 completamente rifatta per volere del nuovo vescovo Giovan Francesco de Gambara. Nel 1572 ospitò il Capitolo; più tardi, nel 1588 anche il Vescovato fino al 1653 e da allora fu cattedrale. Non sappiamo bene come il nuovo duomo era all’interno, ma sappiamo come era la facciata, unica superstite degli energici restauri dei primi del ‘700 che la vollero ancora più bella e barocca. Nel secolo dei Lumi gli fecero il campanile e la cupola, la stuccarono, la indorarono e la arricchirono di suppellettili. Solo la facciata rimase sobria di un’estetica quasi rinascimentale che, pur annunciando nelle terminazioni e nei portali le curvosità successive, richiama nel chiaroscuro tra lesene, cornici e parete la moda delle forme geometriche toscane.. Il finestrone e i tre portali rimandano ad una annunciata grandiosità interna, realizzata però solo nello sfarzo, oggi velato dal candore bianco dei recenti restauri. Sotto le pesanti navate interne rimangono molti dei tesori della chiesa. A sinistra, oltre l’ingresso alla sacrestia coi dipinti dei vescovi di Tuscania, si trova un pregevole tabernacolo sacramentale in marmo bianco di Isaia da Pisa, della metà del XV secolo; venne portato qui dalla antica abbazia di San Giusto a conservare gli oli santi.
Nella cappella della stessa navata sono conservati dipinti su tavola e tela di diversa provenienza ed età. In particolare un bel polittico, di scuola senese del XIV secolo di Andrea di Bartolo, proveniente dalla chiesa di San Francesco sul quale sono raffigurati: al centro una Madonna con Bambino ai cui piedi è messere Loccio Toscanese (committente dell’opera) a sinistra San Francesco e San Pietro; a destra San Paolo e San Luigi: in alto due busti di San Giuseppe e San Tommaso d’Aquino. Altra pregevole opera è un trittico a due facce di Francesco d’Antonio detto il Balletta, della prima metà del XV secolo, raffigurante il redentore benedicente tra la Madonna e San Giovanni Battista, l’Agnello pasquale nella cuspide e sul retro una Madonna orante tra San Giovanni Battista e Santa Cristina. L’opera ritardataria e di gusto gotico-
La Diocesi di Tuscania è tra le più antiche della Tuscia. A parte la tradizione locale, che fa risalire i primi vescovi tuscanesi ai tempi apostolici, la loro presenza nei sinodi e nei concili è documentata dal VI secolo in poi, quando la prima cattedrale era Santa Maria Maggiore. Per difendersi dalle incursioni saracene, intorno al secolo VIII la sede vescovile fu obbligata a trasferirsi sul vicino colle presso la chiesa di San Pietro, che divenne la nuova cattedrale.
Troppo note sono queste due antichissime chiese per spenderci sopra altre parole; basterà semplicemente averle ricordate. La crisi del XIV secolo produsse i suoi effetti negativi anche a Tuscania e la contrada Civita incominciò a spopolarsi; la cerchia muraria venne ristretta e la cattedrale di san Pietro si trovò isolata dal Centro Storico. Ancora un paio di secoli e anche il vescovo con il capitolo trasferirono la cattedrale entro la nuova cerchia muraria.
Alla fine del Quattrocento spesso fungeva da cattedrale la chiesa di Santa Maria della Rosa, finché il vescovo Card. Gianfrancesco de Gambara (1566-
I lavori si protrassero per qualche anno e il successore, l’arcivescovo Carlo Montigli (1576-
La nuova cattedrale di San Giacomo venne consacrata 32 anni dopo dal vescovo Card. Tiberio Muti (1611-
Nel 1753, a spese del Comune, si aprì una nuova cappella nella navata di sinistra dove era la cappella della Madonna della Sanità; l’amministrazione comunale voleva quella cappella per accogliervi degnamente le ossa dei SS. Martiri protettori della città.
