La vendemmia - Toscanella - Il blog dei tuscanesi

Vai ai contenuti

Menu principale:

La vendemmia

Modi di vivere, tradizioni

LA VENDEMMIA

Ottobre, nelle nostre zone, è il mese della raccolta dell’uva, quindi della vendemmia. Un tempo esistevano molte vigne. I filari erano costituiti da canne legate con la ginestra essiccata al sole; con forcine di legno si provvedeva sostenere i tralci per paura che cadessero per il peso dei grappoli. Nel corso dell’anno si svolgevano i lavori necessari per ottenere una buona raccolta; a febbraio si procedeva alla potatura, che si preferiva ritardare cosicché i germogli avrebbero resistito meglio alla brina di marzo.

Questa operazione veniva eseguita in base al metodo del capo e del capetto, che, oltre che a migliorare la qualità del frutto e la produttività del tralcio, serviva per togliere il cosiddetto buffone, ossia una gemma che squalificava la vite portandola verso terra.
Successivamente avveniva la vangatura, lavoro molto faticoso che veniva eseguito con una vanga il cui manico doveva arrivare la mento del vangatore. Alcuni anziani raccontano che chi finiva per primo batteva sulla vanga per provocare la stizza degli altri contadini impegnati nella stessa attività.

Prima che la vite germogliasse si provvedeva alla sostituzione delle canne e della ginestra; in seguito ad alcune gemme venivano tolti i bruchi (sdirugatura) con una piccola canna affilata, mentre altri germogli, ritenuti superflui, (cacchi) venivano eliminati, puliti e mangiati: questa operazione si chiamava la scacchiatura. La fase successiva era la rinfrescatura, una nuova vangatura, dopo la quale si irrorava la vigna
con l’acqua ramata (calce e solfato di rame) in modo da prevenire la peronospora.. Quando il periodo della raccolta era ormai vicino venivano controllate le botti per verificarne il buono stato; dopo aver versato al loro interno acqua calda e sale (la stufa) si agitavano avanti e indietro con colpi cadenzati per lavarle; infine vi si calava uno zolfanello acceso per controllarne il grado di acidità.

Finalmente si poteva procedere alla raccolta dell’uva, che veniva sistemata nei bigonzi (bigonci). Questi avevano nelle doghe marchi impressi a fuoco per distinguerne la proprietà. L’una poi era gettata nella pistarola, grosso recipiente di legno quadrato con dei buchi sul fondo, che veniva collocata sopra il tino, ad essa si accedeva attraverso una scala di legno larga su cui veniva portato il bigonzo da due persone, aiutate dal boia. Quindi con i piedi, che precedentemente erano stati ben lavati, si procedeva alla pistatura.

La vinaccia poi veniva pressata nel torchio e il vino così ottenuto, che cadeva su una paiolo di rame nel quale veniva gettata una chiave di ferro, o si univa al vino buono o si metteva a parte per farci l’ammezzato. Il mosto, invece, veniva conservato nelle botti, dove fermentava per essere poi sfecciato a san Martino, quando si assaggiava accompagnando le bevute con baccalà arrosto. Dopo la sfecciatura, in un giorno di forte tramontana, il vino veniva portato in cantina dove veniva conservato.

 
Torna ai contenuti | Torna al menu