Tuscania (da "Benedetti Italiani" di Curzio Malaparte) - Toscanella - Il blog dei tuscanesi

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Tuscania (da "Benedetti Italiani" di Curzio Malaparte)

Luoghi di Tuscania

TUSCANIA (da "Benedetti Italiani" di Curzio Malaparte)

Tuscania è fuori di mano, e ancora nessuno, che non sia di quelle parti, conosce la bellissima strada che fra prati e boschi porta da Vetralla etrusca e papale alla etrusca e papale Tuscania.

Non molti anni or sono questa maremma era veramente maremma. Ricordo d’esserci venuto in autunno con Alberto Moravia, pochi anni prima della guerra, in una giornata fredda e ventosa: e l’aspetto dei luoghi, da Marta a Canino a Tuscania e di lì a Tarquinia era squallido e triste, simile ad una alto pascolo dell’Asia presso l’Amur Daria o alle alte praterie del Goggiam, in Etiopia. La luce stessa era povera e magra. Non che fosse debole, anzi fortemente dava risalto ad ogni oggetto, a ogni sasso, a ogni incrinatura del sasso, a ogni incidente della campagna intorno, valli, dirupi strette gole, precipizi e le svolte erranti del Marta fra i canneti febbrosi.

Ma era una luce verdognola, senza nessun calore di vita, lievissima e fredda, che si posava sulle pietre sugli alberi, sulle torri con la levità della luce di Giotto. Lo sguardo si perdeva lontano verso il mare e a monte verso glia azzurri monti oltre il lago di Bolsena, l’Amiata, il monte di Radicofani. Non era ancora il tramonto, ma già il sonno usciva dalla terra.

Lo stesso Moravia, che per queste cose non è vanto e non ha la sensibilità che per i fatti e le cose reali e non per nulla è romano, era inquieto e taceva. Eravamo nella piazzetta o corte, che è davanti al tempio di San Pietro e la luce del giorno in agonia, battendo contro la facciata della chiesa, ricadeva su noi illuminandoci in uno stranissimo modo. Non so perché, ma entrammo nel tempio. Io credo che avessimo paura di entrare, per quel soffio di morte o di sonno o di Dio sa che, che usciva dalla terra.

Ci rimettemmo in cammino verso Tarquinia e a un certo punto ci fermammo su un'altura, dalla quale lo sguardo abbracciava per immenso raggio intorno l'alta maremma di Tuscania, di Canino, d’Ischia di Castro. Correvano sulla terra lunghe ombre, le prime ombre della sera, correvano da occidente a oriente, simili a onde marine. E parevano uscir dalla terra, dalle tombe etrusche scavate nelle pareti di tufo a picco sul Marta, dalle valli strette e profonde, dalle vuote torri che si alzano qua e là, dirupate, sul verde dei pascoli. Eravamo nel cuore del paese etrusco, dell'antico paese toscano.

Qui non è la toscana di Siena, di Firenze, di Pisa, di Arezzo, ma la Toscana vera, l’antica, quella dei padri etruschi. La Toscana delle tombe, quella che sopravvive nelle tombe. Nulla in questo antico paese, che fu padre e padrone di Roma, nulla della gentilezza, della grazia, della chiara e magra eleganza dei toscani. Nulla delle maniere manierate dei Toscani. Nulla della loro crudeltà inutile, della loro cattiveria senza scopo. Nulla di quella vanità, che spinge gli uomini tutti, e anche i toscani, a costruire palazzi e chiese, e monumenti, a dipingere muri che tutti possono vedere, ad architettare facciate di chiese e di palazzi che son come visi umani, aperti, intelligenti, dove il gioco dei marmi, ora bianchi ora neri, ora bianchi ora di quel verde di prato che pare rubato a certa erba, al fogliame dell’alloro, ora di quel grigio azzurro della pietra serena, che par rifletta il cielo di seta pallida di Firenze e di Siena, imita i giochi d’ombre e di luci del viso umano. Nulla insomma di quella Toscana leggiadra e crudele che si è spesso tentati di credere uno specchio della vita e delle cose terrene.