Nel 1783 i lavori della cappella terminarono con la realizzazione delle tre tele del pittore Nicola Bonvicini, rappresentanti l’esilio, il processo e la gloria dei tre SS. Martiri. Ma la cappella fu dedicata al SS Sacramento e le venerate ossa dovettero attendere ancora 200 anni prima di esservi trasportate nel 1983 per iniziativa privata dell’allora parroco don Domenico Zannetti.
La fontana del Duomo

Il 20 maggio 1619 fu dato l’appalto per la costruzione della fontana del Duomo a Mastro Antonio di Michelangelo da Cortona. La prima cosa che fece Mastro Antonio fu quella di cercare nei dintorni di Tuscania una buona cava di pietra; c’era scritto nel contratto di appalto: “provveda di cava di buona pietra altrimenti lavorando cappellaci non si accetteranno”.
Di cave ce n’erano tante; c’era quella della Solfatara, quella della Petrara…, ma dopo accurati sondaggi, prove e controprove Mastro Antonio scelse quella della Petrara.
I vari elementi della fontana erano lavorati sul luogo e poi condotti a Tuscania da Vincenzo Pierini e da Matteo di Paolo.
Non sappiamo chi abbia lavorato e scolpito il piedistallo, le Sirene, i conci, le colonnine; conosciamo però chi lavorò la grande vasca: Pompilio Rosi.
Cavarla e lavorarla in blocco fu certo un lavoro improbo, ma ancora più improbo fu trasportarla a Tuscania. Dalle poche delibere che ci restano in merito dobbiamo dedurre infatti che si trattò di una cosa non certo semplice.
Fu fatto venire da Viterbo un carro mastodontico a quattro ruote di proprietà di Mastro Ascanio della Manichina. Una volta issata con argani e leve sul carro la grossa vasca, questa fu fissata con travi e travette di sostegno per fermare i quali il fabbro Alessandro Mamocci fornì trenta chilogrammi di bulloni.
Quando fu tutto pronto il carro cigolando e crosciando si mosse. Non fu però un viaggio facile: per fare quattro chilometri ci si impiegò tre giorni. Quattro operai armati di zappe e di badili, spianavano la strada perché il carro potesse passarvi senza tante “treggiate”. Durante il tragitto l’assale principale del carro si ruppe e –
Una volta portata la grande vasca sulla Piazza del Duomo, i lavori non andarono per le lunghe, perché il 15 giugno 1622, dopo che due scalpellini romani, Mastro Bartolomeo Vitali e Paolo Fasoli, ebbero verificato la bontà dei lavori, alla presenza del Vice Legato e di tutto il popolo ci fu l’inaugurazione. Dallo zampillo centrale e dai sette zampilli disposti in cerchio l’acqua eruppe festosa e ricadde sulla vaschetta e si rovesciò rumoreggiante nella vasca sottostante formando “candide, mobili, soffici, tremule stalattiti dai riflessi argentei ai raggi del sole” mentre le Sirene da una tromba sorretta dalle braccia ( che oggi non hanno più, poverine!) gettavano in alto quattro zampilli che cadevano nella vaschetta superiore.
CHI FU L’AUTORE DELLA FONTANA?

Escluso il Bramante, al quale come ho detto anche oggi si attribuisce cervelloticamente il disegno della fontana, chi ne fu l’ideatore, il progettista?
E’ strano come nei registri contabili dell’epoca, così esatti, precisi e circostanziati, dove non si trascurava di fare menzione perfino di colore che prestavano i più umili servizi, riscuotendo compensi irrisori (Basti un esempio: A Vincenzo Vasconi per numero sei grappe di ferro per fermare le canne di piombo della fonte di San Giacomo, baiocchi 42) non ci sia, o almeno non venga ufficialmente precisato, il nome di chi aveva progettato la fontana, al quale sarà stato dato per forza un compenso.
Per le caratteristiche stesse di quei registri, essendo inammissibile una tale omissione, dobbiamo arguire che l’ideatore della fontana fu lo stesso Mastro Antonio di Michelangelo, scalpellino, perché spesso a quel tempo l’esecutore materiale di un’opera ne era anche e spesso l’ideatore e il progettista.
