● - GIOVANNI BATTISTA VOLPONI DETTO LO SCALABRINO DA PISTOIA E I FRANCESCANI NELLA CHIESA DI SANTA MARIA DEL RIPOSO A TOSCANELLA. di Mauro Loreti - Succede a Tuscania - Toscanella

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● - GIOVANNI BATTISTA VOLPONI DETTO LO SCALABRINO DA PISTOIA E I FRANCESCANI NELLA CHIESA DI SANTA MARIA DEL RIPOSO A TOSCANELLA. di Mauro Loreti

Pubblicato da in Mauro Loreti ·

Arrivarono,  nel  1515,  nel convento di Santa Maria del Riposo a Toscanella i Francescani Minori dell’Osservanza.  Nel 1517 il Maestro Pellegrino Munari da Modena nel bellissimo polittico  dipinse San Francesco d’Assisi scalzo con il saio grigio cenerino,colore  proprio della lana grezza, non tinta, alla maniera più semplice e più povera, il cingolo , la croce rossa in segno di penitenza , il libro rosso, la ferita nel costato e le stimmate nei piedi e nelle mani. Inoltre nel 1522 fu completato il portale in nenfro , pietra di origine vulcanica  caratteristica di Tuscania,  dell’entrata con lo stemma della Comunità di Toscanella .  


 
La lunetta semicircolare nel portale della facciata della chiesa è in ceramica  . vi si ammira la  Madonna col bambino Gesù  fra i santi Francesco d’Assisi ed Antonio di Padova; questa dovrebbe essere un’ opera dello scultore Giovanni di Benedetto da Maiano di Fiesole vicino Firenze. Nel sottarco  vi è la testa del Cristo in bassorilievo e la scritta : “ IN ME OMNIS GRATIA – TRANSITE AD ME OMNES – 1522” In me è ogni grazia, passate tutti da me.


 
Poi   nel 1537 fu chiamato l’artista Giovanni  Battista Volponi detto lo Scalabrino che lavorò alacremente dipingendo alcune tele in questa chiesa. Scrisse il vicario Giuseppe Di Lorenzo: ”Sono negli altari laterali della chiesa di Santa Maria del Riposo tre quadri in tavola di figura semicircolare dipinti da Scalabrino da Pistoia. In quello che si vede nel primo altare della destra nave, alto metri due e centimetri sessantacinque per metro uno e settanta, è dipinta la deposizione di croce di nostro Signore. Alta si leva la croce: a destra e a sinistra sono ad essa poggiate due scale. Nella sommità della sinistra è Giuseppe d’Arimatea che, schiodati i piedi e la mano sinistra di Gesù ,fatto punto col petto sul braccio della croce, sostiene a viva forza il cadavere pendente di Cristo , mentre un altro pietoso, salito a metà della scala, ne sorregge le gambe con ambo le mani .


 
Dall’altra parte Nicodemo schioda la mano di Gesù e, a metà della scala, è presto Giovanni ad accogliere il corpo del diletto maestro e già ne stringe il sinistro braccio ed il petto. Ma bello oltre ogni dire è il gruppo a piè della croce ove è espresso lo svenimento di Maria, che è pietosissimo, e il compianto delle Marie verso di Lei, perché si vedono sì compassionevoli e piene di tanto dolore, nel loro aspetto, quanto può appena immaginarsi  nel rimirare morto Gesù, la più cara cosa che esse si avevano e nel timore di perdere ancora la direttissima madre. Per forza di smisurato dolore svenuta , la Vergine è rimasta seduta sul suolo, perduta delle membra, pallida del pallore della morte, giace come corpo morto giace: presso le di lei vesti sono due chiodi, forse caduti ad essa dalle mani al venir meno delle forze.


 
Una Maria dietro ad essa fa schermo ed appoggio alle spalle e, dinanzi ginocchione sparsa la chiome , piangendo la Maddalena le sostiene dolcemente la fronte; presso ad essa un’altra Maria, colle mani giunte, sfoga il suo dolore col pianto. In questa pittura l’autore fa mostra di grandissima intelligenza e perizia di arte, perché si vede in essa imitato assai maestrevolmente dalla natura l’atteggiamento ad acerbissime pene, un accurato studio di contorni, verità negli scorci. E un colorito pastoso così proprio e vero che nulla lascia a desiderare.  Dà meraviglioso risalto alle figure , che sembrano a rilievo, il fondo del quadro ove è dipinta una estesa campagna. E in lontananza vedonsi alberi ,cespugli, erti clivi di montagne, e nella sottoposta valle, Gerusalemme dalle quadrate mura, difesa da torri baluardi e fortilizi. A piè della tavola è scritto “Scalabrinus Pistoriensi p(inxit)”.