Qui tutto è sotterraneo, qui la vita si è rifugiata nelle tombe. Le sole città rimaste da quegli antichissimi tempi sono le necropoli. Le sole città etrusche costruite di pietra, son le necropoli, le città eterne. Tutto quel che appariva sulla faccia della terra, che si muoveva sotto il sole, era caduco nel concetto degli etruschi; i quali amavano la vita sotterranea, adoravano gli dei degli inferi, la vita dei morti. Gli uomini stessi di questi paesi non han nulla del toscano moderno, di Firenze o di Siena, nulla dell’Italiano: sono toscani antichi, hanno il viso etrusco, la fronte, gli occhi, la bocca, la difficile piega del naso, la crudele sottigliezza delle labbra, la linea dura della fronte, il cupo sguardo. Sono di media statura, e tozzi, di spalle larghe, di polsi grossi, di piedi grandi. E taciturni, sospettosi, pieni d’ombra. Le donne son fatte della stessa materia degli uomini, ne hanno la misura e l’aspetto, ma son forse più lente nel camminare, meno sospettose, direi. E’ attraverso di loro che l’uomo vivo comunica col mondo dei morti, Per la loro fessura l’uomo entra come in una crepa del monte.

Dall’interno del loro grembo, come dall’interno di una grotta, l’uomo vede i mondi ignoti, gli incontri dei morti, ode e ascolta le loro parole. Nudi, quali vidi un giorno sulle rive del Marta, presso Tarquinia, al riparo di un verde e folto canneto, nudi, questi uomini e queste donne hanno il torace, le spalle, le braccia, i fianchi e i lunghi muscoli delle cosce, i muscoli delle gambe disegnati come quelli dei vasi etruschi. E tutti hanno quel sorriso strano, quella specie di ghigno crudele che ha l’Apollo di Veio, l’Apollo etrusco.

Son tornato oggi a Tuscania. E’ primavera, il primo giorno di caldo. Ma la terra è umida e fresca, il cielo è sparso di nuvole bianchissime, l’ombra delle nuvole corre sui prati nel vento che soffia dal lago di Bolsena. Entro nella piazzetta che è davanti a San Pietro, tagliata dalle ombre massicce, dense, quasi nere sul verde dell’erba chiaro, delle grandi torri che fan da guardia alla chiesa.

Ritrovo nella facciata i draghi con la bocca spalancata in corsa dietro ad agnelli spauriti, e il bue, il cavallo, il leone ,l’aquila, e l’uomo col serpente. E’ un uomo d’aspetto regale, dalla barba fiorita, incoronato d’oro, che ha un serpente immane avvolto intorno al braccio. La testa del Dio è di tre profili. E’ un antico etrusco, l’immagine di un Dio scolpita in un prezioso marmo bianco, opera egregia di qualche antico etrusco, murata nella facciata del tempio.

A sinistra v’è un altro bassorilievo etrusco. L’uomo che danza. "L’uomo" - dice la guardiana della chiesa, una vecchia che sorride benevolmente e sospettosa insieme. Se fosse stata un’opera cristiana, avrebbe detto "l’angelo". Ma non è un angelo che danza, né un uomo, forse; ma un genio, un genio della morte, forse una Lasa, come gli etruschi chiamavano i geni della morte. Danza in maniera un po’ scomposta, col braccio destro sollevato un po’ al di sopra della spalla. E’ lì murato nella facciata, non forse per solo ornamento, ma per contrasto con le figurazioni dei quattro evangelisti e con i draghi che a bocca spalancata inseguono per la facciata spauriti agnelli.

Ha lo stesso ufficio di contrasto che ha il Re dal serpente, nella parte destra della facciata. "Quelli sono i pagani" - dice la vecchia guardiana. E’ una testimonianza quella degli etruschi di cui non si può fare a meno in questa alta terra etrusca. Accanto a Gesù, alla Madonna e agli evangelisti, ai santi c’è sempre qualche figura etrusca. Nell’interno della chiesa di Santa Maria, a Tuscania, il leggio del pulpito, di stile romanico, con visibili già influenze bizantine, è fatto di un coperchio di sarcofago etrusco, spezzato per il lungo. Forse, anzi certamente, quelle due croci romaniche, nel bassorilievo che fa da balaustra fra il pulpito e l’altare, sono scolpite in due lastre di marmo bianco, dov’era un bassorilievo etrusco.