L’Organo del Duomo

La tastiera è di 50 tasti con prima ottava corta (scavezza), placcatura in bosso di ebano con frontalini lisci, mentre la pedaliera è disposta a leggio con 17 pedali anch’essa con la prima ottava scavezza e un ulteriore pedale per il comando del rollante.
I registri con comandi a pomello tirante sono collocati alla destra della tastiera con tiratutti a manovella I mantici, due, sono a libro con comando manuale a corde con l’aggiunto di un elettroventilatore elettrico.
Strumento di notevole espressività timbrica e pregevole fattura, è stato costruito nel 1845 da Angelo Morettini di Perugia, come risulta da una iscrizione incisa sullo zoccolo della canna più grande di facciata ed è stato restaurato nel 1981 dalla Famiglia Artigiana Fratelli Ruffatti di Padova. E’ uno dei più “vecchi” Morettini ubicati nella nostra Provincia.
Si ringrazia il M° Mario Nardi che ha fornito le notizie, frutto dei suoi studi.
Il prataccio
Così era chiamata quella zona adiacente le mura urbane dove oggi ci sono l’edificio scolastico, il giardino e Viale Trieste. Fino al 1822 era una zona adibita a pascolo e pressoché deserta, ma proprio nel 1822 divenne oggetto di una lunga ed estenuante trattativa tra i rappresentanti dell’Amministrazione cittadina da una parte a l’Arcipretura della Cattedrale dall’altra per il trasferimento del Campo della Fiera.
L’antica sede della Fiera tra le località Guadocinto, Olivo e Piastrella era ritenuta ormai troppo distante dal paese e gli amministratori del Comune realizzarono proprio nel 1822 un progetto confacente alle esigenze del momento che promuoveva a pieni voti il terreno del Prataccio quale nuova area della manifestazione. Ma, ironia della sorte – oggi come allora-
Il Campo del Prataccio era un Luogo Pio, cioè un bene ecclesiastico gestito in parte dal Capitolo di San Giacomo e in parte dalla Confraternita di San Giovanni Decollato. I canonici della collegiata, con lettera, datata 27 luglio 1822, sconsigliarono vivamente il Comune di procedere nell’affare, perché il valore della tenuta del Prataccio, secondo l’estimo catastale, ammontava a 1558 scudi, una somma troppo elevata rispetto ai 570 scudi provenienti dalla vendita dell’antico Campo della Fiera. La fase di stallo, che puntualmente si venne a creare, durò sino al 4 febbraio del 1823. Il Comune questa volta propose al Capitolo di prendere in affitto il fondo del Prataccio a canone perpetuo. Il Priore della Collegiata in un primo momento replicò al Gonfaloniere l’ennesimo rifiuto ad un accordo, giacché considerava sprecato l’utilizzo del Prataccio per il solo avvenimento della Fiera.
Quando poi le garanzie economiche del Comune divennero allettanti, tutto il Capitolo della Cattedrale approvò l’idea di concedere l’appezzamento del Prataccio in enfiteusi; a questo punto per stipulare il contratto mancava soltanto il Beneplacito Apostolico, che giunse dopo ben quattro anni, l’8 maggio del 1827 e il governatore Giuseppe Sgambella poté finalmente emanare la seguente notificazione: “Essendosi cambiato il locale della pubblica Fiera, che in ogni anno ricorre in questa città nel giorno dieci del corrente maggio, è stabilito fuori delle sue porte superiori della città medesima, nel sito detto il Prataccio, campi contigui del seminario e dell’Arcipretura nonché il pezzetto di terra a limite della strada per Piansano e parte della piazza Sant’Antonio che verrà disegnata con staccionata…”
I canonici credettero di aver fatto un affare con l’affitto perpetuo di quel Luogo Pio, ma 44 anni dopo dovettero fare i conti con gli eventi storici che decretarono l’annessione del Lazio al Regno Sabaudo. La legge delle Guarentigie, emanata dal Parlamento del Regno d’Italia il 13 maggio 1871, concedeva una serie di garanzie alla Chiesa di Roma, riconoscendo la piena libertà di esercizio dei poteri spirituali e stabiliva il passaggio allo Stato di gran parte dei beni ecclesiastici. Nel quadro di questi provvedimenti il Comune divenne proprietario del fondo del Prataccio.