 
Nella tavola dell’altare a destra di chi entra la chiesa, alta metri due e centimetri ottanta per metri due, è dipinta dallo stesso Scalabrino la natività di nostro Signore. Si apre la scena in un antico castello abbandonato e quasi diruto, perché vi si vedono mura aperte e minaccianti ruina: sopra il cornicione del muro, in prospetto sorretto da tre archi, un de’ quali è aperto, sono quattro angeli di belle movenze e attitudini, due di essi hanno in mano una lunga fascia bianca in cui è scritto “Gloria in excelsis Deo”, gli altri due ai loro lati sostengono un drappo a guisa di padiglione. A destra del quadro, S. Giuseppe, genuflesso, rimira con tenerezza di amore il bambino: dietro a lui è un angelo, colle mani giunte dinanzi al petto, in atto di umile adorazione. Un altro angelo ed in mezzo al quadro, ginocchioni, colla gioia in volto, quasi in prova della verità del suo annunzio, mostra il bambino a due pastori caduti genuflessi, rapiti di stupore nel rimirare la divina bellezza. Giace il bambino su povera cuna e , alzata la destra manina, guarda dolce ridente la sua divina madre che, genuflessa colle mani piegate, assorta in amorosi pensieri, contempla e adora il diletto suo figlio. Sono a sinistra due pastori: uno di essi tiene stretto al collo, sopra le spalle, colle mani un agnello, l’altro porta nella destra un paniere onde offrire doni.


 
Anche in questa pittura il nostro autore ha spiegato la sua maestria nei vari affetti sì bene espressi, nell’aria dei volti, nella vaghezza delle tinte e, con grande accorgimento per l’effetto del suo concetto ha tratto gran partito dal colore scuro dei muri, alleggerito e rotto dalla veduta della campagna di Betlemme e di un cielo azzurrino , sicché le figure, con meraviglioso rilievo, si vedono in tutta la loro bellezza. E’ poi da aversi in grandissimo pregio la tavola di contro a quella della natività, e della medesima grandezza, dove è dipinta l’Adorazione dei Magi; composizione pomposa per numero di figure, per ricchezza di vesti secondo il costume orientale, per infiniti accessori maestrevolmente condotti. L’autore, come nell’altro quadro, ha immaginato l’azione in un antico castello, ma con un disegno più maestoso ed imponente, poiché, nell’ampio cortile, si vedono volte che fanno punto sopra un grandioso cornicione con aggetti e fregi che vi camminano intorno, sorretto da svelte colonne con capitelli di ordine corintio disposte con bella prospettiva; nel muro di fronte, fra grandi pilastri, si aprono archi a tutto sesto. Sopra le mura, in mezzo a rottami di sassi quasi cadenti, hanno germogliato erbe ,virgulti e arboscelli come suole avvenire nelle fabbriche diroccate e deserte.
 
Dal grande arco del castello e, attraverso delle fenditure dei muri in fondo, e come da lontano, vedi ritratta la serenità in un aere ceruleo sottilissimo che va a sfumare, in colore rosso chiaro, nell’estremo orizzonte, modificato da scabri e rotti sassi di oscure tinte, che vieppiù danno ad esso risalto. Non molto lungi dal castello, sopra una collina, è la Città di Betlemme, nella valle vigneti, casupole, alberi, vie, capanne. Il pittore ha distribuito con savio intendimento la posizione delle diverse figure introdotte, onde servire all’unità dell’azione indispensabile per l’effetto. Egli esprime l’arrivo e l’ingresso al castello dei tre monarchi dell’oriente, accompagnati da numeroso corteggi di uomini i quali, onde avere agio di osservare il meraviglioso spettacolo, si sono sparsi in ogni parte dell’interno del castello stesso, perché vedi due riguardare da una finestra, tre saliti sopra  alcuni sporti di muro, altri sei dietro il gruppo della santa famiglia, un de’ quali con atto vivacissimo asceso sopra la base di una colonna, ad essa abbracciato, si solleva della persona sopra gli altri. Dinanzi alle colonne sono due figure di giovani di belle e capricciose vesti; uno di essi suona un flauto, l’altro un tamburo.
 