Le due croci sono storte, per vincere la difficoltà del precedente bassorilievo. Anche le colonne dell’alatre, e quelle della cripta sono certamente etrusche o tratte da colonne etrusche: lo scalpello romanico si affaticava visibilmente a trasformare un capitello etrusco in un capitello romanico, bizantino. Soltanto a Ravenna è dato di trovare chiese altrettanto antiche, forse tra le più antiche d’Italia. E nessuna chiesa in Italia, in Europa ha fondamenti più antiche di questa di Tuscania, che poggiano su mura etrusche, su sepolcreti etruschi di mille anni più antichi di Roma. E così è dalle chiesa di Santa Maria, e delle mura di Tuscania e delle case della città e delle stalle. Mi allontano dalla chiesa, spingo un bellissimo cancello di ferro alto forse quattro metri che immette in un orto.

Il verde grigio dei carciofi, dai riflessi di acciaio polveroso, fa una macchia chiara nel verde della campagna intorno, degli alti muri di nenfro, il tufo degli etruschi. Un'enorme alta massiccia torre di nenfro si alza in fondo all'orto e appoggiata alla base della torre c'è una stalla dove una mucca allatta il suo piccolo. Dal margine dell'orto, che occupa tutto il sommo del colle, si scopre all'occhio tutto il meraviglioso paese che dal Cimino ai monti della Tolfa va fino all'Argentario. E' un classico paesaggio italiano, di quelli inventati dal Poussin e da Claudio Lorenese, sfumanti in toni azzurri, bianchi, verdi e neri, Un paesaggio immenso nel quale la valle del Marta scava una profonda ferita dove il nenfro giallo e rossastro è come carne viva. Di là dal Marta si stendono grandi boschi di lecci e di sugheri, verdi e rossi nella luce stanca del tramonto, Immensi campi di papaveri, di un vermiglio lucente, accendono l’alta pianura verde e gialla verso l’orizzonte laggiù dove si sollevano dolcemnete di una felice trasparenza azzurra i Monti della Tolfa si tinge di un soavissimo color viola che a poco poco finisce in un sottile labbro nero dove i monti azzurri e dove il cielo pallidissimo si alzano e fuggono a morire nel color perso della sera che scende….

…Dura gente questa della maremma di Tuscania, dura gente e io non la chiamerei né latina né etrusca, ma romanica che, secondo me, è il punto di fusione delle due razze antiche. Son gente dura e feroce e chiusa e sospettosa di tutto ciò che non è del loro borgo o popolo o strada o famiglia o clientela o parrocchia. Sono uomini di una testa massiccia quasi di pietra nella quale tutto abita fuorché l’intelligenza: ma virtù. Sono uomini virtuosi, come intendo io, sulla scorta degli antichi, la virtù cioè il coraggio, la sobrietà, la frugalità, la fedeltà e la nessuna paura della morte.

Soffrono quando son feriti senza lamentarsi poiché si vergognerebbero se dalle loro labbra uscisse anche un involontario lamento. Hanno la fonte piena di virtù e il cuore pieno di ferocia, poiché ammazzano con estrema facilità senza pensarci su tanto e per ragioni spesso futili, uomo o animale che sia. La loro arma è la doppietta caricata con la cartuccia a pallettoni per i cinghiali o il coltello che hanno, corto e largo, simile alla daga antica e portano infilato nella cinghia dei calzoni e serve loro per tagliar rami e tralci o per scuoiare gli agnelli.

Non tradiscono chi si affida alla loro lealtà. L’uomo fuggiasco o per delitti o per ragioni di guerra accolgono, nascondono e se necessario difendono contro la legge con la doppietta in pugno. Come vidi durante la guerra a poca distanza da Ischia dove un contadino di una sessantina d’anni già vecchio d’aspetto canuto e il volto pieno di rughe, difese a fucilate due feriti tedeschi che avevano cercato rifugio nella sua stalla contro un drappello di soldati inglesi che volevano portaglieli via.

E mi toccò sudare per convincerlo che non li avrebbero ammazzati, ma curati. Né alcuna vendetta fu fatta dagli inglesi contro di lui perché aveva agito con lealtà e coraggio e a lui non importava che fossero tedeschi, ma che fossero uomini e feriti e in casa sua.


 
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