I vantaggi procurati dallo spostamento della Fiera non finirono qui: il bestiame proveniente dai paesi limitrofi, per essere messo in vendita, dal 1827 percorreva un tragitto differente per arrivare alla sede della fiera. Per raggiungere il Prataccio gli armenti transitavano la strada della Cartiera, poi tagliavano la strada di Santa Maria, Via del Comune, via Rivellino, Via Sette Cannelle, Via della Lupa, Via Torre di Lavello e infine Via Roma. Molti tuscanesi, che abitavano queste contrade e che vivevano sull’orlo della povertà, giudicarono il nuovo transito come una benedizione piovuta dal cielo. Il motivo? Quando un agnello sfuggiva alla vista del pastore e si sporgeva, spinto dalla curiosità, nelle porte delle cantine, gran parte delle volte terminava l’imprudente avventura cucinato arrosto.
S. Maria in Villa Margarita
Questa abbazia la troviamo in una carta Amiatina dell’864. “Ego Rainerius habitator in Villa Margarita territorio tuscanense idest una petia de terra…et qui se iacere videtur omnia supradicta terra in valle Lucu sul Rio Arrone prope ipsa Ecclesia Sancti Anastasi; et habet finis omnia supradicta terra da una oparte vero est fossatu et Rio Arrone; da alia vero parte est terra et fontana qui entra intro Arrone et de tertia vero parte est terra Sancti Anastas.” – Actu in Ciovitate Tuscana
La Madonna della Pace
Addossata alle mura urbane, che chiudono a Sud il popoloso quartiere di San Francesco, seminascosta da una fitta boscaglia di sterpi e di rovi, c’è la piccola chiesa della Madonna della Pace. A Tuscania, ogni angolo, ogni via, ogni quartiere ha una sua storia, una sua leggenda, una tradizione ed anche questa chiesetta, oggi pressoché dimenticata, ha la sua storia; una storia vaga, incerta, che sfuma nella leggenda, eppure delicata e non priva del tutto di una certa veridicità.
Nel feroce assedio di Carlo VIII, la parte meridionale della città andò quasi completamente distrutta. Le mura erano sguernite di soldati, perché i dirupi, che in questa parte scendono precipiti sul fiume, costituivano una difesa naturale. La porta di Cavaglione fu chiusa e per rafforzarla fu eretto, nella parte interna un pilastro. Proprio in questo punto –
Questa è la storia: una storia semplice, come tante altre legate a chiese e a santuari di più chiara fama, e che abbiamo narrato, perché la chiesetta in questione è legata ad una bella tradizione tuscanese; una delle tante tradizioni che, sottoposte all’usura del tempo, non più alimentate da una fede semplice e sentita, vanno a mano a mano scomparendo.
La sera dell’11 agosto la chiesetta, chiusa e dimenticata per tutto l’anno, si vestiva a festa. La via si riempiva di festoni, di lampioncini multicolori; la gente veniva a frotte per fare la visita, i ragazzacci sgusciavano via felici, lanciando alle ragazze le tradizionali pecette.
Era una sera, quella, che gli abitanti del quartiere di San Francesco, posto così fuori mano, aspettavano con gioia. E quanta cura usavano nell’addobbare le finestre, le grate, i muri stessi delle case e delle stalle.
Ma, l’abbiamo detto, ogni tradizione è destinata a scomparire, perché ci da l’impressione che costituisca una remora al progresso, una delle tante scorie che dobbiamo gettar via perché abbiamo paura che ci leghi troppo al passato.
E così ogni anno la festa della Madonna della Pace perse. La chiesetta, prima sempre addobbata dalla custode Canaletti con tanta amorosa cura, vide via via scemare i suoi visitatori, finché la festa fu soppressa.
Una parte del muro, che fiancheggiava il viottolo, che conduceva alla chiesetta, crollò; l’altra parte fu giudicata pericolante e le autorità cittadine ne vietarono l’accesso.