Nostra Signora sta seduta; nel di Lei volto leggiadro e in tutta la persona si ravvisa una maestà ed una tenerezza di amore indicibile; con tanta grazia posa leggermente la sinistra mano sulle spalle del bambino e, colla destra, lo sostiene sulle ginocchia, mentre esso, leggiadrissimo e soavemente ridente, con ambo le mani con atto spontaneo stringe il vaso d’oro, che un de’ Magi genuflesso, deposta a terra la regale corona, riverentemente gli presenta. Dietro ad esso gli altri due monarchi recano doni; l’etiope ha nella sinistra il vaso della mirra e colla destra ,sorpreso da meraviglia, fa cenno della bellezza del celeste bambino all’altro re che ha in pugno una navicella con entrovi l’incenso: anche esso rimane come attonito, a guisa di chi stupisce nel vedere una improvvisa e disusata meraviglia.
 
Segue una moltitudine di uomini che sono la corte dei tre sovrani in vari atteggiamenti, seguita da cammelli, cavalli, giraffe, con molti arnesi e persone che l’accompagnano, altri giunti e sull’ingresso del castello, altri a varie distanze lungo la strada di Betlemme. In un fiumicello che traversa la via e lambisce le mura del castello si vedono cavalli passare la placida corrente delle acque e, nelle acque , riflettere la loro immagine. Il nostro autore a significare le nazioni dell’Asia, onde i tre monarchi eran partiti, in mezzo agli uomini della loro corte ha capricciosamente dipinto uno scimmiotto, diritto sui piedi colle mani incrociate dinanzi al petto. Una catena di ferro lo tiene legato al collo, assicurata e ravvolta strettamente nella mano del suo custode. E’ ammirabile il sapere dimostrato dall’artista in questa pittura, poiché in tutta la tavola v’è vaghezza e semplicità aurea di stile, perfezione di disegno, di ombre, di prospettive, diligenza nell’aria delle teste, che si vedono con diverse attitudini secondo il proprio carattere, che ad esse appartiene, quali girate, quali in  profilo, quali chinate, quali in più altre maniere con colorito, così morbido e naturale nelle figure, che paiono di carne, e le altre cose piuttosto naturali che dipinte: così che a far giuste ragioni il nostro Scalabrino devesi a buon diritto noverare fra i più distinti pittori della scuola fiorentina.” Il Volponi aveva dipinto altre due tavole: il Battesimo di Gesù Cristo e S. Girolamo penitente che, forse, sono a Roma. Sono suoi anche  gli affreschi di S. Secondiano e S. Rocco nell’ultima cappella della navata destra.  Lo stesso pittore inoltre   dipinse  l’affresco nella nicchia del secondo altare della navata sinistra in cui è rappresentata la “Natività con S. Chiara e S. Elisabetta d’Ungheria”.  
 
Vi si nota sempre la caratteristica degli sfondi. Nel 1536 gli affidati  transumanti di Visso e di Norcia (coloro che pagavano la fida per far pascolare il bestiame nei territori di Toscanella)  costruirono il loro altare per la devozione a San Michele Arcangelo patrono delle campagne umbre  e a Sant’Antonio Abate patrono degli animali  . In questo loro altare  fecero dipingere al Volponi i due santi negli sguanci della nicchia. Il culto di San  Michele è attestato in Umbria fin dal V secolo ed era un santo molto venerato anche dai Longobardi di Spoleto e di Tuscania. Nel 1534 i francescani fecero costruire un grande coro ligneo: gli intarsi sono bellissimi. Vi posero anche questa iscrizione: “HAEC ANIMO CONCIPITE OMNES. PAUPERTAS EST ODIBILE BONUM. SANITATIS MATER. CURARUM REMOTIO. SAPIENTIAE REPERTRIX.  NEGOCIUM SINE DAMNO. POSSESSIO SINE CALUMNIA. IRRETRACTABILIS SUBSTANTIA. CERTA FORTUNA. SINE SOLLECITUDINE FOELICITAS. ANNO DOMINI MCCCCCXXXIIII” 1534,  
 
Ricevete tutti questi sentimenti nell’animo. La povertà è un bene sgradevole. Origine della purezza. Rimozione delle preoccupazioni. Trova la saggezza. Impresa senza danno.  Possesso senza raggiro. Bene irrevocabile. Buona sorte sicura. Felicità senza angoscia.  Questo era il grande messaggio francescano che ravvivava la fede dei figli di S. Francesco i quali assistevano tutti i  cristiani che si recavano al convento per culto, venerazione e necessità secondo il messaggio autentico di San Francesco!



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