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E così non s’è fatto nulla. Ed ora una marmaglia d’ortiche, di felci, di logli, di gramigne, di farinelli, d’avena selvatica e d’altrettante piante di manzoniana memoria coprono tutto il viale e la piazzola antistante alla chiesa.
Miracoli attribuiti alla Madonna della Pace
Miracolo ricevuto dalla signora Castignani Maria risalente agli inizi del 1900, quando la Chiesa della Madonna della Pace era ridotta ad un rudere. La signora Maria viveva nei pressi della Chiesa con tre bambine piccole e colpita da grave cecità, si era rivolta a numerosi specialisti tutti concordi sul fatto che non avrebbe più acquistato la vista. In preda allo sconforto la donna si raccomandò alla Madonna della Pace, pregò e pianse sotto la sacra immagine facendo voto di provvedere alla restaurazione della Chiesa e di celebrare l’11 Agosto di ogni anno una solenne festa in suo onore. Ritornata a casa si accorse che dall’oscurità cominciavano ad emergere sempre più nitide delle ombre, il miglioramento si manifestò palesemente nei giorni seguenti tanto che la donna riacquistò completamente la vista. Memore della promessa fatta si adoperò subito per mantenerla, con mezzi suoi e con donazioni elargite da altri cittadini di Tuscania impressionati dal Miracolo avvenuto.
La Chiesa fu completamente restaurata e l’11 Agosto la Madonna della Pace venne festeggiata con luminarie e addobbi colorati e con la partecipazione di tutto il popolo tuscanese che vi accorreva in massa. Alla morte della Signora Castignai fu la figlia Santina Pietrangeli a far si che la festa dell’11 Agosto non venisse dimenticata e diventasse una tradizione per la cittadina. La famiglia Castignani –
La Madonna della Pace aveva aiutato ancora questa famiglia che Le fu eternemente grata. Gli abitanti di Tuscania furono molto devoti alla Madonna della Pace, è Lei che ringraziavano per aver fatto ritornare dalla guerra i loro cari sani e salvi offrendoLe tutto ciò che avevano di più preziosa, tra cui gli ex voto che numerosi si potevano ammirare all’interno della chiesa fino agli sconvolgimenti del terremoto del 1971.
L’Eremo di S.Pantaleo
Eremo di San Pantaleo – Di questo eremo abbiamo notizia nel 1097 in una pergamena che si trova nell’Archivio della Cattedrale di Tuscania. Niger filius q. Pagani de cardillo, qui sum habitator sambitone et ego Caromanna comniunx aiusdem Nigri, atque Mandualda…offerimus infrascriptae Ecclesiae et eremo beati Pantaleonis ubi domus Petrus est Prior intyegram unam petiam de terra quae est iuxta nostra et nos habemus iuxta viam quae ducit Tuscanam etc… Actum Tuscanae
La Via Clodia
La via Clodia (a sx il tracciato in violetto) è una strada consolare romana il cui percorso è inframezzato tra la via Aurelia, che costeggia il mare Tirreno fino a Pisa, e la via Cassia, il cui tracciato si sviluppa più internamente, sempre in direzione nord –
Quello che sappiamo del tracciato della via Clodia lo dobbiamo, oltre che dai resti dell’antico basolato che ancora riaffiorano sul terreno e dalle vie cave etrusche che la caratterizzano, dalla cosiddetta tavola Peutingeriana. Questa tavola è una copia del XIII secolo di una rappresentazione cartografica di epoca romana che riproduceva tutte le vie di comunicazione dell’impero, oltre duecentomila chilometri di strade, con l’indicazione dei centri principali (mansiones) e delle distanze. La realizzazione romana della strada va fatta risalire all III secolo a.C., a seguito della conquista del territorio ai danni degli Etruschi. Tra il 273 e il 225 a.C. ci furono tre magistrati di nome Claudius Canina, Claudius Russus e Claudius Centho, e uno di questi potrebbe essere quello che ha dato nome alla strada.
Le mansiones indicate dalla tavola Peutingeriana lungo la Clodia, a partire dal distacco dalla Cassia, erano: Careias (l’attuale Galeria), ad Nonas (presso Vigna di Valle), Forum Clodii (presso Bracciano), Olera (Blera), Marta (sul lago di Bolsena), Tuscana (Tuscania), Maternum (forse Canino o Ischia di Castro), Saturnia. Dopo Saturnia la strada si dirigeva probabilmente verso il mare, per confluire nell’Aurelia nella zona di Cosa (Ansedonia), ma occorre precisare che dopo Tuscania il percorso originario è praticamente sconosciuto.
(a sx la via Clodia a Tuscania) Il primo tratto della strada, che ricalca piuttosto fedelmente quello attuale della Braccianese –
Da Blera inizia il percorso più interessante e più carico di storia, soprattutto etrusca, della via Clodia. In pratica si attraversano quasi tutte le necropoli rupestri dell’Etruria, da Barbarano a Blera e Norchia, Da Grotta Porcina a Tuscania e (probabilmente) a Castro. Evidentemente non è un caso che la consolare romana attraversasse dei centri etruschi accomunati da una tale uniformità culturale che ha creato un unicum nella tipologia sepolcrale che trova confronti solo con le grandi necropoli rupestri dell’Asia Minore.
La Clodia,passava a circa due chilometri ad Ovest di Barbarano Romano, a poca distanza dall’insediamento antico di S. Giuliano e dalle sue estese necropoli rupestri. L’area archeologica di S. Giuliano è ricchissima anche di viabilità antiche secondarie profondamente incassate nella roccia tufacea quali la Cava delle Cerquete, la Cava di Sarignano, la Cava del Castelluzzo, la cava del Pisciarello e la scalinata di Greppo Castello. Queste vie, scavate nella roccia, sono state utilizzate nel corso dei secoli, anche dopo il periodo romano.
La via Clodia poi proseguiva verso il territorio di Blera con singolari emergenze quali il ponte del diavolo sul Biedano a tre arcate ed il ponte della Rocca sul Ricanale ad un arco, attraversato il quale si viene introdotti all’area archeologica di Pian del Vescovo. La Clodia successivamente, dopo aver attraversato il sito archeologico di Grotta Porcina (nel territorio del comune di Vetralla), proseguiva verso Norchia (Viterbo), uno dei centri etruschi più ricchi di tombe rupestri di età ellenistica. Qui, in corrispondenza quindi dell’attraversamento del Biedano, la strada presenta una delle tagliate più spettacolari del suo percorso: la Cava Buia, lunga circa 400 metri, con
pareti alte fino a circa 10 metri, e un’iscrizione romana che ne ricorda il restauro con il nome di C. Clodius Thalpius, a cui forse si deve il merito della ristrutturazione dell’opera.
Dopo Norchia la Clodia arriva a Tuscania, dove in epoca recente è stato scoperto un tratto di basolato che ne testimonia il passaggio sicuro. Come si è detto da Tuscania in poi il percorso è piuttosto incerto. Sono sicure solo le mansiones indicate nella tavola Peutingeriana, ovvero Marta, Maternum di cui esistono solo ipotesi (Ischia e Canino e forse Piansano) e Saturnia. La grande tagliata di Castro resta anch’essa un’ipotesi credibile del passaggio della strada consolare.
Il Cerro
(Santuario della Madonna del Cerro)
Era un’immagine della Madonna, come tante altre, un’edicola povera e disadorna, che riceveva il breve saluto dai rari viandanti intenti a percorrere la strada polverosa che da Tuscania conduce ad Arlena, Tessennano e Canino. Dal momento che l’edicola si trovava a metà percorso tra Arlena e Tuscania, erano soprattutto gli abitanti delle due cittadine a conoscerne l’esistenza, particolarmente i boscaioli ed i proprietari di bestiame che pascolava nella macchia Riserva; i documenti ufficiali, invece, ignoravano quell’edicola, almeno fino alla seconda metà del Seicento.
La storia prende l’avvio dalle vicende personali di una coppia di sposi, Cesare e Caterina, due umili tuscanesi, dei quali i registri parrocchiali non ci tramandano il cognome. Forse non l’avevano, come molte famiglie povere del Seicento; e così lui era semplicemente Cesare, figlio di Cesare, soprannominato Caterino; per quei tempi, ai fini di una ipotetica identificazione era più che sufficiente.
Francesca era malata, forse di epilessia: erano in molti a ritenere che fosse posseduta dal demonio. Aggravandosi la malattia, il povero Cesare si rivolse al Signore e pensò di portare la moglie a Tessennano, davanti all’immagine miracolosa di San Liberato per implorare la grazia della guarigione. Un mattino imprecisato dell’anno 1673, Cesare e Francesca partirono alla volta di Tessennano. Percorsi quattro chilometri, giunsero davanti all’edicola della Madonna seminascosta tra il verde dei cerri. A quel punto Francesca si bloccò e non ci fu più verso di spingerla oltre. Il marito fece di tutto per farla camminare, ma Francesca lo redarguì dicendo: “Non vedi che quell’immagine non vuole che io passi più avanti?”
Quindi Francesca cominciò ad agitarsi con strepito grandissimo tanto che Cesare fu costretto a tornare indietro. Per tutta la notte Francesca si agitò, scongiurando il marito di non condurla più presso quell’immagine della Madonna. Le insistenze ripetute della donna furono ritenute da Cesare come ispirazioni del demonio e, da buon cristiano qual era, maggiormente si infervorò a credere che Francesca con l’aiuto della beatissima Vergine potesse rimanere liberata. Per molti giorni Cesare costrinse la moglie, usando anche le maniere forti, a recarsi ai piedi di quella immagine, superando tutti gli ostacoli che il demonio interponeva con violenza e repugnanza non ordinaria.
Visto però che da solo non riusciva ad approdare a nulla il brav’uomo pensò bene di chiedere aiuto ai sacerdoti di Tuscania. Il primicerio don Carlo Carli, l’arciprete don Giuseppe Eutizi, don Attilio Pescetti, don Paolo Ciotti, don Santuccio Fioravanti e altri accompagnarono i due sposi davanti all’edicola della Madonna. Finalmente la fede prevalse e Francesca per intercessione della gloriosa Regina dei Cieli restò libera dai maligni spiriti che la invadevano. La parola miracolo rimbalzò di bocca in bocca e da Tuscania si diffuse rapidamente nei centri limitrofi così che accorsero i popoli in tanto numero a venerare quella sacra immagine da più parti. Il problema logistico si rivelò subito impellente. Molti pellegrini trascorrevano almeno una notte presso l’edicola, per cui fu necessario fabbricare ricoveri di legno, ove Iddio a preghiere della sua Gran Madre in questo luogo invocata dispensava con larga mano le sue grazie divine, liberando dal demonio i corpi ossessi, raddrizzando struppi e risanando quelli che da diverse infermità corporali venivano travagliati.
Alle grazie compiute dalla Madonna facevano seguito numerosi ex voto ed offerte in denaro che in poco tempo bastarono a finanziare la costruzione della chiesa e ad ornare l’altar maggiore ove resta detta sacra immagine di varie figure e lavori d’intaglio dorato, con sagrestia arricchita di sagre suppellettili a sufficienza, ma anche per la fabbrica di un ospizio unito alla chiesa e di una non piccola abitazione poco lungi da essa con le sue officine assai comode, anche per ospitare i pellegrini. La festività della Madonna del Cerro venne fissata all’ultima domenica di aprile, per ricordare il primo miracolo avvenuto il sabato che precede quella domenica. Dato che le offerte dei fedeli erano in continuo aumento si sentì la necessità di nominare un responsabile ed il vescovo Stefano Brancaccio nominò come custode del nuovo santuario proprio Francesca, la prima miracolata che seppe rivelarsi all’altezza del delicato compito anche con l’apporto del marito Cesare.
Nell’espletamento delle sue mansioni Francesca offrì al Comune di Tuscania il prestito di 1000 scudi, dietro il pagamento di un modico interesse. Inizialmente gli amministratori non presero sul serio l’offerta, ma, occorrendo denaro, nella seduta consiliare del 28 marzo 1678 il Gonfaloniere Gianfrancesco Giannotti portò la proposta all’attenzione dei consiglieri comunali che la deliberarono senza problemi. L’anno successivo, il 24 febbraio 1679, morì Cesare presso la casetta del Cerro e venne sepolto a Tuscania nella chiesa di San Francesco. La moglie affrontò serenamente la perdita e continuò la sua opera instancabile per altri due anni. Ottenne dalla Madonna la grazia di morire nella casetta contigua alla chiesa del Cerro: era sabato, 26 aprile 1681. L’indomani, ultima domenica di aprile, sarebbe giunta una folla numerosa per la festa della Madonna del Cerro per partecipare alle esequie di Francesca.
Il suo corpo fu tumulato accanto a quello di Cesare, in San Francesco. Nell’atto di morte il sacerdote ha annotato la sua lunga opera svolta presso il santuario. L’accorrere di numerosi pellegrini promosse l’istituzione, da parte del Comune, di una fiera di merci e bestiame. La processione religiosa si snodava dalla cattedrale di San Giacomo fino al Cerro, dove il primicerio del capitolo celebrava la santa messa cantata; quindi tutta la gente intervenuta usciva all’aria aperta e si adagiava sull’erba per mangiare le provviste che ciascuno s’era portato.
Il vescovo Brancaccio, ancora era in vita Francesca, dovette nominare un cappellano permanente per soddisfare i bisogni spirituali dei numerosissimi pellegrini. Dopo la scomparsa di Francesca il Brancaccio (divenuto Cardinale) dovette provvedere alla custodia del santuario ed invitò a risiedervi alcuni oblati ed un sacerdote cappellano, con una prebenda di 60 scudi annui per l’espletamento dei divini uffici. I Fratelli Oblati chiesero al Comune la concessione di un poco di macchia per potervi far vigna et horto per servitio loro, ma come anche di poter falciare qualche laguna in detta bandita della Riserva per servitio di una bestiola della chiesa. Tale petizione venne inserita nell’ordine del giorno della seduta consiliare del 31 maggio 1682. Il Gonfaloniere Piergiovanni Pocci ed i consiglieri Marco Pocci, Pietro Gioia e Pierpaolo Giannotti la fecero approvare concedendo agli Oblati tre rubbia di macchia in una zona che non ostacolasse il libero pascolo del bestiame brado, tenendo conto anche dell’abbeveratoio posto in fondo alla valle del fosso Caliano.
Il santuario prosperava, ma nei primi anni del Settecento si resero necessari alcuni restauri alla chiesa; li finanziò nel 1703 il canonico Bartolomeo Bonsignori, nobile toscanese, noto anche per altre opere di beneficenza.
Non conosciamo i tipi di interventi finanziati dal canonico Bonsignori ma leggiamo la descrizione della facciata della chiesa e della piazza antistante in un documento del 1748. La facciata terminava in alto a timpano triangolare con una grande croce di ferro; ai due lati si corrispondevano due colonne arricciate ed incollate; la piazza quadrilatera, delimitata da un muretto a secco era selciata per un tratto davanti all’ingresso. All’esterno vi era inoltre il campanile. Per quanto riguarda l’interno sappiamo solo che vi erano anche due altari laterali, uno dedicato al SS. Crocifisso, l’altro a san Nicola.
Un lungo e ricco inventario di arredi sacri del 1741 ci fa dedurre quanto dovesse essere attiva la vita del Santuario e quanto numerose fossero le sacre funzioni che quotidianamente si celebravano. Il Vescovo cardinale Andrea Santacroce nominava nell’estate del 1704 un secondo cappellano, oltre a quello permanente, per celebrare la santa messa nei giorni festivi, il sabato e in tutte le festività della Madonna. Per tale servizio suppletivo gli venne assegnata una prebenda costituita da un legato istituito dal canonico don Scipioni Buffi, defunto da pochi anni.












